Sul FOGLIO di oggi, 21/098/2011, a pag.IV, con il titolo "Trattative forsennate all'Onu per uno stato palestinese già in crisi economica", una analisi dell'economia palestinese, da leggere per capire in quali condizioni i palestinesi pensano di potersi ritenere uno Stato.
Ecco l'articolo:
Roma. In arrivo a New York per l’apertura dell’Assemblea generale dell’Onu, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha detto di essere disposto a incontrare subito il rais palestinese, Abu Mazen, per rilanciare il dialogo di pace. I negoziati dell’ultim’ora sono frenetici, Israele e Stati Uniti cercano in ogni modo di contenere l’azione di Abu Mazen, deciso a chiedere il riconoscimento dello stato palestinese con i confini del 1967 all’Assemblea e al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Secondo la Cnn, i diplomatici americani stanno preparando un piano per lasciare che la richiesta palestinese arrivi al Consiglio di sicurezza ma senza prevedere un voto: in questo modo l’Amministrazione Obama non dovrebbe porre quel veto che ha annunciato ma che non vorrebbe mai esercitare. Il Quartetto sta preparando una dichiarazione con una timetable precisa per la ripresa dei negoziati. Gli americani stanno aprendo anche all’ipotesi di non ostruire il passaggio all’Assemblea, ma in cambio di caveat molto precisi: tipo impedire il ricorso alla Corte internazionale dell’Aja richiesto dai palestinesi. Fonti del Foglio confermano che si continuerà a negoziare anche dopo la presentazione ufficiale della richiesta, mentre l’Europa continua a contorcersi nelle sue indecisioni. Per Abu Mazen ogni proposta pare irricevibile: è arrivato fino a qui, e non è disposto a fare passi indietro. Ma, come ha dichiarato lunedì, questa scelta potrebbe costare cara. Letteralmente. I problemi economici dell’Anp sono apparsi in tutta la loro gravità ieri quando i sauditi hanno annunciato di voler dare 200 milioni di dollari ad Abu Mazen: negli ultimi tre mesi, per due volte non sono stati pagati gli stipendi ai 150 mila dipendenti dell’Anp (che governa soltanto la Cisgiordania, a Gaza c’è Hamas). Secondo l’ultimo rapporto della Banca mondiale, Ramallah nel 2011, a causa di una brusca frenata degli aiuti internazionali, ha già un deficit di oltre 300 milioni di dollari. Il Fmi e l’Onu (cioè quell’Onu che vuole approvare la creazione dello stato) sostengono che i progressi dell’Anp nel “nation building” – la costruzione di istituzioni nazionali funzionanti – sono insufficienti e i territori rischiano una severa crisi fiscale. Come spiega al Foglio Elliott Abrams del Council on Foreign Relations, è concreto il rischio che l’America, messa all’angolo dall’attivismo di Abu Mazen, tagli i finanziamenti (circa 800 milioni di dollari l’anno), aggravando una situazione economica precaria. Cos’è successo alla “success story” della Cisgiordania che, fino all’anno scorso, cresceva all’otto per cento, attirava gli investimenti dei paesi stranieri, soprattutto del Golfo, e aveva un sistema di tassazione in grado di assicurare entrate quasi costanti nelle casse della “Banca centrale” di Ramallah? La risposta è semplice: le riforme non sono state sufficienti a sostenere l’economia, così più del 50 per cento del budget effettivo dell’Anp dipende ancora dagli aiuti dei paesi stranieri, cioè è uno stato in cui le principali entrate provengono da risorse esterne al tessuto economico del paese. Non sta in piedi da solo, insomma: prospera se i paesi vicini (e gli alleati lontani), a cominciare da Israele, continuano a partecipare con i loro posti di lavoro o finanziamenti allo sviluppo della Cisgiordania. La crescita di 8 punti percentuali degli ultimi anni è stata inflazionata dalla pioggia di soldi stranieri: dal 2008 al 2010 i prezzi delle case sono aumentati del 30 per cento assieme agli investimenti di società dei paesi del Golfo attratti dai progetti in cui l’Autorità degli investimenti palestinesi (finanziata da altri) metteva soldi. Abrams spiega che “Stati Uniti ed Europa hanno mantenuto fede ai propri programmi di finanziamento, ma i paesi del Golfo hanno tagliato ferocemente gli aiuti, dando nel 2011 soltanto 80 milioni di dollari”. E’ la solita ambiguità che regola le relazioni e le strategie tra i paesi del medio oriente: tutti fanno la voce grossa con l’occidente in sostegno allo stato palestinese all’Onu (sul New York Times l’ex ambasciatore saudita a Washington, Turki al Faisal, ha minacciato l’America di una rottura diplomatica in caso di veto) e intanto tagliano gli aiuti – salvo poi i gesti spettacolari dell’ultim’ora. Gran parte dello sviluppo dell’Anp è stato anche garantito dal piano di Netanyahu che, a partire dal 2009, ha eliminato alcune barriere al libero scambio di capitali e merci in Cisgiordania, permettendo così alle piccole e medie imprese palestinesi di espandersi. Con il voto all’Onu, è probabile che anche quest’agevolazione economica sia sospesa.
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