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Il Foglio Rassegna Stampa
13.09.2011 Autoproclamazione dello Stato palestinese, conseguenze possibili
Analisi di Carlo Panella, con qualche fraintendimento

Testata: Il Foglio
Data: 13 settembre 2011
Pagina: 6
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Abu Mazen ha calato l'asso»

Riportiamo dal FOGLIO dioggi, 13/09/2011, a pag. II, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Abu Mazen ha calato l'asso ".


Carlo Panella   Abu Mazen con Yasser Arafat

Stupisce che sia proprio Carlo Panella ad aver così frainteso la situazione in Medio Oriente. Panella definisce, giustamente, l'autoproclamazione dello Stato palestinese un " macigno sulle trattative " che "porrà qualsiasi governo di Gerusalemme in una posizione scabrosa se mai vorrà abbandonare la posizione attendista mantenuta dal governo di Bibi Netanyahu e deciderà di tentare una seria via negoziale.". Netanyahu avrebbe invece una posizione 'attendista' sui negoziati? E perchè? Perchè non ha ceduto ai ricatti di Abu Mazen? Negoziare significa cedere qualcosa in cambio di qualcos'altro. Abu Mazen che cos'ha offerto? Nulla, ha solo avanzato pretese per il solo fatto di partecipare ai negoziati, pretese che, per altro, avrebbero dovuto essere il risultato dei negoziati. Porre come precondizione ciò che dovrebbe essere il risultato di una trattativa non significa 'negoziare' e rifiutare questi ricatti non è essere attendisti.
Carlo Panella crede alla storia di Abu Mazen 'il moderato' e scrive : " In
realtà, pur a fronte di una comprensibile attesa di sventure da parte di Gerusalemme (...) non è affatto detto che Abu Mazen – che accusò Yasser Arafat di aver portato i palestinesi al disastro con l’Intifada del 2001 – scelga di ripercorrere questo infausto cammino. ". Abu Mazen ha dichiarato pubblicamente di volere uno Stato palestinese 'judenrein', dedica piazze a terroristi palestinesi, ha definito l'ultimo terrorista di Monaco in termini molto positivi. Questi sarebbero i segnali della sua moderatezza? Stupisce che sia Carlo Panella ad essere cascato in un tranello simile.
Abu Mazen, secondo Panella, "
Ha avuto la fortuna di avere di fronte un presidente americano come Barack Obama che ha portato al minimo le relazioni tra Stati Uniti e Israele e – grazie a errori israeliani sulla vicenda Mavi Marmara e della Freedom Flottilla su Gaza, con Lieberman che ha bloccato le “quasi scuse” che Netanyahu stava per esprimere – ha anche registrato il passaggio di campo della Turchia di Erdogan, sino al 2010 fondamentale alleato di Israele in campo islamico e oggi principale sostenitore e ispiratore dei palestinesi. ". La vicenda della Mavi Marmara è stato un 'errore' della Turchia, non di Israele che ha solo esercitato il proprio diritto all'autodifesa. Per questo non sono arrivate e non arriveranno scuse ufficiali al riguardo. Il deterioramento dei rapporti con la Turchia, poi, è iniziato ben prima della flottiglia e della morte dei nove terroristi turchi.
Panella conclude con queste parole il suo articolo: "
Come ha detto ieri re Abdullah II di Giordania, la rivolta araba ha indebolito Israele, (...) perché si sono enormemente abbassate, nei paesi confinanti, le soglie del contrasto nei confronti delle varie organizzazioni terroristiche e jihadiste. Se Israele continua a fingere che il mondo sia lo stesso, limitandosi a lamentarsi e a fare denunce, se insomma non riscopre le armi e le sottigliezze della politica (...) si esporrà a una cattiva sorpresa dopo l’altra. Rischia di precipitare nell’isolamento internazionale ". Denunciare e 'lamentarsi' non è la via giusta per ottenere qualcosa. Panella vorrebbe specificare, allora, quale sarebbe la via corretta che Israele deve seguire per il futuro? Il conflitto non è auspicabile, Panella, facendo proprie le parole del re della Giordania, sostiene che Israele dovrebbe riscoprire le 'sottigliezze della politica', ma non specifica quali esse siano. Se Israele precipita nell'isolamento il motivo è da ricercare nell'antisemitismo che infetta i Paesi islamici e nella loro propaganda che attecchisce in quelli occidentali.
Ecco l'articolo:

La dinamica dell’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo costituisce il modello perfetto del rapporto tra gli islamisti e le nuove gerarchie militari (che in realtà sono le vecchie) che gestiscono il potere dopo la caduta dei regimi arabi. Per alcune ore Hussein Tantawi, il nuovo rais che di fatto governa l’Egitto, ha lasciato che i manifestanti scatenassero indisturbati il loro assalto, poi, un attimo prima che avvenisse l’irreparabile, ha mandato i suoi corpi speciali a salvare l’ambasciatore israeliano e a bastonare ferocemente quegli stessi assalitori ai quali sino a poco prima aveva lasciato fare (tre morti e ben mille feriti).
Nel frattempo, come rivela il Telegraph, neanche si degnava di rispondere alle telefonate di Leon Panetta, neo segretario alla Difesa americana, che protestava per l’inazione e sollecitava un intervento risoluto. Poche ore dopo Tantawi ha ricevuto al Cairo quel Recep Tayyip Erdogan che ha delineato le direttive della nuova politica islamica nei confronti di Israele, che ha eccitato gli animi degli assalitori rompendo le relazioni diplomatiche con Gerusalemme, che ha portato con sé cospicui contratti e finanziamenti per sollevare l’economia egiziana e che si propone ora come punto di riferimento per una nuova fase di rapporti dei paesi islamici con Israele. Questa fase non prevede una guerra classica, ma punta a un’usura continua dello stato ebraico in modo spregiudicato, sino alla partnership di azioni se non terroriste, almeno violente, sul modello della protezione personale da parte di Erdogan dell’Ihh, l’Ong che nel 2010 organizzò la Freedom Flotilla della Mavi Marmara, o della connivenza di Tantawi all’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo. Questa fase ovviamente non prevede la partnership con i terroristi, ma indubbiamente ne favorisce l’azione, come si vede nelle relazioni ambigue dello stesso Erdogan con Hamas.
Il tutto avviene sulla base di una enorme, voluta mistificazione che dipinge la questione palestinese come una questione nazionale irrisolta e che invece sottace il tema vero: il rifiuto dell’esistenza stessa di Israele per ragioni di fondamentalismo islamico. Questa mistificazione nazionalista fa presa in occidente, anche se è stata smentita dai dati di fatto, dal rifiuto di Yasser Arafat di accettare, nel 2000, la restituzione del 95 per cento dei territori da parte di Ehud Barak, sino al comportamento di Hamas che, riavuti i territori di Gaza da Ariel Sharon nel 2005, ha iniziato un insidioso jihad simboleggiato dal rapimento del caporale Gilad Shalit pochi mesi dopo. Su tale mistificazione nazionalista il movimento palestinese – a differenza di quanto non abbia fatto Israele – ha saputo costruire una rete di simpatia nel mondo che ora si consoliderà nella più alta sede internazionale: l’Assemblea generale dell’Onu, il 20 settembre, segnerà una data di svolta nel conflitto israelelo palestinese. Un “punto di non ritorno”, come dice Abu Mazen, leader dell’Autorità nazionale palestinese.
Non muterà nulla di concreto sul terreno, ma accadrà quello che non è mai accaduto in 90 anni: i palestinesi metteranno a segno una mossa diplomatica, intelligente, raffinata, vincente. L’iniziativa è stata molto ben preparata, col determinante contributo di Erdogan, ed è stata contrastata molto male dal governo di Israele (e dal presidente americano Barack Obama), tanto che dispiegherà i suoi effetti – pure se soltanto nel mondo rarefatto della diplomazia – occultando la realtà di una pacificazione tra Anp e Hamas che è soltanto di facciata, falsa e opportunistica e che probabilmente racchiude in sé l’ennesimo conflitto armato tra le due componenti palestinesi. Ma quando la Lega araba presenterà all’Assemblea generale dell’Onu una risoluzione per trasformare lo status dell’Anp da “entità osservatrice”, quale è oggi, in “stato non membro” (quale è lo stato del Vaticano) e otterrà un numero significativo di voti (a oggi, più di 130 su 193), Abu Mazen avrà ottenuto un risultato clamoroso. Quel voto cristallizzerà per la prima volta nella storia la volontà maggioritaria della platea di tutti i paesi del mondo a riconoscere di fatto come validi i confini del 1967 (sino a oggi le risoluzioni sul punto sono soltanto del Consiglio di sicurezza).
Un macigno sulle trattative, un vantaggio negoziale più che consistente, che porrà qualsiasi governo di Gerusalemme in una posizione scabrosa se mai vorrà abbandonare la posizione attendista mantenuta dal governo di Bibi Netanyahu e deciderà di tentare una seria via negoziale. Il risultato a effetto oscurerà il fatto che quello “stato palestinese” adombrato in via indiretta in sede Onu non esiste nei fatti, perché in realtà esistono due stati e due governi palestinesi incapaci di convivere: uno stato di Cisgiordania con capitale a Ramallah, con presidente Abu Mazen e capo del governo Salam Fayyed, e uno stato di Gaza, con governo presieduto da Ismail Hanyieh con istituzioni e forze di sicurezza assolutamente autonome e non di rado l’un contro l’altra armate (e con carceri piene di “collaborazionisti” della parte palestinese avversa). Due governi legittimati, peraltro, da elezioni apparentemente democratiche. Il voto dell’Onu oscurerà anche il fatto che sono falliti da ben quattro mesi i tentativi di dare vita a un governo palestinese unitario, dopo l’ennesimo “storico accordo” siglato al Cairo il 4 maggio scorso tra Abu Mazen e Khaled Meshaal, leader politico di Hamas.
Ostacolo insuperabile e insuperato è il rifiuto di Hamas di accettare la nomina a primo ministro di Salam Fayyed, personalità palestinese di fama e rispetto internazionali ed eccellente amministratore. Intanto dalla Striscia di Gaza continuano a piovere razzi sulle città israeliane, mentre i servizi di sicurezza dell’Anp arrestano militanti di Hamas in Cisgiordania (e viceversa), tanto che Abu Mazen ha indetto per l’autunno elezioni amministrative limitate alla sola Cisgiordania. Il governo Netanyahu-Lieberman ha sottovalutato l’importanza politica sulla scena internazionale di questa mossa, si è arroccato per mesi sulla denuncia del palese trucco di una pacificazione di facciata, mirata soltanto e unicamente a presentarsi a un’Assemblea dell’Onu composta da stati pronti a bersi qualsiasi mistificazione proveniente dai palestinesi. Soltanto nelle ultime settimane Gerusalemme ha tentato forti iniziative su due piani: la ripresa di trattative con l’Anp e la pressione sulle più importanti capitali europee. Abu Mazen ha rivelato il 5 settembre di essersi visto due volte in segreto con il ministro della Difesa Ehud Barak (l’ultima volta il 24 agosto) e una volta con il presidente Shimon Peres, ma ha anche sostenuto che il secondo incontro è saltato a causa della mancanza delle premesse per la ripresa di un negoziato su basi concrete.
I diplomatici israeliani hanno avuto disposizioni per fare pressioni a tutto campo per contrastare la messe di voti favorevoli, appoggiata dalla posizione della Cina, della Russia, del Brasile, della Turchia e del movimento dei non allineati, soprattutto in un’Europa in cui al 2 settembre si sono già dichiarati a favore della risoluzione Belgio, Cipro, Grecia, Irlanda, Malta, Portogallo, Svezia e, fuori dall’Ue, la Norvegia. Confusa la posizione della Francia, che ha visto Nicolas Sarkozy esporsi, il maggio scorso, con una posizione favorevole, ma che ora tenta la carta neogollista di una impossibile mediazione tra Israele e i palestinesi.
Pare favorevole alla posizione palestinese anche la Gran Bretagna di David Cameron, mentre nettamente contrari sono soltanto l’Italia di Silvio Berlusconi e la Germania di Angela Merkel (dubbia la posizione della Spagna e di altri membri europei). L’iniziativa diplomatica tardiva di Israele è stata resa ancora più inefficace da un confuso dibattito interno al governo: il presidente del Consiglio di sicurezza nazionale, l’ex generale Yaakov Amidror, un falco vicino alle posizioni del movimento nazional-religioso, ha chiesto la denuncia degli accordi di Oslo (e quindi la rioccupazione militare israeliana della Cisgiordania), mentre il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, l’11 agosto ha dichiarato di aver intenzione di chiedere ai più alti ministri di tagliare ogni legame con l’Autorità palestinese all’indomani del voto, aggiungendo che i palestinesi stanno preparando un “bagno di sangue senza precedenti”. Questa attitudine purtroppo sta radicandosi in molti politici israeliani che dimostrano inettitudine alla manovra politica e al compromesso.
Lo schema sconfortante risalta nelle risposte che lo stesso Lieberman intendeva dare alla chiusura delle relazioni diplomatiche da parte di Erdogan: il finanziamento e l’appoggio ai terroristi curdi del Pkk (il partito di Öcalan) e il riconoscimento del genocidio armeno (che avrebbe alienato a Israele il favore degli unici alleati che ha in Turchia: i generali). Netanyahu ha rigettato le proposte del ministro degli Esteri e le sue dichiarazioni sono state subito contrastate da Ehud Barak, ministro della Difesa, che ritiene la denuncia degli accordi di Oslo “un errore”. La risoluzione palestinese, infatti, non viola quegli accordi, non è una dichiarazione unilaterale di indipendenza (esplicitamente proibita da quegli accordi), non fonda uno stato di Palestina, ma si limita soltanto a mutare il titolo della membership dell’Anp all’Onu. Ma l’allarme lanciato da Lieberman circa la nuova Intifada, pur non condiviso da un esplicito report dello Shin Bet di luglio, non ha lasciato indifferente il ministero della Difesa.
Ehud Barak ha organizzato l’Operation Summer Seeds, che prevede regole d’ingaggio eccezionali per l’Idf in modo da contrastare i germi di una terza e sanguinosa Intifada. In realtà, pur a fronte di una comprensibile attesa di sventure da parte di Gerusalemme (gli attentati di Eilat del 18 agosto e l’assalto all’ambasciata del Cairo rafforzano le preoccupazioni israeliane), non è affatto detto che Abu Mazen – che accusò Yasser Arafat di aver portato i palestinesi al disastro con l’Intifada del 2001 – scelga di ripercorrere questo infausto cammino. Il presidente dell’Anp ha sì chiamato i palestinesi a “manifestazioni pacifiche di massa” in tutta la Palestina dal 20 settembre in poi con lo slogan “194° stato!”, ma ha anche allertato i servizi di sicurezza palestinesi per impedire che degenerino in atti di violenza.
E’ infatti chiaro che se la leadership di Ramallah non riuscisse a evitare il “bagno di sangue” profetizzato da Lieberman, sconfesserebbe tutta la propria strategia.
Pesantemente sconfitto nel rapporto con Hamas, Abu Mazen ha però conseguito successi significativi sul piano internazionale con la sua nuova strategia incentrata sulla scena diplomatica e non violenta. Ha avuto la fortuna di avere di fronte un presidente americano come Barack Obama che ha portato al minimo le relazioni tra Stati Uniti e Israele e – grazie a errori israeliani sulla vicenda Mavi Marmara e della Freedom Flottilla su Gaza, con Lieberman che ha bloccato le “quasi scuse” che Netanyahu stava per esprimere – ha anche registrato il passaggio di campo della Turchia di Erdogan, sino al 2010 fondamentale alleato di Israele in campo islamico e oggi principale sostenitore e ispiratore dei palestinesi.
Questa novità di importanza strategica evidenzia il grande passaggio di fase tra la partnership immobilista del perdente Hosni Mubarak e quella tutta di movimento e di raccordo con i presupposti settori moderati di Hamas del premier di Ankara. In questo contesto, lo scoppio oggi di una terza Intifada palestinese darebbe campo e spazio unicamente alle posizioni di Hamas non soltanto a Gaza, ma anche in Cisgiordania, dove Abu Mazen non ha i mezzi per contrastare un’iniziativa violenta. Tutto può accadere, nel “dopo risoluzione”. Certamente Hamas farà di tutto per capitalizzarla in senso oltranzista, con uno spregiudicato e cinico Erdogan – nuovo potente partner dei palestinesi al posto dei declinanti egiziani – che ha intenzione di spendersi personalmente per appoggiare e fare sua – anche se ha dovuto rinunciare a recarsi ora a Gaza, per non indebolire Abu Mazen – la debole componente nazionalista di Hamas, a scapito di quella oltranzista, filo iraniana e siriana.
La recente sostituzione del plenipotenziario americano per il medio oriente George Mitchell con David Hale segnala la confusione di Barack Obama e di Hillary Clinton a fronte della crisi israelo palestinese. Tale confusione si concretizza oggi nel disperato e tardivo appello dell’Amministrazione ad Abu Mazen perché posticipi la presentazione della risoluzione sul tipo di membership all’Onu (che non sarà accolta) e negli altrettanto disperati tentativi di rivitalizzare, in extremis, la trattativa di pace israelo palestinese. Obama paga il fatto che prima ha illuso e poi ha deluso Abu Mazen, quando ha fatto del congelamento degli insediamenti il suo punto di forza, subito dopo l’inizio del suo mandato, per poi mandarlo in soffitta quando ha deciso unilateralmente, senza consultare un infuriato presidente palestinese, che le “storiche trattative” sarebbero riprese nel settembre 2010 “senza condizioni”. Contemporaneamente Obama ha deluso Bibi Nethanyhau quando, nel settembre 2010, gli ha offerto la ripresa delle trattative senza più porre la pregiudiziale del congelamento dei settlement, per poi proporre – dopo otto mesi di nulla di fatto – una trattativa basata “sui confini del 1967” (poi confusamente ritrattata) che suona come un insulto per le più elementari ragioni di sicurezza di Israele.
In deficit di credibilità presso tutte e due le parti, senza idee strategiche, senza la capacità neppure di influenzare la Turchia di Erdogan, Obama punta ora al risultato minimo: non essere costretto a presentare quel veto in Consiglio di sicurezza che distruggerebbe quel residuo di credibilità che ha ancora nel mondo musulmano. Difficile, comunque, se non impossibile, che gli Stati Uniti riescano a governare questa “tempesta diplomatica perfetta” all’Onu che Abu Mazen, con il contributo determinante di Erdogan, è riuscito a organizzare all’Onu. E’ certo che gli Stati Uniti bloccheranno con un veto la – eventuale – richiesta di iscrivere lo stato di Palestina quale “stato membro” dell’Onu a pieno titolo, se mai venisse presentata. Joseph Deiss, presidente dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ha chiarito che l’Anp dovrà ottenere “prima” l’approvazione del Consiglio di sicurezza (in cui verrebbe bloccata dal veto americano, e forse anche della Francia) e soltanto “in seguito” potrà presentare la risoluzione per il riconoscimento della Palestina quale “stato membro dell’Onu”. Ma Saeb Erekat, il negoziatore palestinese, ha fatto intendere che il risultato pieno – l’accettazione quale “stato membro”– è in realtà soltanto uno specchio per le allodole, utile a sfiancare una confusa diplomazia americana. Il risultato vero che Abu Mazen intende conseguire è un riconoscimento da parte dell’Assemblea, quindi senza l’avvallo del Consiglio di sicurezza, sub titulo di “stato non membro”, di uno stato di Palestina entro i confini del 1967. Questo è l’obiettivo ed è probabile che venga conseguito con conseguenze disastrose per la posizione negoziale dei futuri governi di Gerusalemme che pure – ma invano davanti alla platea dell’Onu – devono difendere il semplice e acclarato dato di fatto che quei confini costituirebbero una minaccia drammatica per la esistenza stessa dello stato di Israele. Il governo di Gerusalemme non sa come contrastare questo processo che ha trovato soltanto nel padre del caporale Shalit un valido e nobile contrasto.
Con la forza d’animo degli eroi omerici, Noam Shalit, padre del caporale Gilad Shalit, sta tentando di imporre in queste ore a New York la sua semplice, drammatica ma incontrovertibile verità ai maggiorenti delle Nazioni Unite: soltanto la liberazione dalla crudele, inumana, ingiustificata, feroce prigionia del caporale rapito nel lontano 2006 da Hamas può permettere senza infamia l’approvazione da parte dell’Assemblea dell’Onu della risoluzione palestinese. Nella piccola vita calpestata di questo soldato israeliano e nella sua libertà negata da parte di Hamas, ai confini di una Gaza appena liberata dall’esercito israeliano si condensano larga parte delle ragioni e dei torti della questione. E’ facile, quanto triste, profezia prevedere che Noam Shalit non sarà ascoltato, che suo figlio resterà ancora a lungo prigioniero, che i palestinesi usciranno dalla prossima sessione dell’Onu rafforzati e che Israele dovrà al più presto rivedere la sua ottica militarista a fronte della crisi. Come ha detto ieri re Abdullah II di Giordania, la rivolta araba ha indebolito Israele, non perché debba oggi temere dai paesi arabi una minaccia bellica classica come prima del 1979, ma perché si sono enormemente abbassate, nei paesi confinanti, le soglie del contrasto nei confronti delle varie organizzazioni terroristiche e jihadiste. Se Israele continua a fingere che il mondo sia lo stesso, limitandosi a lamentarsi e a fare denunce, se insomma non riscopre le armi e le sottigliezze della politica – che i suoi nuovi avversari democratici come Erdogan maneggiano ormai con perizia – si esporrà a una cattiva sorpresa dopo l’altra. Rischia di precipitare nell’isolamento internazionale proprio nel momento in cui ha più bisogno di contrastare quella minaccia atomica iraniana che, non a caso, il fronte capeggiato da Erdogan, ma anche dal Brasile, sottovaluta consapevolmente.

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