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La Stampa Rassegna Stampa
11.09.2011 Alain Finkielkraut contro il pensiero debole
Nell'intervista di Mario Baudino

Testata: La Stampa
Data: 11 settembre 2011
Pagina: 34
Autore: Mario Baudino
Titolo: «Perchè il pensiero debole è sempre più debole»

Sulla STAMPA di oggi, 11/09/2011, a pag.34, con il titolo " Perchè il pensiero debole è sempre più debole", Mario Baudino intervista Alain Finkielkraut.


                           Alain Finkielkraut

Il punto d’arrivo di un Cuore intelligente (Adelphi), ultimo libro di Alain Finkielkraut è che la letteratura va vista come qualcosa che custodisce la pluralità umana, contro tutte le ideologizzazioni e contro quelle che Lyotard chiamava le «grandi narrazioni» della filosofia. Oggi il termine è un po’ logoro e abusato; non si fa altro che proclamare la fine, appunto, delle «grandi narrazioni». Ma il filosofo francese non è affatto sicuro che sia davvero così. Oggi al Festival di Mantova, nella giornata conclusiva della manifestazione, leggerà Milan Kundera e parlerà proprio di quel «sapere imperfetto» rappresentato dalla letteratura, e di quanto ci sia necessario. Soprattutto nel momento attuale. Per certi versi, soprattutto in Europa.

Ma perché proprio i romanzieri, per uno studioso che è partito da Martin Heidegger? La filosofia non ha più risposte?

«Non vedo in competizione letteratura e filosofia, né dico che la prima sia la via d’accesso alla realtà, e la seconda no. C’è però un momento nella storia del pensiero in cui la filosofia ha preso quella che chiamerei una direzione romanzesca, facendosi filosofia della storia. Con Hegel e Marx la storia è diventata il luogo dove si consuma il dramma della ragione, lo spazio della sua realizzazione. E sono cominciate appunto le "grandi narrazioni". In Marx, poi, con una piega melodrammatica: quando la storia è diventata storia della lotta di classe. In questo senso la letteratura è una forma di contestazione critica di una certa "filosofizzazione" della realtà. Quando la filosofia diventa una grande narrazione, la narrazione letteraria diventa critica della filosofia».

Il tema della realtà è al centro di un dibattito che si sta sviluppando in Italia, tra filosofi. Si è parlato di un autunno del "pensiero debole", la teoria basata sull’idea che non ci siano in sostanza "fatti", ma solo interpretazioni. C’è chi, come Maurizio Ferraris, oppone ad essa la necessità di riscoprire la realtà».

«Non ho seguito la discussione».

Però i termini le sono ben noti.

«Certamente. Come Gianni Vattimo, anch’io sono partito da Heidegger, anche se ne ho tratto conclusioni molto diverse. Una è che ci sono dei "fatti" irriducibili allo sviluppo delle ragioni storiche. L’idea che esistano solo interpretazioni vede la mia ferma opposizione da molto tempo».

Quanto tempo?

«Ho capito la debolezza del pensiero debole - se mi consente un gioco di parole - all’inizio degli Anni ‘80.»

Da subito quindi.

«Sì. E’ accaduto quando ho dovuto confrontarmi col negazionismo».

Che dovrebbe essere mille miglia lontano da una teoria filosofica nata anche con l’intento di una maggiore democratizzazione del sapere e della società.

«Fu a Parigi. Un gruppuscolo di sinistra distribuiva volantini in cui si spiegava che le camere a gas non erano mai esistite. Sinistra, badi. L’argomento faceva parte di una revisione paranoica della storia del mondo, dove il solo male è rappresentato dal capitalismo. Un sillogismo: niente camere a gas, niente mostruosità hitleriana. Quindi il vero mostro è il capitalismo. Se ne discusse parecchio, fece scandalo. Ma i partigiani di queste tesi si appellarono alla libertà d’espressione, e la cosa creò un certo turbamento nel mondo intellettuale. Del resto, se non ci sono fatti ma solo interpretazioni, perché non ammettere anche quel che diceva il volantino negazionista?».

Le camere a gas sono ovviamente un fatto al di là di ogni interpretazione.

«Mi è sempre parsa convincente l’idea di Hannah Arendt, secondo cui solo le realtà fattuali rendono l’interpretazione possibile. Se invece ogni punto di vista è legittimo, spariscono proprio le possibilità di comunicazione, di dialogo, discussione».

La letteratura è una di queste verità fattuali?

«Siamo su un altro registro. Il romanzo si sviluppa nello spazio della finzione, ma come ad esempio mostra bene Kundera; ha senso solo come scoperta, esplorazione, investigazione. La teoria letteraria in cui sono cresciuto, fra strutturalismo e post-strutturalismo, riduceva l’estetica alla linguistica, separava drasticamente letteratura e realtà, mettendo quindi molto tra parentesi la questione del valore. Ma la letteratura senza valori è appunto senza valore. Come faremmo infatti a distinguere un buon libro da uno cattivo, se non partendo da un criterio di conoscenza? Un buon libro mostra la nostra conoscenza del mondo e del cuore umano».

Kundera potrebbe essere considerato il prototipo dello scrittore europeo?

«Direi che che porta un’idea d’Europa ormai dimenticata all’Europa stessa. I suoi testi degli Anni Novanta, per esempi i saggi sull’Europa centrale, prendono in contropiede una cultura, come la nostra, che ha identificato l’Occidente con l’oppressione. Kundera spiega che non è sempre così, ma non sono affatto sicuro che questo messaggio sia stato inteso. L’Europa rimane preda del senso di colpa, ed è questa l’idea che prevale. Affermare la nostra identità in quanto europei è visto come un processo di esclusione o discriminazione. Non ha senso il dogma di dare sempre più spazio all’identità degli altri. Il problema è complesso, ma se vogliamo veramente sostenere un principio anti-razzista, dobbiamo evitare esattamente questo, e cioè chiudere ciascuno nella propria identità»

Ma qual è l’identità europea?

«Una moltitudine di identità, ma non tutte. Per esempio è assurdo dire che l’Europa è sempre stata "meticcia". O, come ha proclamato Chirac una volta, che l’Islam ne fa parte. L’identità deve restare un concetto aperto. Noi abbiamo una storia, che si può imparare, e di cui altri possono diventare parte. Ogni patria deve poter essere una patria adottiva».

In questo la letteratura può esserci più utile della filosofia?

«Ciò che chiedo per la letteratura è una considerazione uguale a quella della filosofia e della scienza. Diceva Charles Peguy che il vero della scienza non è il solo vero del reale. Ci sono forme diverse di verità».

Sembra quasi una concessione al pensiero debole.

«Badi, non sono certo per la restaurazione del pensiero metafisico. Non è quello il problema, oggi. E poi, almeno sul piano politico, ci può essere una certa ferocia dogmatica che viene proprio dal pensiero debole: penso a molte posizioni sul Medio Oriente. Non è sempre un pensiero dolce. E io sono per la dolcezza».

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