Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/09/2011, a pag. 1-I l'articolo dal titolo " L’ultimo Cheney ".
Dick Cheney, In my time, la sua autobiografia, non tradotta in italiano
Questi che seguono sono stralci delle memorie dell’ex vicepresidente americano Dick Cheney, “In My Time” (Threshold Editions, 2011). Nel primo brano Cheney ricorda i consigli che diede all’allora presidente George W. Bush subito dopo l’attentato dell’11 settembre 2001.
Il Consiglio per la sicurezza nazionale si riunì ancora una volta il pomeriggio stesso e il presidente, facendo il giro del tavolo, chiedeva a ognuno di noi di esprimere la propria opinione riguardo alle azioni da adottare. Intervenni per ultimo e sottolineai che la nostra priorità doveva essere la prevenzione di ulteriori attentati e, a tal fine, non dovevamo lasciare nulla di intentato. Il miglioramento delle procedure per la concessione dei visti, i controlli doganali e la vigilanza sull’immigrazione erano di importanza fondamentale. Dovevamo allargare i nostri orizzonti, facendo tutto quanto in nostro potere per evitare che chi ci voleva colpire entrasse in possesso di armi di distruzione di massa. Bisognava capire che per proteggere la madrepatria saremmo dovuti passare all’attacco. La sola difesa non era sufficiente. Ai terroristi era bastato aprire una breccia nel nostro sistema difensivo una volta per avere conseguenze devastanti. Dovevamo quindi stanarli nelle loro case per bloccare gli attentanti prima che venissero lanciati. Anche se avevamo già parlato dell’Iraq quel giorno, mi soffermai a sottolineare che l’Afghanistan, dove i terroristi dell’11 settembre erano stati addestrati e avevano pianificato l’attentato, doveva essere il primo obiettivo della lista. Ero convinto che fosse importante affrontare la minaccia che l’Iraq rappresentava, ma non prima di avere un piano efficace per far cadere i talebani ed togliendo ad al Qaida ogni rifugio possibile in l’Afghanistan.
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Cheney racconta come si è arrivati alle tecniche di interrogatorio “aggressive” dei detenuti per terrorismo e i risultati conseguiti da questo programma controverso.
Nel marzo del 2002, le forze pachistane fecero irruzione in un rifugio di al Qaida a Faisalabad, Pakistan, catturando un terrorista, Abu Zubaydah, braccio destro di Osama bin Laden. Era il più importante membro di al Qaida arrestato fino a quel momento. Nonostante la sua insolenza, Zubaydah iniziò presto a fornire informazioni utili, rivelando, per esempio, che la mente che aveva architettato l’attentato dell’11 settembre era Khalid Sheikh Mohammed, di cui svelò anche il nome in codice: Muktar. Ma poi smise di rispondere alle domande e la Cia, convinta che fosse a conoscenza di informazioni che avrebbero potuto salvare migliaia di vite, si rivolse al dipartimento di Giustizia e alla Casa Bianca chiedendo cosa potessero fare per potenziare gli interrogatori di Zubaydah e degli altri detenuti chiave.
La Cia sviluppò un elenco di tecniche di interrogatorio basate sul programma di addestramento Survival, Evasion, Resistance and Escape, “sopravvivere, evadere, resistere e sfuggire”, utilizzato per preparare i nostri uomini all’eventualità di una cattura, di un’incarcerazione o di un interrogatorio. Prima di usare queste tecniche sui terroristi, la Cia voleva che il dipartimento di Giustizia le riesaminasse, per stabilire se fossero conformi alla legge e agli obblighi imposti da trattati internazionali come la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il processo di revisione, che occupò molti mesi, portò alla conclusione che tali tecniche fossero legalmente lecite. Il programma venne quindi approvato dal presidente e dal Consiglio per la sicurezza nazionale. I nuovi metodi funzionarono. Abu Zubaydah rivelò informazioni su Ramzi bin al Shibh, che aveva collaborato con i dirottatori dell’11 settembre, e, esattamente un anno dopo gli attentati contro le Torri gemelle, Bin al Shibh venne arrestato in Pakistan, nel corso di una sparatoria. All’epoca dell’arresto stava ultimando un nuovo piano terroristico: lanciare degli aerei di linea guidati da attentatori suicidi sull’aeroporto londinese di Heathrow e su altre infrastrutture della capitale britannica. A loro volta, le rivelazioni ottenute da Abu Zubaydah e Bin al Shibh consentirono di catturare Khalid Sheikh Mohammed (KSM), il quale, dopo essere stato sottoposto ai nuovi metodi d’interrogatorio, è diventato a sua volta una fonte di informazioni. In un rapporto del 2004, a cui venne tolto il segreto su mia richiesta, la Cia sottolineò come KSM fosse una “fonte autorevole su al Qaida”. Stando al documento d’intelligence, KSM era diventato ormai fondamentale per permettere al governo statunitense di capire la struttura e le trame di al Qaida. “Dal momento della sua reclusione, – dice il rapporto della Cia – gli interrogatori hanno messo in luce i complotti, le potenzialità, l’identità e la localizzazione dei rami operativi di al Qaida e delle organizzazioni terroristiche affiliate. KSM ha rivelato informazioni sulla dottrina strategica di al Qaida, i probabili obiettivi, l’impatto che avrebbe avuto ogni attentato andato a buon fine e i probabili metodi per realizzare attacchi terroristici negli Stati Uniti.” Ci fu un caso in cui le confessioni di KSM ci portarono a una cellula terroristica con base a Karachi, in Pakistan. Un terrorista chiamato Hambali, riferimento di al Qaida per l’Asia sud orientale, stava addestrando i membri della cellula a operazioni contro gli Stati Uniti. E’ probabile che pensasse di dirottare un aereo contro l’edificio più alto della West Coast. Nel 2005, nonostante le informazioni inestimabili che stavamo ottenendo grazie ai nuovi metodi di interrogatorio, i senatori John McCain e Lindsey Graham promossero una mozione per porre fine al programma, chiedendo al governo americano che gli interrogatori fossero condotti in conformità ai regolamenti previsti per l’esercito. Andai a incontrare il senatore McCain, insieme al direttore della Cia Porter Goss, per raggiungere un accordo e spiegargli quanti danni avrebbe causato il suo emendamento. Lo incontrammo in una sala conferenze protetta, al Congresso. Volevamo aggiornarlo riguardo al programma di interrogatori e alle informazioni preziose che ci aveva permesso di ottenere, ma John non voleva stare a sentire quello che avevamo da dirgli: avevamo a malapena iniziato quando perse le staffe e se ne andò dalla riunione, furibondo.
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La decisione di invadere l’Iraq venne presa dopo anni di avvertimenti da parte dei servizi segreti sotto diverse Amministrazioni. Ecco cosa scrive Cheney.
Nel 1998 Saddam Hussein insisteva perché gli ispettori internazionali, in Iraq per il controllo delle armi, fermassero le ispezioni e lasciassero l’Iraq. Per tutta risposta, il Congresso approvò l’Iraq Liberation Act, che, con la firma del presidente Clinton, divenne legge. In questo modo, la caduta del regime iracheno era diventata la missione politica del governo degli Stati Uniti. A questo scopo, il Congresso approvò lo stanziamento di circa cento milioni di dollari, destinati a finanziare i gruppi iracheni d’opposizione che operavano per la caduta di Saddam. Nel dicembre di quell’anno, il presidente Clinton lanciò l’operazione Desert Fox, una campagna di bombardamenti aerei di quattro giorni volta a ridurre la capacità bellica di Saddam. “Se Saddam si prende gioco del mondo intero e noi non reagiamo, in futuro ci troveremo a fronteggiare una minaccia molto più grave”, dichiarò il presidente Clinton. “Credetemi: svilupperà armi di distruzione di massa, le dispiegherà e le utilizzerà”. L’operazione ottenne il sostegno bipartisan. A parlare per i democratici fu la deputata Nancy Pelosi, all’epoca membro dell’House Intelligence Committee, la commissione servizi segreti della Camera. “Saddam Hussein ha investito nello sviluppo di tecnologie per armi di distruzione di massa che rappresentano una minaccia per i paesi di quell’area”, affermò, “e ha messo in ridicolo il processo d’ispezione per il controllo delle armi”. Svariati senatori, compresi i democratici John Kerry, Carl Levin e Tom Daschle, scrissero al presidente Clinton facendo pressione affinché intraprendesse “le dovute azioni (compresi, se opportuno, attacchi aerei e missilistici contro siti sospetti in Iraq) per reagire in modo efficace alla minaccia rappresentata dal rifiuto dell’Iraq di terminare i propri programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa”. Il senatore Joe Biden, in un suo contributo per il Washington Post due mesi prima dell’intervento militare, sottolineò l’inadeguatezza di una politica che lasciasse Saddam al potere. “In fin dei conti, finché Saddam Hussein sarà al potere, nessun ispettore potrà garantire di aver estirpato per intero il programma bellico del dittatore”, scriveva, osservando altresì che “l’unico modo per destituire Saddam è un intervento militare massiccio guidato dagli Stati Uniti”. […] Uno dei primi rapporti di intelligence che io e George Bush ricevemmo verso la fine del 2000 prima di entrare in carica era un’ampia valutazione delle attività irachene legate alle armi di distruzione di massa. Anche se il rapporto resta classificato, il titolo, “Iraq: alla continua ricerca di un potenziamento dell’arsenale delle armi di distruzione di massa”, non lo è. Come si era già verificato nel decennio precedente, anche nei 27 mesi a seguire ci sarebbe stato un costante martellamento di avvertimenti dei servizi segreti in relazione alla minaccia rappresentata da Saddam. A quell’epoca il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aveva già emesso sedici risoluzioni volte ad attenuare il rischio derivante dall’Iraq. Saddam le violò ripetutamente, ignorando le condizioni relative alle armi di distruzioni di massa così come quelle relative al terrorismo. La Risoluzione 687, approvata nel 1991, dichiarava che l’Iraq non doveva commettere o appoggiare azioni terroristiche, né consentire alle organizzazioni terroristiche di operare all’interno del paese. Ma nel 1993 i servizi segreti iracheni (Iraqi Intelligence Service - Iis) cercarono di assassinare l’ex presidente George H. W. Bush e nel corso degli anni Novanta l’Iis partecipò ad attentati terroristici. Saddam diede rifugio ad Abdul Rahman Yasin, il costruttore di bombe iracheno che aveva fornito gli ordigni per il primo attentato al World Trade Center nel 1993. Accolse anche Abu Abbas, il terrorista palestinese che nel 1985 era alla guida del dirottamento della nave da crociera Achille Lauro uccidendo un passeggero americano. Protesse inoltre Abu Nidal, che aveva ucciso un gran numero di civili in attentati contro le biglietterie dell’El Al negli aeroporti di Roma e Vienna. A valle dell’11 settembre, dopo che gli Stati Uniti avevano già avviato l’operazione Enduring Freedom in Afghanistan, il direttore della Cia George Tenet, parlando al Senate Select Committee on Intelligence, la Commissione speciale servizi segreti del Senato, disse: “Abbiamo prove attendibili della presenza di membri di al Qaida in Iraq, compresi alcuni soggetti che sono stati a Baghdad”. Nel 2003, riferendo al Senato, il direttore Tenet sottolineò che l’Iraq stava offrendo protezione ad Abu Musab al Zarqawi, un terrorista di origine giordana addestrato in Afghanistan e ormai esponente chiave all’interno di al Qaida. Arrivato in Iraq nel 2002, aveva trascorso un po’ di tempo a Baghdad per poi diventare supervisore dei campi nel nord del paese dove trovavano rifugio non meno di 200 combattenti di al Qaida in fuga dall’Afghanistan. A Khurmal, uno di questi campi, gli uomini di Zarqawi testavano i veleni da utilizzare per attentati che stavano pianificando contro l’Europa. Nell’ottobre del 2002, dal suo quartier generale in Iraq, Zarqawi diresse anche l’uccisione in Giordania di Laurence Foley, funzionario dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Fin dai tempi della Prima guerra del Golfo, i servizi segreti americani avevano fornito valutazioni dettagliate relative all’impegno di Saddam Hussein nello sviluppo di armi nucleari, di programmi per armi chimiche e biologiche e nel sostegno al terrorismo. Il National Intelligence Estimate che ricevemmo nel 2002 era il prosieguo di valutazioni precedenti e, per quanto i giudizi in esso contenuti facessero riflettere, ciò che io e il presidente leggevamo ogni giorno durante i briefing era addirittura “più cogente”, come scrisse più avanti il direttore Tenet. Dopo l’11 settembre nessun presidente americano che agisse secondo responsabilità avrebbe potuto ignorare il flusso continuo di rapporti che ci pervenivano in relazione alla minaccia rappresentata da Saddam Hussein. Il nostro paese aveva subito un attentato senza precedenti: tremila cittadini americani erano stati uccisi in una tranquilla giornata qualunque. Io e il presidente eravamo risoluti a fare quanto in nostro potere per prevenire un altro attentato e la nostra determinazione era suffragata dalla consapevolezza che un eventuale attacco futuro avrebbe potuto avere effetti ancor più devastanti. I terroristi dell’11 settembre erano infatti armati di biglietti aerei e taglierini, mentre i prossimi avrebbero potuto portare con sé armi chimiche, biologiche o nucleari. Nei primi mesi successivi all’11 settembre, esaminando la situazione mondiale, il luogo che con maggior probabilità rappresentava un collegamento tra il terrorismo e l’arsenale di armi di distruzione di massa era l’Iraq di Saddam Hussein. Con il senno di poi (anche tenendo in considerazione il fatto che parte delle informazioni ricevute dai servizi segreti era sbagliata) quella valutazione è ancora valida. Non potevamo ignorare la minaccia o augurarci che sparisse, sperando ingenuamente che il regime vacillante delle sanzioni fosse sufficiente per porre un freno a Saddam. Per la sicurezza della nostra nazione e dei nostri amici e alleati era necessario che intervenissimo. E così facemmo.
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Cheney scrive che, nell’arginare il programma di armi nucleari della Corea del nord, i futuri leader degli Stati Uniti dovrebbero imparare dai fallimenti americani. Afferma altresì di ritenere che gli Stati Uniti avrebbero dovuto distruggere il reattore nucleare in costruzione in Siria, infrastruttura successivamente bombardata da Israele.
I nostri trascorsi diplomatici con la Corea del nord, in particolare durante il secondo mandato della presidenza Bush, sono fonte di importanti lezioni per i futuri leader e i diplomatici americani. Innanzitutto l’importanza di non perdere di vista l’obiettivo. In questo caso il presidente aveva chiarito che il nostro scopo era l’abbandono da parte della Corea del Nord del proprio programma di armi nucleari. Tuttavia, man mano che i negoziati procedevano, il dipartimento di stato arrivò a considerare come obiettivo finale il raggiungimento di un accordo su qualcosa, in effetti qualsiasi cosa, con i nordcoreani. Questo errore portò i nostri diplomatici a reagire all’intransigenza e alla disonestà di Pyongyang con concessioni ancora maggiori, alimentando in tal modo la falsità e l’ambiguità e, infine, a raccomandarci di accettare un accordo che non solo non soddisfaceva l’obiettivo del presidente, ma lo faceva addirittura retrocedere. Da qui si arriva alla seconda lezione, correlata alla prima. La diplomazia dà i risultati migliori quando l’America si trova in una posizione di forza nell’ambito dei negoziati. Se teniamo presente che il nostro obiettivo finale è quello essenziale della denuclearizzazione e siamo pronti ad abbandonare il tavolo delle trattative piuttosto che accettare un accordo parziale, falso o dannoso, partiamo da una posizione molto più forte. Al contempo, se i nostri avversari capiscono che non siamo disposti a scendere a compromessi sui principi fondamentali e che, se necessario, siamo pronti a far ricorso all’intervento militare, è molto più probabile che collaborino nel corso dei negoziati. E’ per questo motivo che sostenni che saremmo dovuti intervenire noi direttamente per distruggere il reattore nucleare che la Corea del nord stava costruendo nel deserto siriano. In questo modo avremmo inequivocabilmente comunicato a Siria, Iran e Corea del nord che non avremmo tollerato la proliferazione della tecnologia nucleare, e non soltanto a parole. […] La terza lezione è che se si pongono dei limiti bisogna poi farli rispettare. All’indomani dell’11 settembre il presidente Bush avviò un’efficace politica di non proliferazione che portò dei risultati. Ci concentrammo sull’obiettivo di evitare che i terroristi e gli stati che li sostenevano entrassero in possesso di armi di distruzione di massa. Quando, nell’ottobre del 2006, i nordcoreani condussero dei test con armi nucleari, il presidente Bush li avvertì che li avremmo considerati interamente responsabili delle conseguenze di un’eventuale proliferazione, in particolare in Stati come la Siria e l’Iran. Sei mesi dopo, quando scoprimmo che si stavano alargando in Siria, avremmo dovuto passare ai fatti, ma non lo facemmo. Quindi, la lezione che altri Stati canaglia ne potrebbero trarre è che non c’è da preoccuparsi delle minacce degli Stati Uniti. In quarto luogo, affinché la diplomazia sia efficace è necessario agire in modo strategico. E’ proprio ciò che fece il presidente quando, nel 2001, insistette per coinvolgere i cinesi nella nostra campagna per convincere la Corea del nord ad abbandonare il proprio programma nucleare. Coinvolgemmo anche la Russia, il Giappone e la Corea del sud. Il presidente aveva capito che la Corea del nord era già talmente isolata e sottoposta a tali pesanti sanzioni che gli Stati Uniti avevano poche possibilità di riuscire a esercitare da soli la pressione necessaria su Pyongyang, mentre un approccio multilaterale che comprendesse anche la Cina avrebbe avuto maggiori potenzialità. Ci lasciammo sfuggire delle occasioni per spronare i cinesi ad assumere un ruolo più costruttivo. Immediatamente dopo i test nucleari che la Corea del nord effettuò nell’ottobre del 2006, per esempio, i cinesi erano alterati in particolare perché Pyongyang aveva dato comunicazione dei test con solo un’ora di preavviso. Avremmo dovuto cogliere l’attimo per riunire i nostri alleati in negoziati a sei, sotto la guida della Cina, per esercitare una pressione davvero efficace sui nordcoreani. (…) In quinto luogo, la posizione dell’America nel mondo risulta rafforzata quando agisce di concerto con i propri alleati. In questo caso non lo abbiamo fatto, mettendo da parte due alleati chiave, il Giappone e la Corea del sud, nelle nostre trattative bilaterali con la Corea del nord. Infine, affinché la diplomazia sia efficace, i diplomatici devono studiare la nostra storia traendone le dovute lezioni. In questo caso, i recenti trascorsi con la Corea del Nord ne lasciavano già presagire il probabile comportamento. Nel 1994, durante l’Amministrazione Clinton, i nordcoreani avevano firmato l’Agreed Framework per iniziare immediatamente a violarne le condizioni, chiedendo dei pagamenti e cercando di sfruttare i negoziati per ricattare gli Stati Uniti. [...] Mantennero lo stesso atteggiamento anche con la nostra Amministrazione e anche a Obama hanno presentato il proprio repertorio di minacce e richieste. Quello che questa nazione ha imparato, sia con amministrazioni repubblicane che democratiche, è che questo metodo funziona, in quanto si ottengono concessioni dall’occidente mentre prosegue lo sviluppo di armi nucleari. Spero che in futuro ci saranno un presidente e un segretario di stato in grado di porre fine a questo circolo vizioso. E’ una questione di fondamentale importanza, in quanto nel settore della non proliferazione, come in tanti altri, gli Stati Uniti devono essere alla guida. Se non siamo noi a tenere le redini, pochi altri lo faranno.
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