E' destino che Carlo Panella, ogni 30 anni o giù di lì, prenda una cotta per un dittatore. Gli sucesse con Khomeini, che scambiò come il liberatore della Persia che cacciava il bieco Reza Palhavi, non accorgendosi, anche se era sul posto, che con l'arrivo di Khomeini era la fine di qualunque libertà.
Non ci voleva molto a valutarlo, ma l'esigenza di vedere in ogni rivoluzione il seme della libertà, rende ciechi.
Panella, onestamente, lo ammise dopo, quando capì, e ne ha fatto oggetto anche di un libro-confessione, arrivato però trent'anni dopo.
Adesso è l'ora di Erdogan, ne scrive con simpatia e fiducia, travisando i misfatti che il gradasso turco compie, scrivendone in termini elogiativi su LIBERO e FOGLIO.
Abbiamo già scritto qualche commento in proposito, oggi, 21/09/2011, arriva l'ultimo pezzo, ultimo, temiamo, solo in ordine di data, sul FOGLIO, a pag.IV, un pezzo dal titolo " Un amico di Israele spiega dove ha sbagliato Gerusalemme".
Non mettiamo certo in dubbio l'amore di Panella per Israele, e ci sembra più che lecito criticarne gli atti di governo. Ma Panella, che pure è profondo conoscitore del mondo arabo, forse tra i più informati, come testimoniano i suoi libri, tutti segnalati nella nostra rubrica 'libri raccomandati', ha preso un'altra volta la sbandata. I giudizi su Erdogan e la politica del suo governo non sono degni di un esperto di cose islamiche quale Panella è.
Guarirà in fretta, o dovremo aspettare qualche decennio ?
Ecco l'articolo:
Il Foglio-Carlo Panella: " un amico di Israele spiega dove ha sbagliato Gerusalemme"
Palestinesi che fanno – e bene – politica e israeliani attestati su posizioni declaratorie e che, in buona sostanza, non fanno politica: chi ama Israele e ha a cuore la sua sicurezza assiste oggi sconcertato a questa inversione di ruoli. La mossa di Abu Mazen di chiedere il mutamento della membership all’Onu; la sua capacità di imbrogliare il mondo – perché di imbroglio si tratta – con una pacificazione con Hamas soltanto di facciata, che però presenta all’Onu una falsa volontà unitaria; la scelta dei tempi, con un Consiglio di sicurezza che (oltre a Russia e Cina) conta cinque paesi o musulmani o obbligati a tener conto di minoranze musulmane sono frutto di un’eccellente capacità politica. Mai visto nulla di simile in un movimento palestinese che sinora “non ha mai perso un’occasione per perdere un’occasione”, come diceva Abba Eban. Bibi Netanyahu, invece, ha optato per una strategia basata sulla stasi inerziale, si è arroccato sulla difesa dell’esistente, e ha sbagliato la mossa cruciale. A metà agosto – come ha rivelato la radio delle Forze armate di Israele – dopo forti pressioni americane e telefonate di Barack Obama al premier turco, Recep Tayyip Erdogan, è stato definito un protocollo che chiudeva la crisi con la Turchia per la morte di nove cittadini turchi nell’arrembaggio israeliano – legittimo – alla Mavi Marmara. La firma di quel protocollo avrebbe segnato la ripresa dell’alleanza con la Turchia, con un Erdogan che, segnale inequivocabile, il 3 dicembre 2010 aveva inviato due Canadair per contrastare le fiamme che divoravano le colline di Haifa. Tutta la battaglia all’Onu avrebbe oggi un altro segno. Ma Avigdor Lieberman si oppose frontalmente e Netanyahu all’ultimo negò la sua firma. Erdogan, sconcertato, ha iniziato una specie di guerra fredda, che continuerà ora nelle acque dell’Egeo, perché in realtà il più forte contenzioso con Ankara riguarda l’accordo di Israele con i greco-ciprioti per l’estrazione di gas nei due nuovi giacimenti offshore. Ma la Turchia su Cipro non ha tutti i torti, anzi: nel 2004 i turcociprioti hanno accettato per referendum la soluzione confederale proposta dall’Onu, che fu rifiutata invece dai greco-ciprioti. Anche nell’Egeo, però, Israele non tratta, non fa politica, manda piattaforme, fa accordi con la Grecia nemica storica della Turchia e fa di tutto per consolidare l’inimicizia con Ankara. Paradigmatica è stata la reazione di Lieberman alla rottura turca delle relazioni: minaccia di appoggio ai separatisti e terroristi curdi del Pkk e riconoscimento del genocidio armeno. Queste iniziative hanno dell’incredibile, offendono il più grande alleato di Israele in Turchia: le Forze armate.Infine, ma in realtà innanzitutto, la gestione delle trattative con i palestinesi. Scaduto il 26 settembre 2010 il congelamento degli insediamenti, Netanyahu ha proposto ad Abu Mazen di prorogarlo per 60 giorni in cambio del riconoscimento del carattere ebraico dello stato di Israele. Richiesta più che legittima in sé, che però implica la rinuncia al ritorno dei profughi e che in quella forma è suonata provocatoria. Risultato: negoziati falliti, là dove sarebbe bastato congelare gli insediamenti che rispondono soltanto a una logica demografica israeliana, ma non quelli indispensabili alla sicurezza. Questa inusuale afasia politica ha cause profonde: Netanyahu non ha ancora compreso che il quadro del medio oriente, nel febbraio del 2011, ha smesso di essere quello disegnato dalla Guerra fredda e che è urgente un cambio di strategia, perché la stasi, lo status quo, da lui prediletti, non sono più premianti per Israele. La seconda causa è il peso eccessivo che il Likud concede oggi alle posizioni oltranziste del milione di ebrei russi che Lieberman rappresenta: retaggio paradossale perché Yisrael Beiteinu esprime una concezione nazionalista ebraica direttamente mutuata dal nazionalismo grande-russo di marca brezneviano-sovietica. Trionfo muscolare della non politica.
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