Sulla STAMPA di oggi, 16/09/2011, a pag.22, Francesca Paci intervista il ministro israeliano Dan Meridor, titolo " Sì allo Stato palestinese ma solo con i negoziati". Una intervista interessante, che fa capire quanto la posizione del governo israeliano sia l'opposto di quella che ci viene sempre presentata.
Dan Meridor
In questi giorni la Knesset sembra un fortino inaccessibile che controlla la regione dalle alture di Gerusalemme. «Non è un momento semplice», ammette il ministro dei Servizi segreti Dan Meridor, consigliere strategico di Bibi Netanyahu e parte del fidatissimo gruppo degli otto cui il premier israeliano ricorre per ragionare sugli sviluppi della crisi con la Turchia.
Il premier turco Erdogan ha affermato che riconoscere lo Stato di Palestina è un dovere. Cosa significa per Israele, a pochi giorni dall’appello di Abu Mazen all’Onu?
«Uno Stato Palestinese dev’essere stabilito, ma la via è il negoziato e non il riconoscimento di uno Stato che non esiste. È necessario sedersi, discutere i confini, concordare la sicurezza. Nessun attore esterno può imporre nulla, neppure l’Onu».
Il problema è il negoziato, bloccatosi con l’uscita di scena del premier Olmert. Non è così?
«Sfortunatamente negli ultimi tre anni i palestinesi hanno sempre rifiutato la mano che Israele ha teso loro. Con Olmert potevano ottenere il 100% di quanto chiedevano e invece rilanciavano, dicevano che sarebbero tornati al tavolo delle trattative e non sono tornati. Eravamo d’accordo sui due Stati ma loro non erano d’accordo sul chiuderla lì, non volevano smettere di reclamare, insistevano su quello che chiamano il diritto al ritorno ed è assurdo. Che l’Onu possa riconoscere lo Stato di Palestina senza chiedere conto di cosa avverrà in seguito è un grave errore. Il giorno dopo che Israele acconsentisse alla nascita dello Stato palestinese ricomincerebbero a chiedere».
Lo stallo negoziale sta diventando un problema regionale. Le compagnie low cost hanno interrotto i voli tra Tel Aviv e la Turchia. Come finirà?
«I charter Tel Aviv-Antalya sono stati sospesi perché la gente non partiva più. Con Ankara abbiamo difficoltà commerciali, che credo riusciremo a recuperare, e difficoltà politiche. Erdogan corre la sua corsa personale indipendente dai palestinesi. Il rapporto della Commissione Palmer funzionava tutto sommato sia per Israele che per la Turchia: criticava lo spiegamento “eccessivo” delle nostre forze ma concludeva che il blocco di Gaza era legittimo. Era un inizio per parlare e invece Erdogan ha voluto attaccarci. Confido nel disgelo perché è nell’interesse di entrambi».
La Commissione Palmer consigliava anche a Israele «un’adeguata manifestazione di rammarico». Molti si domandano cosa costasse chiedere scusa, se poteva salvaguardare la stabilità regionale.
«Ho un punto di vista diverso, ma mi limito ai fatti. Israele si è scusato. Insisto, però: il rapporto Palmer ha anche riconosciuto la legittimità del blocco. La storia doveva finire lì».
Invece i rapporti con Ankara sono pessimi, l’Egitto ringhia, l’ex direttore dell’intelligence saudita «consiglia» agli Usa di non bloccare la richiesta di Abu Mazen all’Onu, la Giordania trema al punto che re Adbullah ha ribadito l’esistenza di uno Stato palestinese fuori dei propri confini e Israele ha evacuato l’ambasciata ad Amman. Come uscirete dall’isolamento?
«Il Medio Oriente sta andando verso un grande terremoto regionale e nessuno ne conosce l’esito. Egitto, Siria, Libia, tutti evocano lo Stato palestinese ma il vero problema è il cambio dei loro regimi, un’incognita. L’Arabia Saudita parla, ma dovrebbe condividere con Israele la preoccupazione per la nuclearizzazione dell’Iran...».
Non crede che la nascita dello Stato palestinese aiuterebbe?
«Non lo so, ma noi siamo pronti al negoziato, purtroppo non abbiamo un partner. Capisco che Abu Mazen abbia problemi di leadership con Hamas, ma è il nostro unico interlocutore».
Cosa farete quando i palestinesi si presenteranno all’Onu?
«Vedremo cosa decideranno le Nazioni Unite. Non sarà un momento semplice. La pressione internazionale non aiuta, anzi. Noi e i palestinesi dobbiamo sederci e parlare».
Eppure basta guidare per le strade della Cisgiordania per notare che le colonie ebraiche sono in aumento. Non è così?
«Noi ci siamo fermati per dieci mesi, ricorda la moratoria? Ma i palestinesi non hanno voluto chiudere il conflitto e i negoziati si sono arenati. Ora Israele non può impedire a nessuno di comprare una casa solo perché è ebreo: questo è irrealistico».
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