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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.09.2011 Da Ground Zero alle rivolte arabe, il terrorismo islamico non è ancora sconfitto
Commento di André Glucksmann

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 settembre 2011
Pagina: 24
Autore: André Glucksmann
Titolo: «La fine (mancata) della storia da Ground Zero alle rivolte arabe»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/09/2011, a pag. 24, l'articolo di André Glucksmann dal titolo " La fine (mancata) della storia da Ground Zero alle rivolte arabe ".


André Glucksmann

L'11 settembre fu immediatamente vissuto come impossibile. I testimoni non credono ai propri occhi, i responsabili, disorientati, si ritengono in piena fantascienza, i prudenti, che vogliono mantenere la testa fredda, la perdono fantasticando deliranti cospirazioni (la Cia, gli ebrei, speculatori immobiliari).
Resta il fatto che l'impossibile ha avuto luogo e che questo luogo, non a caso, fu chiamato «Ground Zero», cioè lo spazio devastato delle prime esperienze atomiche. Né è un caso se le supreme autorità vengono imbarcate manu militari in rifugi anti-nucleari: si misura il nuovo impossibile con il vecchio impossibile. Si affaccia l'apocalisse, ma non quella che era prevista durante la guerra fredda. Occorre riapprendere a «pensare l'impensabile», come prescriveva un celebre libro di strategia nucleare negli anni 50.
Per quanto folgorante appaia, un evento non è mai un inizio assoluto. Una volta dissipato il generale smarrimento, è giocoforza constatare che l'attacco di New York non è radicalmente inaudito. Né il progetto di mirare indiscriminatamente ai civili nasce nel settembre 2001: da Guernica, i fanatismi profani o celestiali hanno spopolato senza rimorsi il XX secolo. Il modo operativo stesso non è privo di antecedenti: il bersaglio fu attaccato nel 1993 (nel sottosuolo, con un'auto imbottita di esplosivo); il mezzo, un aereo dirottato, fu provato a Natale del 1994 (l'airbus di Algeri doveva schiantarsi su Parigi). Quanto all'aspetto suicida degli assassini che si ergono a missili umani appare inverosimile solo agli ingenui: tra bolscevichi, nazisti, integralisti d'ogni genere, abbondano i sacrificatori professionisti decisi a immolarsi per la «buona causa». Le tessere del puzzle erano sparpagliate, mancava il concetto che permette d'immaginare l'inimmaginabile.
Sebbene alcuni responsabili americani o europei subodorassero l'esistenza di un rischio rilevante, il vantaggio lo aveva Bin Laden, che calcolava alcuni colpi in anticipo. La cecità generale viene spiegata dalla paralisi burocratica (Cia contro Fbi) e dalle rivalità ai vertici. Spiegazioni troppo scarne: una visione acuta e consensuale dei rischi corsi in comune avrebbe spazzato via questi conflitti. Al contrario, il pregiudizio di vivere «la fine della storia» inebriava i nostri bravi impostori: la guerra fredda è terminata, le minacce gravi sono abolite! L'ottimismo strategico celebrava la scomparsa del Grande Nemico Unico: non c'era più l'avversario onnipresente, quindi non c'erano più avversità. Questo ragionamento fallace equivaleva a un passaporto per il migliore dei mondi; i bilanci militari si dissolvevano, la pace universale era a portata di mano, sussistevano soltanto «conflitti di debole intensità» che devastavano le periferie del mondo. L'11/9 fracassa questo quietismo condiviso. In politica come in economia basta postulare che una crisi generale sia definitivamente esclusa per abbassare la guardia e aprire le porte del disastro: il «Candido» di Voltaire, con la sua critica dell'ottimismo Leibniz-panglossiano, deve diventare l'introduzione obbligata a qualunque geopolitica del XXI secolo.
Dieci anni dopo, abbiamo superato il cerchio incantato dei nostri euforici sonni pagati a caro prezzo? Sì e no.
Sì: l'America ha rivalutato le proprie alleanze incondizionate. L'Arabia Saudita non aveva forse fornito a Al Qaeda l'ideologia (il salafismo), i finanziamenti e una base di reclutamento (14 dei 19 pirati appartenevano alla buona società saudita)? Conseguenza teorica: «Il fatto che per 60 anni le nazioni occidentali abbiano scusato e accettato la mancanza di libertà in Medio Oriente non fu per nulla d'aiuto alla nostra sicurezza, perché nel lungo termine la stabilità non può essere acquistata al prezzo della libertà» (G. W. Bush, 7/11/2003). Conseguenza pratica: Saddam Hussein, che nel 1991 ebbe la vita risparmiata per la pressione saudita al prezzo del duplice massacro dei curdi e degli sciiti, viene impiccato. Dopo, i despoti in preda a sommosse popolari sono «mollati» (Tunisia, Egitto, Libia). Mediterraneo, Vicino e Medio Oriente si sradicano da una storia fredda e da società congelate. La cappa di piombo salta, nel migliore dei casi, perché ovunque le rivendicazioni democratiche accrescono sogni di libertà. Oppure, nel peggiore dei casi, perché bisogna contare fino a tre: 1) una gioventù irrequieta parzialmente conquistata dai Lumi; 2) partiti religiosi che sognano il califfato; 3) apparati militari immersi nella corruzione, inclini a reprimere. E nell'entroterra padrini (Russia e Cina) che appoggiano, in Iran come in Siria, il marciume dei poteri tirannici.
No: le illusioni di un ottimismo menzognero annebbiano daccapo i cervelli dei dirigenti. Eliminato Saddam, Washington ritenne risolto il problema. Mal gliene incolse. L'assassinio di iracheni da parte di iracheni, grande sport del defunto regime, continuò sotto altre etichette. Ancora oggi — ad eccezione forse della Tunisia — i Paesi che festeggiano la loro primavera non sembrano gran che immunizzati contro la peste del terrorismo, dell'intolleranza, della xenofobia e delle guerre tribali.
L'Unione Europea, incline al laisser-faire dei non-interventi, sfarfalleggia e si divide. Quando, francesi e britannici in testa, alcuni europei osano un intervento umanitario armato (bravi!), corrono il rischio di cantar vittoria troppo presto: il dopo Gheddafi promette d'essere teso quanto il dopo Saddam, se coloro che condannavano a morte le infermiere bulgare passano, una volta compiuto il voltafaccia, per democratici autentici; e se gli uomini di Al Qaeda, che hanno bombardato gli arsenali del vecchio regime, sono visti come gente di buon cuore. Il vecchio continente naviga alla cieca. La sua condiscendenza nei confronti della Russia di Putin, corrotta fino all'osso, violenta e nichilista, protettrice degli Assad, prova quanto la lezione dissuasiva dell'11/9 si stia dimenticando.
Bin Laden è morto, la sua rete sopravvive, ma dispersa. Tuttavia, la potenza nociva che colpì Manhattan rimane. Sono bastati qualche regione fuorilegge (questo non manca mai), padrini senza scrupoli (nemmeno questi mancano) perché un piccolo gruppo armato di cutter colpisse al cuore la potenza mondiale numero uno. Immaginate i danni se avesse preso come bersaglio una centrale nucleare! Il paradigma di Hiroshima è decaduto, ormai la capacità di devastare la storia e di porre fine all'avventura umana sfugge al monopolio dei grandi Stati. A vantaggio di chi? A vantaggio di chiunque. «Una volta abbattuti i limiti del possibile, è difficile rialzarli», stipulava Clausewitz, annunciando che l'era delle battaglie massacratrici non sarebbe finita con Napoleone. La Belle Époque se ne infischiò, ma il secolo seguente lo confermò. Bin Laden è scomparso, non la strategia degli odi radicali e senza pietà.

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