Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 25/08/2011, l'articolo di George W. Bush dal titolo "Il mio 11 settembre".
George W. Bush
Ground Zero
Undici settembre, ore 8,46: il primo aereo si schianta contro il World Trade Center. "Ero terrorizzato, come chiunque altro. Con la differenza che io avevo un compito da svolgere per il mio Paese" confessa l´allora presidente degli Stati Uniti, George Bush. Che qui racconta quella lunga, drammatica giornata. Dall´inconsapevole relax mattutino fino agli incubi notturni. E alle scelte storiche.
11 settembre, Sarasota, Florida
Ho iniziato la giornata con una corsa mattutina. Ricordo che stavo correndo in un campo da golf nel resort in cui alloggiavo ed era ancora buio fuori. Sono sicuro che alcuni addetti dell´albergo affacciandosi alla finestra abbiano visto i fari che illuminavano la strada e abbiano pensato: "Chi è quel folle che sta facendo jogging?". Ho corso per un bel po´. Quando sono rientrato, ho indetto la consueta riunione di sicurezza e ricordo chiaramente che non c´era nulla fuori dall´ordinario. Più tardi mi sono recato in una scuola elementare per portare avanti quello che all´epoca era il nostro progetto sulla riforma educativa. Sono stato avvisato lì che un aereo aveva colpito il World Trade Center. All´inizio ho pensato che si trattasse di un velivolo leggero e la mia reazione è stata: "Ragazzi, o il tempo era brutto, oppure è successo qualcosa al pilota". Poi ho avvisato i membri del mio staff di mettersi a completa disposizione della città di New York per aiutarli a gestire l´accaduto. Dopodiché, sono entrato in aula. Era piena di bambini che stavano leggendo. In fondo alla stanza c´erano alcune persone, tra cui un gruppo di giornalisti. Io ero concentrato ad ascoltare la lezione. Ad un certo punto ho avvertito una presenza dietro di me. Andy Card, con il suo tipico accento del Massachusetts, mi sussurrava nell´orecchio: "Un altro aereo ha colpito la seconda torre. L´America è sotto attacco".
La mia prima reazione è stata di rabbia. Chi diavolo avrebbe potuto fare questo all´America? Poi mi sono concentrato subito sui bambini. E il contrasto tra l´attacco e la loro innocenza mi ha chiarito le idee sul mio compito: proteggere le persone. Subito dopo i giornalisti hanno iniziato a ricevere delle telefonate. Era come guardare un film muto. In fondo alla stanza, gli inviati erano tutti al cellulare. Stavano ricevendo la stessa notizia che avevo ricevuto io e ciò significava che molte persone avrebbero osservato la mia reazione. Così ho deciso di non saltare immediatamente in piedi e lasciare l´aula. Non volevo scuotere i bambini. Volevo trasmettere un senso di calma.
Sono stato immediatamente scortato fuori e portato in un´altra stanza, dove ho iniziato a fare telefonate e a vedere le immagini di ciò che stava accadendo a New York. Ovviamente ero terrorizzato come chiunque altro, con la sola differenza che io avevo un compito da svolgere in quel momento. Così ho scritto immediatamente un discorso e sono tornato in un´aula gremita di genitori, che si aspettavano che il Presidente dicesse: "Avete davvero un magnifico programma di lettura´, e invece hanno sentito dire: ‘L´America è stata attaccata". Molte volte un Presidente si trova in una specie di bolla, di capsula. In questo caso potevo vedere la reazione dei nostri concittadini. Lo shock, la preoccupazione. La paura, l´ansia. Non sono rimasto molto in aula dopo aver letto il mio discorso, perché i Servizi Segreti volevano che me ne andassi. Sono stato immediatamente portato, sono salito sull´auto blindata che segue sempre il Presidente e ci siamo diretti in autostrada.
Molti membri del mio staff che si trovavano nell´Ala Ovest si erano radunati nel bunker sotterraneo della Casa Bianca. C´erano anche Condoleezza Rice e il Vice Presidente Cheney. Ho cercato immediatamente di mettermi in contatto con loro, anche se devo dire che il sistema di comunicazione non era molto efficiente. Ho detto: ´Non muovetevi´. Li avrei richiamati, stavo tornando. Poi Condoleezza mi ha chiamato dal bunker e mi ha detto: ´Un terzo aereo ha colpito il Pentagono´. Ricordo di aver pensato che il primo poteva essere un incidente, il secondo un attacco e il terzo una dichiarazione di guerra. Quando sono arrivato davanti all´aereo tutta la situazione sembrava diversa. Erano tutti armati. Le hostess in cima alla scaletta erano preoccupate, avvilite e spaventate. Ricordo di averle abbracciate e di aver detto: "Andrà tutto bene". "Andiamo a Washington". Volevo tornare subito a Washington per assumere il controllo della situazione. Dovevo essere nella capitale per poter prendere le decisioni necessarie per proteggere il paese e riprenderci da quei primi attacchi.
11 settembre, a bordo
dell´Air Force One
Eravamo diretti verso Washington quando ho sentito l´aereo inclinarsi. Andy Card e Eddie Morenzos sono venuti da me e mi hanno detto: "Non tornerà a Washington" e io ho risposto: "Cosa diavolo state dicendo? Sono il Presidente degli Stati Uniti. Noi ci torniamo. Io devo essere lì". Non ero affatto felice di questa decisione e ho detto: "Noi andiamo a Washington". Ma non hanno cambiato idea: ritenevano imprudente per me tornare in una città che era appena stata attaccata. E soprattutto non sapevamo cos´altro sarebbe potuto accadere. Quando il terzo aereo ha colpito il Pentagono, l´entità degli attacchi è cresciuta in maniera vertiginosa: e sono giunto alla conclusione che eravamo in guerra. Ci siamo resi conto che il nemico stava usando velivoli commerciali per attaccarci. A quel punto il modo migliore per proteggere il paese era quello di far atterrare tutti gli aerei. Così qualsiasi velivolo rimasto in volo avrebbe potuto essere considerato ostile. Non solo avevo difficoltà a mettermi in contatto con le persone a terra, ma c´erano anche le immagini degli attacchi che venivano ripetutamente mostrate in tv ad essere davvero frustranti. Stavamo volando in uno spazio aereo raggiunto dal segnale televisivo e potevamo vedere le immagini di ciò che stava accadendo quell´11 settembre. Il momento in cui mi sono sentito maggiormente impotente è quando ho visto in tv le persone lanciarsi nel vuoto senza che potessi fare niente. Non sapevamo se c´erano altri aerei dirottati. Così la prima decisione che ho preso sull´Air Force One è stata quella di dare disposizioni di abbattere qualsiasi velivolo commerciale che non rispondesse all´ordine di atterraggio. Sarebbe stato molto difficile per un pilota dell´Aviazione Militare abbattere un aereo di linea commerciale con a bordo dei nostri concittadini: ma era una decisione che avevo preso perché ritenevo fosse la migliore per proteggere il paese in quel momento. Quando sono stato informato che un quarto aereo, il Volo 93, era caduto in un campo in Pennsylvania. Per un momento ho pensato che l´aereo potesse essere caduto a causa dell´ordine che avevo dato. Ci è voluto un po´ per avere informazioni sul Volo 93 e alla fine siamo venuti a conoscenza delle gesta eroiche dei passeggeri di quell´aereo. Era diventato evidente che stavamo affrontando un nuovo nemico. Questa era… questa era la guerra nel ventunesimo secolo.
Non è possibile capire cosa significhi essere un Presidente in guerra fino a quando non succede. Non ho mai incentrato la mia campagna su uno slogan tipo: "Eleggetemi, sarò un Presidente guerrafondaio di cui andrete fieri". La guerra si era abbattuta su di noi inaspettatamente e in quel momento bisognava pensare solo a risolvere i problemi. Ovviamente quando si iniziano a prendere decisioni si vivono momenti critici perché è una questione di vita o di morte. Quello non è stato uno di quei momenti in cui si soppesano le conseguenze o si pensa alla politica. Si decide e basta e io ... Io ho deciso come meglio ho potuto in un clima di guerra. Ma ero determinato. Determinato a proteggere la nazione. Determinato a scoprire i responsabili e a catturarli.
Provavo un senso di frustrazione, non ero al centro di comando a Washington. Ero frustrato perché stavo volando attorno al paese. Ero frustrato perché eravamo stati attaccati e perché il sistema di comunicazione non stava funzionando affatto. In un momento di crisi come quello è importante non sentirsi frustrati. E´ importante concentrarsi sul lavoro da svolgere e cioè ottenere informazioni e prendere decisioni: che in quel caso riguardavano come proteggere la nazione e come rispondere agli attacchi. La mia preoccupazione, come quella di altri mariti e mogli, era: "Mia moglie, Laura, sta bene?". La seconda era: "Le nostre figlie, stanno bene?". Mi ci è voluto un po´ per trovarla. Si trovava in un luogo sicuro ed è stato magnifico sentire la sua voce così rassicurante. Aveva parlato con le ragazze e anche loro erano al sicuro. È stato un vero sollievo per me.
Mentre ero in volo, ho realizzato che il nostro era l´unico aereo rimasto. Ho guardato fuori dal finestrino e ho visto che avevamo una scorta armata. Un Presidente non può tornare in un luogo pericoloso per la sua incolumità. Mi sarebbe sicuramente potuto accadere qualcosa per mano dei terroristi. In quel clima di guerra avrebbero potuto uccidere il Presidente degli Stati Uniti e così anche se ero restio mi sono detto: "Va bene, va bene così" e ci siamo diretti verso la base aerea militare di Barksdale a Shreveport, in Louisiana. Siamo saliti su un´auto e poco dopo essere partiti l´autista ha iniziato ad andare ad una velocità di circa 160 chilometri orari credo. Stavamo andando davvero troppo veloce e così gli ho detto: "Rallenta. Non c´è Al Qaeda da queste parti". Quello è stato l´unico momento divertente dell´intera giornata.
Gli americani continuavano a vedere scene di edifici che crollavano, gente che si lanciava nel vuoto e del Pentagono in fiamme. Sugli schermi televisivi c´erano solo immagini di indescrivibile orrore, quindi avevano bisogno di sapere che il loro Presidente era al sicuro e che insieme al governo era a capo della situazione. Quando siamo atterrati in Nebraska, siamo stati immediatamente condotti in bunker di sicurezza al cui interno c´era una sala conferenze. Lì, tramite un collegamento video, ho radunato il mio staff per la sicurezza nazionale e ho ottenuto un resoconto su come ogni dipartimento stesse rispondendo alla crisi. La mia domanda è stata: "Chi è il responsabile?". Il capo della Cia, George Tenet, credeva che fosse Al Qaeda perché ne avevano tutte le caratteristiche. Ma non ne aveva ancora avuto conferma. Quindi la prima ipotesi che potesse essere Al Qaeda è emersa durante quella riunione alla base aerea di Offutt. È stato in quel momento che ho deciso di tornare a Washington, sebbene contro la volontà di tutti gli altri. Ero deciso a farlo. Ho detto: "Devo tornare a casa". C´erano stati molti sviluppi ed era importante parlare di nuovo alla nazione per far sapere al popolo che il governo stava operando e reagendo e che avremmo intrapreso le azioni necessarie per proteggere il paese. Ma non lo avrei fatto da un bunker in Nebraska, bensì dalla Stanza Ovale. Non volevo che il nemico percepisse come una vittoria psicologica vedere il Presidente parlare da un bunker nel cuore del paese anziché dalla capitale, dal luogo che era stato attaccato.
11 settembre, Washington
Appena siamo decollati dalla base aerea militare di Andrews, a bordo del Marine One, ho visto il fumo che usciva dal Pentagono. Ricordo di aver pensato: "Qui, in questa zona di guerra, il comandante sono io. Il nemico ci ha attaccati dritti al cuore della nostra capitale". Il pilota del Marine One volava schivando il pericolo come si fa in una zona di guerra. Ci siamo avvicinati al Pentagono e la scena che si poteva vedere era inquietante. Il contrasto tra una città fervida e una città chiusa dopo l´attacco era incredibile.
A Washington era in corso un dibattito sull´eventualità di dichiarare o meno lo stato di guerra e io ho deciso di non farlo quella notte. Ho detto chiaramente che avremmo protetto la nostra nazione e avremmo fatto giustizia. Sono tornato alla Casa Bianca e mi sono diretto al bunker dove c´erano il Vice Presidente insieme a un paio di altri membri dello staff. Poi ho visto Laura e l´ho abbracciata. Non c´è stato bisogno di dire molto, è stato quell´abbraccio a parlare, era l´unica cosa di cui avevamo bisogno. Era stata una giornata molto lunga. Avevo bisogno di riposare ma non riuscivo a dormire. Pensavo a quelle immagini, a cosa avrei dovuto fare. Pensavo all´intera giornata. A quella che sarebbe seguita. Poi ho sentito qualcuno arrivare in maniera piuttosto concitata e mi ha detto: "Signor Presidente, deve alzarsi immediatamente. La Casa Bianca è sotto assedio". Ho afferrato Laura, ho preso Barney e Spot, i nostri cani e siamo scesi. Attorno a me e a Laura c´erano degli agenti, c´erano persone equipaggiate con armi automatiche. L´attività era febbrile e alla fine siamo tornati nel bunker di sicurezza. I membri dell´equipaggio dell´Air Force One si sono radunati attorno alla console. Io ho detto: "Cosa diavolo succede?" e mi hanno risposto: "Non si preoccupi, signor Presidente, è uno dei nostri". Credo si trattasse di un jet da combattimento F-16 che dopo aver protetto in volo la capitale stava tornando alla base di Andrews e che aveva acceso il segnale ricetrasmittente sbagliato. Quindi si era ipotizzato che fosse un altro aereo che si stava dirigendo verso la Casa Bianca: così una giornata iniziata in Florida con una corsa mattutina era finita con me, Laura, Barney e Spot che a fatica ripercorrevamo le scale per tornarcene finalmente a letto e riposare.
Il 12 settembre, la gente (dopo essersi ripresa dallo shock iniziale) ha capito che quella che stavamo affrontando era una guerra diversa. Era una nuova realtà. Una delle cose che sono cambiate dopo l´11 settembre è la convinzione di essere un paese protetto dagli oceani. In passato, i conflitti erano avvenuti in luoghi remoti e noi ci sentivamo decisamente al sicuro. Era evidente che lo shock subìto fosse profondo. La gente aveva paura di andare al lavoro, di uscire di casa. Le compagnie aeree erano bloccate e le banche chiuse. La nostra società sotto certi aspetti era ferma. La cosa più importante da fare era riprendersi dagli attacchi. Salvare le persone sotto le macerie. Scavare attraverso il danno subito. Bisognava iniziare ad aiutare la nazione a risollevarsi psicologicamente. Andare sul luogo… di morte. In altre parole, andare al Pentagono faceva parte del processo di guarigione.
Ero seriamente preoccupato del fatto che una seconda ondata di attacchi da parte di alcune cellule dormienti negli Stati Uniti avrebbe inflitto un enorme danno psicologico. La cosa che è apparsa evidente a me e a tutti gli altri era che dovevamo avere più informazioni su Al Qaeda. Subito dopo gli attacchi ho pensato: "Perché non lo abbiamo previsto?". Sapevo che dovevamo capire cos´era andato storto così da prevenire ulteriori attacchi ma non era mia intenzione puntare il dito contro i nostri servizi segreti e dire: "Avete fallito. Avreste dovuto intercettarli, perché non lo avete fatto?". Volevo piuttosto concentrarmi sul da farsi e cioè trovare i responsabili e consegnarli alla giustizia. Per farlo i nostri servizi segreti dovevano guardare solamente avanti.
Ci sono state molte speculazioni sul fatto che l´Iraq fosse o meno coinvolto negli attacchi. Ricordo che i primi veri confronti sul potenziale coinvolgimento dell´Iraq sono avvenuti il 15 settembre a Camp David. In quella occasione ho deciso che ci saremmo occupati dell´Iraq più avanti. La questione in quel momento era Al Qaeda, che si trovava in Afghanistan. Sapevo che era importante passare all´attacco. Dovevamo consegnarli alla giustizia prima che potessero colpirci di nuovo. Li avremmo trovati. È di quel periodo la mia famigerata frase: "Osama Bin Laden, vivo o morto", per la quale sono stato criticato. La gente ha pensato che fossi stato un po´ troppo esplicito. Ma in quel momento ero deciso a far arrivare un messaggio al nemico, ai nostri alleati e alla nostra nazione: gli Stati Uniti avrebbero cercato in tutti i modi di fare giustizia.
Sì, l´11 settembre ha avuto delle ripercussioni sulla mia presidenza, mi ha costretto a prendere parecchie decisioni, molte delle quali, estremamente controverse ma tutte finalizzate a proteggere il paese. Non avevo una strategia. Vivevo giorno per giorno. L´11 settembre ho capito di essere un Presidente in guerra e il giorno seguente mi sono comportato come tale.
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