Daniele Raineri intervista Benny Morris sul FOGLIO di oggi, 15/09/2011, a pag.1/4, con il titolo "Non è più l'Israele di una volta, dice Benny Morris".
A noi sembra che Morris sottolinei che Israele è sotto attacco, e che le sue interpretazioni della società israeliana meritino una lettura attenta, e che il titolo che NEWSWEEK ha dato al suo pezzo sul settimanale americano rientri di diritto fra quelle titolazioni ad effetto che hanno degradato il giornalismo contemporaneo. " Israele è finito" non riflette le opinioni espresse da Morris, il quale si limita a descrivere una società democratica, quella israeliana, particolarmente influenzata dagli avvenimenti politici della regione. L'intervista di Raineri riassume bene il pensiero di Morris, condiviso per altro da larga fetta dell'opinione pubblica israeliana.
Non condividiamo però l'aver posto un eccessivo rilievo alla "crisi profonda ed esistenziale dello Stato ebraico", come titola il FOGLIO. Se Raineri vivesse in Israele saprebbe che quella crisi non esite affatto. Esistono problemi, e anche grandi, ma di facile comprensione. Non è una vita tranquilla, sapendo che ci sono stati che vorrebbere far sparire il tuo dalla faccia della terra.
Ecco l'articolo:
Benny Morris
Il Cairo, dal nostro inviato. L’ambasciata israeliana è – era – un piccolo appartamento ai piani alti di un palazzone in una zona molto tranquilla della capitale, sulla salita dolce che porta a uno dei ponti sul Nilo. La piccola bandiera con la stella di David non c’è più, è stata strappata per una seconda e ultima volta e rimpiazzata da quella egiziana che ora quasi non si nota sulla facciatona in stile sovietico – al Cairo gli edifici sono quasi tutti accomunati dallo stesso grado di bruttezza, è funzionalismo architettonico anni Cinquanta finito male, muraglie ingrigite più qualche albero più condizionatori d’aria montati all’esterno. Qui sei giorni fa l’assalto della folla al palazzo che contiene la sede diplomatica è stato così furioso che ci sono stati quattro morti e quasi mille feriti e del muro di protezione esterno – era in costruzione – non è rimasta biblicamente pietra su pietra. Le sei guardie israeliane asserragliate dentro se la sono cavata soltanto perché l’ambasciatrice americana, Anne Patterson, una signora di ferro arrivata l’anno scorso dalla missione in Pakistan, è finalmente riuscita dopo due ore a raggiungere al telefono il generale Tantawi, che osservava l’assedio in televisione ma non interveniva, con la mente offuscata da calcoli di potere: quanti morti israeliani fatti a pezzi dalla folla inferocita potrebbero convenire alla giunta militare che presiedo per dimostrare al mondo intero che è necessario che conserviamo il potere nelle nostre mani? In linea con la Patterson e con Washington, Tantawi ha infine acconsentito all’ultimo minuto a mandare i suoi commando a salvare gli assediati. L’assalto all’ambasciata del Cairo è uno degli episodi che fa scrivere a Benny Morris su Newsweek che Israele è sotto attacco. Morris è uno dei maggiori storici del paese, di certo non nuovo ai lettori del Foglio. Sua è una monumentale storia del Mossad che celebra la battaglia anonima degli uomini che proteggono la sopravvivenza dello stato, suo è il breve saggio, tradotto in Italia sulle pagine del Corriere della Sera, che spiega che il secondo Olocausto del popolo ebraico avrà una forma ben diversa dal primo, ma gli effetti saranno identici: questa volta al posto del regime hitleriano ci sarà il regime iraniano, accecato da una simile volontà di sterminio, da una visione millenaristica del mondo e da un sovrappiù di inestinguibile odio religioso, e che tra poco tempo avrà a disposizione l’arma nucleare. La frugalità di Ben Gurion L’articolo su Newsweek, pubblicato due giorni fa e titolato “Israele è finito?”, si spinge però più in là. Dopo la constatazione, invero non molto originale, che Israele è sotto assedio da parte dei vicini e del mondo arabo, Morris scrive che il paese e i suoi abitanti sono profondamente cambiati. Più di cinquant’anni fa i leader guidati da Ben Gurion credevano e speravano di essere intenti a costruire una democrazia attenta al sociale, in grado di soddisfare una serie di requisiti egualitari come un servizio sanitario nazionale pubblico, imposte progressive, assistenza ai bambini, case sussidiate dallo stato. Ben Gurion, che non possedeva quasi nulla e che alla fine si ritirò in un primitivo rifugio nel deserto del Negev, era il modello che ben rappresentava lo stile di vita austero e la grandezza di quei padri fondatori. Adesso, dice Morris, Israele non è più così. “Una crisi esistenziale, profonda, interiore è arrivata”. In parte deriva dalla natura del paese che muta e che ora è più a destra, più restrittivo e meno liberale ed egualitario. Molti israeliani hanno la sensazione che la vita stia peggiorando. Nascono accampamenti in piazza – non molto grandi – dove manifestanti tra i 25 e i 45 anni di età, con la robusta partecipazione di persone più anziane, protestano contro la tassazione non progressiva, i bassi stipendi e il costo troppo alto degli affitti e dei beni di consumo che rendono difficile arrivare alla fine del mese. Israele non sarebbe più attraente per i suoi giovani intellettuali e creativi: Morris scrive che a Berlino esiste una comunità di 10 mila giovani israeliani che lavorano in campo artistico e preferiscono stare dove un asilo costa 120 dollari contro i 700-1.000 di Tel Aviv e i cetrioli costano mezzo dollaro al chilo contro il dollaro dei banchi di Tel Aviv. La cosa gli è costata subito il sarcasmo di un altro attento osservatore di Israele e delle cose mediorientali, Martin Kramer: “Lui è sempre più calato nel suo ruolo di profeta di apocalisse per gli ebrei, sia davanti al nucleare iraniano sia davanti ai cetrioli”. Morris – che si proclama “sionista” e per questo è stato criticato nel suo lavoro di storico, che è nato in un kibbutz e che da paracadutista è stato ferito nel 1969 sul Canale di Suez – scrive che i nuovi israeliani sono diversi dai padri fondatori. “Negli anni Cinquanta Israele era un paese sottosviluppato pieno di sionisti ideologicamente motivati e decisi a sacrificarsi per il bene comune”. Oggi Israele ha un’economia piena di slancio, guidata da industrie sofisticate e in competizione con il resto del mondo e ha una popolazione guidata da individui che vogliono soprattutto una vita buona. “E invece vedono che una fetta troppo grande della torta nazionale va ai settler in Cisgiordania (che tendono a essere religiosi e ultranazionalisti) e agli ultra ortodossi (che non contribuiscono quasi per nulla all’economia ed evitano il servizio militare di leva obbligatorio)”. Quel che è peggio, continua lo storico israeliano, è che il settore hard-core della società sforna nuovi nati a ritmo impetuoso:quelli tendono ad avere dai cinque agli otto bambini per famiglia, contro i due, tre delle famiglie secolari. Questo si traduce in attenzione da parte dei politici, in un potere sproporzionato e quindi in benefici economici, anche se gli ultra ortodossi sono il segmento più povero di Israele perché la maggior parte non ha un lavoro. E la leadership politica del paese? Morris scrive che vive nell’opulenza e per questa ragione la sensazione è che su questi temi viva staccata dalla realtà. E questo include anche il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi predecessori Ehud Olmert ed Ehud Barak. A una recente protesta di Tel Aviv, a cui hanno partecipato350 mila persone, la folla cantava sull’aria di una filastrocca per bambini: “Bibi ha tre case / per questo noi non ne abbiamo nemmeno una”. Non importa, spiega Morris. Alla fine, la somma delle questioni interne sparirà davanti alla marea terrificante dei problemi che stanno arrivando da fuori, con la deriva della primavera araba e l’imminente dichiarazione alle Nazioni Unite della nascita dello stato palestinese. “Il messaggio islamista che parte da Ankara e ora occupa il centro della scena al Cairo include un nucleo duro di antisionismo, che di solito corre a braccetto con fervori antisemiti”.
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