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La Stampa Rassegna Stampa
16.09.2011 A.B.Yehoshua: la sua opinione sulla letteratura ebraica
Lo intervista Mario Baudino

Testata: La Stampa
Data: 16 settembre 2011
Pagina: 45
Autore: Mario Baudino
Titolo: «Yehoshua: si fa presto a dire letteratura ebraica»

Sulla STAMPA di oggi, 16/09/2011, a pag.45, con il titolo " Yehoshua: si fa presto a dire letteratura ebraica ", Mario Baudino intervista A.B.Yehoshua, il cui prossimo libro uscirà in edizione italiana a fine novembre con il titolo "La scena perduta" (Einuadi).

A.B.Yehoshua

La letteratura ebraica non è quel che in genere si immagina: non è tutta la letteratura scritta da ebrei, ma quella scritta da ebrei e che riguarda temi ebraici. Kafka non fa parte di quest’ambito, e tanto meno Proust. Giorgio Bassani, invece, sì. Abraham Yehoshua, domani, ne parlerà a Roma, nel fine settimana dedicato al festival della cultura ebraica. Ma questa distinzione che fa il grande scrittore israeliano non è solo tecnica, va al di là di un ragionamento di critica o storia letteraria. È noto che varie volte Yehoshua ha espresso la propria ferma opinione che per gli scrittori ebrei di tutto il mondo sarebbe importante familiarizzarsi con l’ebraico, proprio come ogni intellettuale, nel Medioevo, conosceva il latino. Anche per superare una certa disattenzione reciproca fra gli ebrei di Israele e quelli della diaspora.

Intende dire che la letteratura ebraica, che è stata così importante per la nostra cultura, dà segni di stanchezza?

«Per me come israeliano la letteratura ebraica non è così fondamentale, anche se ovviamente quella israeliana è parte di essa. O almeno, non lo è in Israele, dove i problemi sono diversi, e magari si guarda con maggiore interesse, che so, a Dostoevskij o Faulkner. La letteratura della diaspora nasce da scrittori ebrei che agivano in un ambiente non ebreo, appunto, isolati in un mondo ostile, e quindi con un forte problema legato all’identità. Dovevano confrontarsi soprattutto con l’antisemitismo. Per noi israeliani c’è semmai il rapporto con la situazione delle minoranze che vivono nel nostro Stato, coi palestinesi per esempio. Con le minacce alla sicurezza, i problemi della pace e della giustizia. L’antisemitismo, almeno per gli scrittori, non è più il tema fondamentale».

Lo scrittore ebreo esiste ancora, in quanto tale, al di fuori di Israele?

«Sì certo. Però le voglio raccontare un aneddoto. Saul Bellow era mio amico. E si chiacchierava del fatto che si sentiva sempre più infastidito al sentirsi chiamare scrittore ebreo. Lui era americano. Questo dà luogo a molte riflessioni».

In che senso?

«Nel senso che io sono indubbiamente uno scrittore ebreo. Scrivo in ebraico, mi rifaccio una tradizione che per me è importantissima, anche se non più delle altre, non più per esempio di Dante Alighieri, ma è la mia, quella della mia lingua. La letteratura ebraica in senso lato resta significativa, ma non come è stata fino alla seconda guerra mondiale, o subito dopo, basti pensare alla riflessione sull’Olocausto. Ora il problema esistenziale, dico dell’esistenza stessa degli ebrei e della loro cultura, è sentito in maniera diversa. È Israele il nodo centrale».

È questo secondo lei il motivo della straordinaria fioritura della letteratura israeliana?

«È ciò che si impone, e attrae l’attenzione di tutto il mondo. Siamo un piccolo Paese con 6 milioni di abitanti, ma la nostra letteratura interessa a tutti».

Come lo spiega?

«Perché questa letteratura parla di una società moderna e democratica che combatte per la sua vita e la sua legittimazione».

E questo è uno di quei problemi che riguardano appunto tutti?

«Le faccio un esempio italiano, di un autore a me molto caro. Leonardo Sciascia affronta il tema della mafia. Ora per questo è molto interessante, perché la mafia non riguarda solo la Sicilia, ma tutta l’Italia. E non solo l’Italia, anche Israele».

Lei si è espresso varie volte per una letteratura «impegnata», dove l’impegno consiste nell’affrontare temi sostanzialmente etici attraverso la narrazione. Ritiene che il successo degli scrittori israeliani nasca da questa forma di impegno?

«Per molti aspetti sì. La situazione del Medio Oriente pone domande cruciali, cui bisogna rispondere».

Sembra quasi che valga la formula: più problemi, più letteratura. Non è del tutto confortante.

«Se guardiamo all’Europa, vediamo una grandissima letteratura proprio al tempo dei totalitarismi. Fra il 1918 e il 1939 c’è stata una eccezionale creatività. Scrittori giganteschi, da Thomas Mann a Kafka, a Pirandello. L’Europa bruciava e la creazione diventava sempre più importante».

Una società calma, stabile, ordinata, esprime una cultura mediocre? Lei darebbe la grande letteratura israeliana in cambio della pace?

«A me basterebbe che per qualche mese almeno non si dovesse menzionare Israele sui giornali di tutto il mondo».


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