Turchia: che cosa è andato storto?
di Mordechai Kedar
(Traduzione di Laura Camis de Fonseca)
Mordechai Kedar
(Nota: si tratta di un articolo scritto nell’ottobre 2009, ben sette mesi prima dell’ episodio del Mavi Marmara e della flotilla, rivisto a giugno 2011 e ulteriormente commentato a inizio settembre 2011 dall’autore con le frasi aggiunte in grassetto)
N.B. Kedar profeta ? no, semplicemente uno fra i maggiori esperti al mondo di islam. (IC redazione)
Le elezioni turche del 12 giugno 2011 vanno viste sullo sfondo dell’obiettivo del primo ministro Recep Tayiyp Erdogan di vincere due terzi dei seggi in Parlamento. Questa maggioranza, se raggiunta, avrebbe permesso a Erdogan si procedere rapidamente sulla via dell’islamizzazione della Turchia modificando la costituzione in modo da ottenere per sè una posizione di grande autorità e di potere onnicomprensivo. Questo obiettivo ha evidentemente spaventato parte dell’elettorato e la maggioranza ottenuta è di ‘soli’ 326 seggi su 550, 5 seggi in meno della precedente legislatura. E’ interessante che il 60% dei seggi sia stato ottenuto da Erdogan grazie al 50% circa di voti attribuiti al suo Partito Giustizia e Sviluppo, contro il 47% delle elezioni precedenti. La maggioranza parlamentare permette ad Erdogan di governare senza bisogno di formare coalizioni, e di modificare la costituzione per referendum: cosa difficile, ma possibile.
Le opposizioni hanno avuto collettivamente circa il 40% dei seggi: la forza del partito Popolare Repubblicano è salita dal 21 % circa al 26% e a 135 seggi. Il secondo maggior partito di opposizione, il Movimento Nazionalista, è sceso dal 14 al 13% e a 53 seggi. E’ importante che questo partito abbia superato l’alta soglia di sbarramento del 10%. Sono stati eletti altri 36 indipendenti, per lo più Curdi, alcuni dei quali sono in prigione per aver partecipato alla lotta contro il governo.
Dunque Erdogan continuerà come primo ministro per un terzo – e presumibilmente ultimo - mandato , e il suo ministro degli esteri Ahmet Davutoglu continuerà la politica estera degli ultimi otto anni, mirata a rafforzare la posizione indipendente della Turchia in ambito internazione, che ha come base la rapida e continua crescita economica dell’8% annuo, un esercito forte e leale, la stabilità interna (nonostante l’opposizione curda), e i buoni rapporti con gli stati della regione.
La Turchia merita senz’altro la definizione di ‘potenza regionale’, così come l’Iran e – forse – Israele. Tre paesi la cui situazione è fortemente contrastante con l’attuale sfaldamento della collettività politica araba, frantumata e divisa. Erdogan è considerato il leader più popolare oggi nel mondo arabo, benché non sia arabo. Date le circostanze, si può presumere che le tensioni con Israele continueranno e i legami della Turchia con il mondo arabo e islamico si rafforzeranno. La domanda che vien spontaneo porsi è come la Turchia sia passata dall’essere un paese a costituzione laica all’essere un paese con programmi islamici e tendenze semi-imperiali di stampo ottomano, che ne indicano l’aspirazione a riconquistare l’egemonia sull’Islam.
(qui comincia l’articolo originario di ottobre 2009)
Negli ultimi decenni ci siamo abituati a considerare la Turchia come un fedele amico dell’Occidente e alleato strategico di Israele, che offre basi all’esercito e all’aeronautica israeliana; un membro importante dell’ONU, uno stato moderno con costituzione laica, media aperti e società liberale; un’attrazione turistica mondiale e un paese accogliente, soprattutto per le centinaia di migliaia di turisti europei ed americani che ci vanno con pacchetti–vacanza ‘tutto incluso’. Dietro l’amicizia con Israele c’era la tradizionale rivalità fra Turchi e Arabi, originata da quattrocento anni di crudele dominio turco sull’Arabia orientale e dalla collaborazione araba con gli Inglesi durante la Prima Guerra Mondiale, che portò alla disfatta dell’Impero Ottomano nella guerra contro gli ‘infedeli cristiani’ d’Europa.
Questa visione della Turchia era vera e precisa, ma incompleta. Guardavamo la parte di Turchia che volevamo vedere, ignorandone l’aspetto meno amico dell’Occidente.
La storia moderna della Turchia inizia negli anni ’20 quando l’onnipotente leader Mustafa Kemal Ataturk (padre dei Turchi) impose al paese un programma moderno, laico, anti-islamico e anti-tradizionale, perché considerava lo stile di vita degli Europei una cosa da emulare per portare la Turchia nella modernità. Sostituì i caratteri arabi con quelli latini, chiuse le madrasse (scuole islamiche), sciolse i tribunali della sharia e sottomise l’intero sistema giudiziario a leggi civili, incluse quelle sullo status personale (matrimonio e divorzio). Impose agli uomini di togliersi il copricapo tradizionale (tarbush) e provò a far togliere alle donne il velo, lo hijab. Ataturk considerava la poligamia un brutto male e per combatterla promulgò una legge per cui ogni donna e ogni uomo dovevano sposarsi entro i 28 anni, pensando che, se tutte le donne fossero state sposate, non sarebbero state disponibili a diventare seconde o terze mogli, come permesso dall’Islam. Allora la legge stabiliva i 18 anni come età minima per il matrimonio – sia per gli uomini che per le donne – perché la donne potessero finire la scuola, e potessero avere un’educazione di alto livello e lavorare fuori casa.
Il successo nell’introdurre la cultura occidentale alla popolazione turca fu straordinario, ma fu circoscritto alle città, dove il regime era forte ed efficiente. Nelle vaste aree rurali la situazione rimase alquanto diversa: le donne mantennero l’abito tradizionale, i caratteri arabi si usarono ancora per molti anni, le corti sciariatiche locali continuarono a giudicare questioni di famiglia.
Il vento della modernità era considerevolmente più debole nei paesi che nelle città, il cambiamento culturale imposto da Ataturk al paese sfiorò appena i settori non urbani. Nelle città i predicatori dovevano pronunciare il sermone deciso dal governo ogni venerdì, scritto e consegnato dalle forze di sicurezza, ma i predicatori dei villaggi erano molto più liberi di tenere i loro sermoni tradizionali, anche se contrastavano con le tendenze laiche e moderniste del regime.
Le donne di città potevano studiare nelle istituzioni accademiche e intraprendere carriere professionali, come gli uomini. La costituzione proibiva alle donne di portare il velo all’università e negli uffici pubblici, il che teneva lontane dallo studio e dagli impieghi pubblici le donne tradizionaliste, che non volevano mostrarsi in pubblico a capo nudo. Il governo fece del suo meglio per sviluppare il turismo occidentale nelle città e nei luoghi di villeggiatura che offrivano al turista europeo tutto quanto chiedeva: ristoranti con cibo non conforme alle regole alimentari islamiche, bevande alcooliche, case da gioco, piscine con piena libertà di abbigliamento in alberghi e sale da ballo, benchè tutto ciò fosse contrario all’Islam, al suo spirito e alle sue tradizioni - o forse proprio per questo.
Altra importante differenza fra ambienti tradizionalisti e ambienti moderni fu per decenni il numero dei figli. I modernisti seguirono la tendenza europea a ridurre costantemente le nascite, soprattutto elevando l’età del matrimonio e spingendo le donne ad avere cultura e lavoro, perché le grandi famiglie venivano viste come un ostacolo allo sviluppo economico e sociale.
I tradizionalisti, che vedevano nei figli un motivo di orgoglio e una garanzia economica per il futuro della nazione della famiglia, non seguirono la moda anti-natalità prevalente nelle strade delle città moderne.
Così nel tempo emersero in Turchia due ambienti. Uno era laico, liberale e occidentalizzato, aveva le redini del governo, della politica e dell’economia, era protetto dalla legge, dall’esercito e dalla Corte Suprema, ma era in continuo declino demografico. L’altro segmento di popolazione invece era religioso, islamico secondo la tradizione, economicamente e politicamente marginale; il governo cercava di mantenerlo emarginato benché la sua percentuale rispetto all’intera popolazione fosse in rapida e costante crescita.
Fin dagli anni ’50 i contadini turchi ebbero accesso alla meccanizzazione agricola e i trattori sostituirono i muli nel trainare gli aratri. Le macchine sostituivano grandi quantità di braccia, molti contadini emigrarono dalla campagna in città alla ricerca di lavoro. Si sistemarono in suburbi poveri, portando con sé la loro cultura tradizionale. Costruirono moschee, aprirono madrasse. In questi quartieri la tradizione islamica era evidente nell’abbigliamento delle donne e nei cibi e nelle bevande in vendita al pubblico.
Negli ultimi 30 anni si è iniziato a vedere un cambiamento significativo nell’arena pubblica. Grazie al crescente rispetto per i diritti umani e le libertà civili (conseguenza della pressione europea sulla Turchia che sperava di essere accettata in Europa come stato membro a pieno diritto) un numero sempre crescete di Turchi tradizionalisti rivendicava i propri diritti, formava partiti politici, fino ad emergere dall’ombra politica ed esercitare influenza sulla vita del paese.
Queste istanze acquisirono forza per l’ampia corruzione dei circoli di governo, tutti presi a godersi i lussi del potere a spese delle masse, dei poveri e dei deboli. I conflitti all’interno della sazia élite politica provocarono subbuglio e divisioni nei partiti laici, che si sbriciolarono e si sciolsero, tanto che il Partito Islamico, nelle sue tante successive incarnazioni, divenne il partito più grande.
L’ultima incarnazione del Partito Islamico, il Partito di Giustizia e Sviluppo guidato da Recep Tayyip Erdogan, arrivò al potere a novembre 2002 e da allora ha consolidato la presenza negli ambienti sociali ed economici, assunto il controllo di posizioni di potere politico, del parlamento, del governo e della presidenza. La base politica di Erdogan è nei villaggi e nei quartieri poveri i cui abitanti sono ben coscienti della crescita economica degli ultimi anni.
La crescita è dovuta prima di tutto allo spostamento di alcune fabbriche dall’Europa alla Turchia e all’aumento dell’occupazione nei settori agricolo, tessile, metallurgico, automobilistico, elettrico, i cui prodotti vengono esportati per lo più Europa. Molti prodotti venduti in Israele sono fatti in Turchia.
Fino a poco tempo fa due istituzioni rimanevano fuori del controllo del Partito Islamico: l’esercito e la Corte Suprema - ma anche queste hanno subito grandi cambiamenti. Gli ufficiali laici che controllavano l’esercito sono stati via via sostituiti da ufficiali religiosi, e lo scorso anno Erdogan ha promulgato una legge che permette ai politici (cioè agli Islamisti) di partecipare alla nomina dei giudici. Così le due istituzioni che in passato sono state le sentinelle del laicismo ora non costituiscono più un ostacolo al controllo islamista del governo. I capi del partito islamico al governo si sentono ora liberi di far quasi tutto quello che vogliono.
La politica estera.
La caratteristica principale della politica estera di Erdogan e di Davutoglu è l’indebolimento dei legami con l’occidente in generale, con Israele in particolare, e al parallelo rafforzamento dei rapporti con il mondo arabo e islamico, incluso l’Iran.
Questo spiega il rifiuto turco di permettere alle forze della coalizione internazionale di attraversare la Turchia per andare a combattere in Iraq a marzo 2003.
Nell’opinione dell’elite islamica la Turchia non è più al servizio degli stati occidentali ostili ai paesi islamici. Si tratta non soltanto di una scelta politica, ma di un atteggiamento culturale comune a un largo numero di gruppi tradizionalisti ora in posizioni di potere, che prima non erano influenti. L’atteggiamento negativo della Turchia verso Israele si è visto nella cancellazione delle esercitazioni militari congiunte del 2009 e del 2010, nelle proteste violente contro Israele durante la guerra del Libano del 2006 e in occasione dell’Operazione Piombo Fuso (2008-2009); nelle rampogne pubbliche di Erdogan al presidente Peres al congresso di Davos (2009) e nella flotilla turca (2010).
La crescente vicinanza - fino a poco tempo fa (marzo 2011) – fra la Turchia e il regime di Assad in Siria è importante per entrambi. Per la Siria significa la garanzia che le acque dell’Eufrate continueranno a fluire dalla Turchia alla Siria (e all’Iraq), senza che la Turchia la assorba tutta per sé.
Questo ha molta importanza per la Siria, dato che la siccità ha colpito vaste parti del territorio, causando lo spostamento in città di centinaia di migliaia di contadini senza più risorse.
La Turchia ha tratto beneficio dal rafforzamento dei legami con la Siria perché Damasco ha abbandonato la richiesta di riavere dalla Turchia la regione di Alessandretta, ricevuta dalla Francia nel 1939.
Ma i recenti sanguinosi sviluppi in Siria hanno portato a un serio deterioramento dei rapporti fra Erdogan e Assad, e il tono di molti commenti del primo ministro turco delle ultime settimane non lascia dubbi sulla sua posizione verso il despota siriano: Assad deve lasciare il potere perché ha perso legittimità. Erdogan ha così espresso il profondo risentimento islamico nel vedere l’uccisione in massa di Mussulmani da parte di un esercito che protegge gli Alawiti, che per l’Islam sono infedeli.
La Turchia ha interesse a rafforzare i legami con il nuovo governo centrale in Iraq e esercitare pressioni affinchè i Curdi iracheni non proclamino l’indipendenza e non forniscano armi ai Curdi che vivono umiliati e oppressi nel sud est della Turchia.
Anche la rinnovata produzione petrolifera irachena fa gola alla Turchia, che avrebbe molto da guadagnare come terra di passaggio per il flusso di petrolio iracheno verso l’Europa.
La Turchia si è anche riavvicinata all’Iran negli ultimi anni, nonostante la sotterranea rivalità per l’egemonia regionale. Israele deve essere consapevole che le armi e la tecnologia militare israeliana fornite alla Turchia finiranno in mano all’Iran, saranno esaminate e messe alla prova.
Tuttavia i sanguinosi eventi attuali in Siria e la presa di posizione turca contro il regime siriano per il suo comportamento verso la popolazione musulmana pongono la Turchia in contrasto con l’Iran, che invece sostiene in vari modi Assad.
Erdogan ha sempre assunto una posizione dura contro Israele, così come ora contro la Siria. E’ guidato dal modo di pensare islamico che lo porta a identificarsi con le sofferenze degli islamici; questo nonostante le differenze etniche fra Turchi e Arabi e la tradizionale rivalità fra le due nazioni.
Per Erdogan l’Islam lega tutti i Musulmani del mondo in una reciproca solidarietà, dunque non sa tenersi quando i mezzi di informazione parlano delle sofferenze di Gaza, Dar’a, Homs, Hamah e Jisr al-Shughour, specialmente se deve nutrire migliaia di rifugiati siriani che fuggono dal dominio degli ‘Alawi.
Nelle aspre parole rivolte a Peres e Assad, Erdogan riflette l’empatia provata verso tutti i musulmani dalla popolazione tradizionalista turca, la popolazione che ha eletto lui e il suo partito alla guida della nazione. Il fatto che il movimento islamista di Hamas controlli Gaza ha aumentato l’ira turca davanti alle orribile immagini ininterrottamente trasmesse durante l’Operazione Piombo Fuso fra fine dicembre 2008 e gennaio 2009.
Non per nulla la Turchia ha aggiunto la propria voce a quella degli stati che vogliono processare i leader israeliani dopo il Rapporto Goldstone, e chiede le scuse e i risarcimenti di Israele per gli accadimenti relativi alla flotilla di giugno 2010. Si troverà forse una soluzione diplomatica alla tensione fra Israele e la Turchia sulla questione della flotilla, ma
l’ovvia conclusione dell’analisi è che la crisi nei rapporti fra Israele e Turchia non è una nuvola passeggera, ma una cupa nuvolaglia che ha il colore verde dell’islamismo e copre tutto il Medio Oriente, Turchia inclusa. Questa è la conseguenza inevitabile, forse neppure pianificata, dei cambiamenti sociali e culturali avvenuti in Turchia negli ultimi 30 anni, che l’hanno allontanata dall’eredità culturale di Ataturk e avvicinata a quella di Muhammad bin Abdullah, fondatore dell’Islam.
E’ bene che centinaia di migliaia di Israeliani cessino di andare in vacanza in Turchia ogni anno. Alcuni farebbero meglio a passare le vacanze nei bed and breakfast e negli alberghi del proprio paese per rafforzarne l’economia, creare posti di lavoro e rafforzare il paese per la guerra multi-facciale che sta affrontando, cui anche la Turchia partecipa, ma non a fianco di Israele.
(qui termina l’articolo del 2009)
Oggi il ministro degli esteri turco Ahmet Davutoglu ha annunciato che, a seguito del netto rifiuto di Gerusalemme di chiedere scusa per l’attacco del 2010 alla flotilla su Gaza, Ankara declassa i rapporti diplomatici con Israele e sospende gli accordi militari di maggiore rilievo.