In Iran il presidente Ahmadinejad e la Guida Suprema Khamenei si fanno la guerra. Lo spiega sul FOGLIO di oggi, 22/09/2011, a pag. III, con il titolo
" Divorzio all'iraniana " Tatiana Boutourline.
Ecco il pezzo:
Tatiana Boutourline Ahmadinejad Khamenei
ATeheran tutti sanno che la rivoluzione non perdona, quando serve divora i suoi figli e non si guarda indietro. Ma nessuna faida iraniana era mai degenerata più rapidamente e con maggiore virulenza di quella tra l’ayatollah Khamenei e il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Come in una casa di cristallo si susseguono accuse e recriminazioni e il capo di un governo, fino a non molto tempo fa definito da Khamenei “il più popolare” nella storia della Repubblica islamica, viene minacciato di impeachment e costretto a scansare accuse di corruzione, abuso d’ufficio, stregoneria, sedizione e persino apostasia. Il suo nome gira di bocca in bocca come protagonista di una feroce battuta riciclata: “Khamenei sta pensando di costruire una nuova arteria cittadina si chiamerà viale Martire Ahmadinejad” (in Iran molte strade hanno nomi di martiri, “martiri” della tradizione sciita, “martiri” della rivoluzione khomeinista e “martiri” della guerra Iran-Iraq, la stessa barzelletta in passato ha già preso di mira altri esponenti della nomenclatura di regime). La stampa internazionale lo definisce un’anatra zoppa, un presidente a mezzo servizio ostaggio dei diktat di Khamenei come prima di lui Rafsanjani e soprattutto Khatami. Riuscirà probabilmente a portare a termine il mandato presidenziale che scade nel 2013 e non se andrà senza lottare, ma la sua parabola politica, al momento, pare destinata al tramonto. Di tutte le trasferte newyorkesi di Mahmoud Ahmadinejad questa è senz’altro la più complicata. Mentre i dissidenti iraniani organizzano manifestazioni contro di lui e i network se lo contendono ancora come una star, mentre gli studenti della Columbia lo invitano a cena e l’agenda resta fittissima, le voci sull’inarrestabile declino del suo potere esigerebbero un coup de théâtre dei suoi. E’ probabile che oggi, nel suo discorso all’Onu, attacchi Stati Uniti e Gran Bretagna tirando in ballo il tema delle riparazioni di guerra per l’occupazione alleata durante il Secondo conflitto mondiale. Mille corposi tomi sull’argomento sono stati fatti stampare da Ahmadinejad come omaggio a leader e delegati dell’Assemblea generale. Non è un soggetto che faccia tremare i polsi e l’inanellarsi delle sue invettive negli anni fa presagire temi più caldi. Con il gradimento della Repubblica islamica in costante declino nelle simpatie regionali tra i postumi dell’Onda verde e le attese suscitate dalla primavera araba – in un recente sondaggio Zogby nei paesi musulmani della regione l’Iran attrae solo il 14 per cento dei consensi – difficile immaginare che Ahmadinejad sappia resistere all’occasione di lanciarsi in una filippica sul riconoscimento della Palestina. Potrebbe essere l’ennesimo azzardo. Emissari della Guida Suprema gli hanno ingiunto di moderare le provocazioni, che Ahmadinejad consideri quella all’Hotel Warwick una vacanza, lasci perdere l’Olocausto e le invettive antioccidentali, varchi la soglia del Palazzo di Vetro senza grilli per la testa. Ma un Ahmadinejad pacato e riflessivo all’Onu non si è mai visto ed è più facile immaginare che rilanci il dado nel tentativo di sparigliare i giochi dei suoi nemici. La prima sfida nel frattempo se l’è giocata sulle teste dei due escursionisti americani detenuti dal 2009 in Iran con l’accusa di spionaggio. A una settimana dalla partenza Ahmadinejad ha annunciato a Nbc e Washington Post l’imminente rilascio dei due, frutto di un “un gesto umanitario unilaterale”. E’ assodato che il gesto non potesse essere il risultato di un ordine emanato dal suo ufficio, ma la tempistica della comunicazione era stata un eccellente viatico per la missione americana. Poi però la magistratura iraniana si è messa di traverso: il presidente non ha l’autorità per liberare i condannati. Shane Bauer e Joshua Fattal restano in prigione, il “caso” vuole poi che uno dei giudici incaricati di siglare i documenti per la scarcerazione sia in vacanza. “E’ stato umiliato, niente simboleggia meglio l’appannamento della sua fortuna politica”, scrive Geneive Abdo su Foreign Policy in un articolo intitolato “The impotence of Ahmadinejad”. Al suo posto, Khatami si sarebbe chiuso in un silenzio offeso e sofferto, Ahmadinejad invece, appena sbarcato, ha incontrato George Stephanopoulos di Abc. Il giornalista gli ha chiesto se stavolta era in grado di offrire delle garanzie in merito alla liberazione. Ahmadinejad ha risposto perentorio: “Noi agiamo in base a quello che diciamo. Se non vogliamo agire non lo diciamo”. Il giorno dopo il giudice è rientrato in servizio firmando i documenti per la liberazione di Bauer e Fattal e Ahmadinejad ha incassato un mezzo successo alla vigilia del suo intervento al Palazzo di Vetro. La mortificazione di Ahmadinejad, più o meno concordata nei tempi e nei modi tra la Guida Suprema e i giudici di Teheran, non era un obiettivo abbastanza rilevante da giustificare l’esposizione dei panni sporchi della Repubblica islamica allo sguardo rapace dei suoi nemici. Khamenei sa che le guerre fratricide che percorrono il suo establishment minano l’immagine del regime. Per vent’anni ha invocato unità e coesione ergendosi ad arbitro al di sopra delle parti. Nessuno ha mai creduto alla sua neutralità, ma a differenza di Rafsanjani, Khamenei è stato un kingmaker sui generis che ha fatto della modestia la sua cifra distintiva. Privo di solide credenziali religiose e sprovvisto di un carisma evidente, Khamenei si è schermito del suo passato da “piccolo seminarista” e ha tessuto la sua tela. Divide et impera è stato il suo motto. Si è servito di Khatami e se ne è sbarazzato. Ha tenuto a distanza Rafsanjani e lo ha colpito. Snobbato dall’aristocrazia clericale, ha formato una nuova classe di mullah e ayatollah di regime e benedetto l’ascesa prima dei pasdaran e poi dei bassiji. Nel corso della sua investitura presidenziale, quando Ahmadinejad è ancora un semi Carneade da cui l’opinione pubblica ancora non sa cosa aspettarsi, l’ex sindaco di Teheran bacia con deferenza la mano di Khamenei. E’ il 2005 nessun presidente lo aveva mai fatto prima e il Rahbar coglie subito la portata simbolica di quel bacio. Khamenei risponde con un abbraccio di una spontaneità altrettanto inusuale. E’ l’inizio di quella che sembra un’alleanza perfetta. Saladino spietato dai pulpiti dei media internazionali, moltiplicatore di sogni di riscatto terzomondista, eterno Godot delle minacce nucleari, il presidente- pasdaran ha per un certo periodo stupito e superato le attese di Khamenei. Del resto le critiche alla gestione economica del suo protetto non lo hanno mai impensierito troppo, l’economia è un’importante scocciatura che però non è mai al centro delle considerazioni strategiche del Rahbar. Il nocciolo della questione per Khamenei è sempre e solo la rivoluzione il futuro e la tenuta della Repubblica islamica un assetto nel quale finalmente uscito dal cono d’ombra, Khamenei aspira a rivestire i panni di un novello Re Sole. Se Ahmadinejad non fosse stato travolto dalla sindrome di Icaro, se solo non avesse preso il volo, lui che non aveva le ali, Khamenei non se ne sarebbe dovuto disfare. Fino all’estate del 2009 poche ombre avevano offuscato il rapporto tra il Rahbar e il suo presidente, ma le proteste, i proiettili e i morti hanno cambiato tutto. Per la prima volta Khamenei si è sporcato le mani, ha perso la sua aura polverosa e schiva e nelle piazze è rimbombato il grido “Khamenei dittatore”. Quattro anni dopo, alla seconda cerimonia d’investitura di Ahmadinejad, il presidente si è lanciato nuovamente verso il Rahbar per baciarlo, ha poggiato le labbra sulle sue spalle, ma Khamenei lo ha trattenuto infastidito, come a evitare che si avvicinasse troppo. Khamenei sa di aver perso molto, forse troppo nel giugno del 2009 e, di lì a poco, inizieranno le prime schermaglie tra il leader supremo e il suo presidente. Già nel 2005, appena insediato, Ahmadinejad non perde tempo a premiare il corpo dei pasdaran con 10 miliardi di dollari in contratti distribuiti a società di comodo. I pragmatici insorgono, alcuni conservatori anche oltranzisti si indignano. Non succede nulla nemmeno quando il cosiddetto fondo per le emergenze viene prosciugato. A Khamenei non sfugge il costante e spericolato trasferimento di fondi dal presidente ai suoi alleati, ma più che a preoccuparsi per le traiettorie dei soldi si inquieta per quella delle persone. E’ durante il secondo mandato di Ahmadinejad che l’inserimento dei suoi fedelissimi raggiunge l’acme. Nell’esecutivo del 2005 i mullah mantengono una presenza forte nel Consiglio dei ministri (più o meno un terzo) e detengono poltrone importanti come la Difesa, gli Interni, la Giustizia e la Cultura. Poi, gradualmente, Ahmadinejad inizia a sbarazzarsi della rappresentanza clericale nel suo esecutivo. Congeda protetti di Khamenei come il ministro degli Esteri Manouchehr Mottaki, quello della Cultura Saffar Harandi e dell’Intelligence Gholam Hussein Ejehei. Ed è stato proprio il tentato siluramento del successore di Ejehei, Heydar Moslehi, l’affronto intollerabile. Ancora più decisivo nel deterioramento dell’intesa tra Khamenei e Ahmadinejad è stato il ruolo di Esfandiar Rahim Mashaei. Consuocero e amico storico di Ahmadinejad, Mashaei è diventato in un paio d’anni l’uomo più chiacchierato del paese. Dipinto di volta in volta come un imbroglione, un satanista, una spia, o un Rasputin che tiene Ahmadinejad sotto scacco, Mashaei è il più fidato tra i consiglieri del presidente. Gli sono stati affidati più di 13 incarichi. Quasi in ogni occasione Khamenei ha avuto da ridire e, quasi in ogni occasione, Ahmadinejad lo ha trattenuto finché ha potuto e poi destinato a una posizione di ancora maggior rilievo. Mashaei è stato capo di gabinetto e inviato speciale del presidente, suo plenipotenziario e, stando alle indiscrezioni, il suo successore designato. Scaltro secondo i detrattori, lungimirante per i fan, Mashaei possiede un’abilità che turba molto la nomenclatura clericale. Il migliore amico del presidente annusa l’aria e riposiziona di volta in volta Ahmadinejad a seconda della convenienza e dell’interlocutore. Liberale (per quanto lo possa essere un ex pasdaran iraniano) in tema di costumi femminili, Mashaei ama rappresentarsi come un uomo del dialogo che getta ponti verso gli iraniani all’estero e non ha paura dei gusti dei suoi contemporanei. Sta rinverdendo a forza di mostre e simposi il mito di Ciro il Grande e ha detto che in Iran si dovrebbe poter festeggiare il Nowruz, il nuovo anno zoroastriano, con tutti gli onori. Ha vagheggiato un Iran in cui ci sia libertà di ascoltare non tutta ma molta più musica, un Iran in cui per le strade ci si possa tutti vestire più colorati. Ha assicurato che gli iraniani sono amici di tutti i popoli del mondo persino degli israeliani. Le sue parole hanno fatto indignare Khamenei (“commenti privi di logica” ha sentenziato), ma mai quanto quelle sull’islam iraniano però. In un furbo mix tra nazionalismo e culto del Mahdi, Mashaei ha affermato che “visto che l’islam è una religione e non una cultura l’Iran dovrebbe tenersi stretta la propria e lasciare l’arabo agli arabi. Ma l’ostilità di Khamenei è dovuta soprattutto alla rappresentazione di un islam iraniano in cui i mullah sono pressoché superflui perché il loro amato presidente è in “contatto diretto” con il dodicesimo imam e non necessita di particolari mediazioni. Mashaei è divenuto la bestia nera della dirigenza clericale e non è sfuggito il suo tentativo di strizzare l’occhio all’elettorato di Moussavi. “Ahmadinejad è sotto l’influenza di Satana”, è esploso l’ex mentore, Ayatollah Mesbah Yazdi, formalizzando la rottura con il suo presidente. La scommessa di Mashaei (e di Ahmadinejad) in un momento in cui sanno di dover giocare il tutto per tutto è quella di intercettare il consenso di una classe media la cui soglia del dolore è troppo bassa per tornare alla piazza. Per questi e altri motivi Mashaei e gli altri fedelissimi dell’entourage di Ahmadinejad sono stati ribattezzati i “deviazionisti”. Più di cinquanta collaboratori del presidente sono stati fermati, 25 arrestati e il governo che aveva giurato di far marcire la cossiddetta “tycoon mafia” di Rafsanjani si trova costretto a difendersi da accuse infamanti. I siti pasdaran Javan e Jahan on line infilzano ormai anche il presidente. Il fronte dei pasdaran si è spaccato in vista delle legislative del 2012, mentre crescono le ambizioni dei papabili per le presidenziali dell’anno successivo. Ma Ahmadinejad non può guardare troppo lontano. Il suo Mashaei è stato trascinato nel più grande scandalo finanziario della storia iraniana. La frode da 2,6 miliardi di dollari risale al 2007 e coinvolge prestiti estorti a più istituti di credito, inclusa la Banca Saderat e dirottati per acquistare società a loro volta sfruttate per ottenere prestiti ancora più onerosi. Ahmadinejad ha difeso i suoi sostenendo di essere stato lui a scoprire la frode grazie all’aiuto dei suoi collaboratori. Nel frattempo i beni dell’uomo d’affari Amir-Mansour Aria sono stati congelati e Aria è, guarda caso, ritenuto vicino a Mashaei. Se la liberazione degli escursionisti americani arriva in tempo utile per l’annuale viaggio americano del presidente, le ripercussioni della frode iraniana del secolo rischiano di riverberarsi pericolosamente oltre. Nel frattempo mentre a Teheran si accusano i deviazionisti di aver stretto un patto con Khatami e Rafsanjani o addirittura con i leader dell’Onda verde, Moussavi e Karroubi, ad Ahmadinejad non resta che auspicarsi che il suo discorso all’Assemblea generale sia forte abbastanza da coprire il resto del frastuono.
Per inviare al Foglio la propria opinione, cliccare sull'e-mail sottostante.