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Informazione Corretta Rassegna Stampa
22.08.2011 IC7 - Il commento di David Meghnagi
Dal 14/07/2011 al 20/07/2011

Testata: Informazione Corretta
Data: 22 agosto 2011
Pagina: 1
Autore: David Meghnagi
Titolo: «Il commento di David Meghnagi»
Il commento di David Meghnagi


David Meghnagi, Le sfide di Israele (ed. Marsilio)
http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=300&cat=rubrica&b=35307&ord=author

L’accusa antisemita di anormalità che un tempo era rivolta contro gli
ebrei, si è trasferita sullo Stato di Israele. Lo Stato degli ebrei è
diventato l’Ebreo degli Stati e gli ebrei i suoi ambasciatori, non solo
agli occhi degli antisemiti, ma anche di molti sostenitori. Lo Stato che
doveva rendere l’esistenza degli ebrei più sicura, il che è in parte
accaduto, è oggi la fonte delle preoccupazioni di ogni ebreo. È il suo
roveto ardente, il richiamo del Sinai che lo insegue, quanto più ne fugge.
Un richiamo che  prima o poi arriva anche per gli ebrei più tiepidi e
lontani, costretti a riscoprirsi tali per evitare il collasso morale.

Nelle nuove rappresentazioni dell’antisemitismo l’esistenza d’Israele
costituisce uno scandalo, una realtà ontologicamente inaccettabile.
Unico Stato al mondo che deve la sua nascita a una votazione
dell’Assemblea delle Nazioni Unite, Israele è anche lo Stato che ha subito
il numero più alto di condanne. Che a votare le condanne siano in
maggioranza delle dittature e degli Stati di polizia è  una magra
consolazione.

Trattato come “non luogo”, può votare, ma non può assumere il diritto di
rappresentare a turno nel Consiglio di sicurezza la propria regione di
appartenenza secondo un principio di rotazione che lo consente anche alle
dittature più sanguinarie.

Sino a quando non ha scoperto che per delegittimare Israele, poteva essere
più utile negare e ridimensionare la tragedia della Shoah, il nazionalismo
arabo non ha esitato a istituire un legame diretto fra il comportamento di
Israele e la tragedia del Lager. Nella propaganda araba degli anni
cinquanta e sessanta non era raro ricondurre il comportamento “malvagio”
degli israeliani all’ “apprendistato” nei Lager nazisti. A differenza che
nella propaganda antisionista di ispirazione “cristiana” e “progressista”
di matrice europea, dove la vittima ha uno statuto speciale e l’accusa
antisemita può procedere solo attraverso il rovesciamento simbolico della
condizione di vittima in carnefice, nella letteratura araba la “malvagità”
degli ebrei era considerata una conseguenza diretta dell’esperienza
concentrazionaria.

Nella propaganda araba il fatto che oltre la metà della popolazione
israeliana provenisse dal mondo arabo non faceva testo. Si trattava di
ebrei invisibili, irriconoscenti della “generosità  araba”. Poco importava
che fossero stati perseguitati e costretti alla fuga in massa dai loro
paesi in centinaia di migliaia dopo essere stati depredati.  A differenza
dei profughi palestinesi che erano un elemento fondamentale di un
conflitto sanguinoso scatenato dalla Lega Araba per impedire la nascita di
Israele, gli ebrei del mondo arabo erano delle vittime predestinate e
degli ostaggi colpiti  per il solo fatto di essere ebrei. Eppure di loro
il mondo non si è mai accorto. Per lungo tempo nemmeno in Israele sono
stati considerati tali. Era sufficiente anche per loro essere vivi, avere
avuto la possibilità di ricostruire la loro esistenza nella Terra dei
Padri.

In un paese dove più della metà della popolazione aveva perduto qualcuno
nei campi di sterminio, la vita nelle tende e nelle catapecchie nei primi
due decenni di vita dello Stato poteva essere considerata una benedizione
-e tale fu considerata dalla stragrande maggioranza delle persone che si
riversarono a centinaia di migliaia dall’intero mondo arabo, in alcuni
casi attraversando a piedi  il deserto. Come avvenne millenni prima con la
fuga dall’Egitto, la condizione di profugo fu sublimata e trasfigurata in
una atto di libertà e di riscatto. La fuga divenne un ritorno, la perdita
di un intero mondo divenne l’alba di un nuovo inizio.

Se il mondo arabo avesse accettato nel 1947 la dichiarazione di
spartizione delle Nazioni Unite, israeliani e palestinesi festeggerebbero
oggi nello stesso giorno la loro indipendenza. La storia non si fa con i
se.  Ma da questo dato storico non si può  prescindere per avere un quadro
più veritiero dell’evoluzione che ha portato alla situazione attuale. Allo
stesso modo non si può dimenticare che la guerra del giugno 1967 fu la
diretta conseguenza delle azioni del dittatore egiziano.

Non potendo sconfiggere Israele sul campo, il nazionalismo arabo apprese
col tempo che era più facile combatterlo appropriandosi dei simboli della
tragedia ebraica.  Le icone ebraiche dopo Auschwitz sono state utilizzate
come arma contro Israele per delegittimarne l’esistenza.
Lo sterminio mancato degli ebrei nella guerra scatenata dagli eserciti
arabi nel 1948 è stato rappresentato come la  Shoah dei palestinesi
(Naqba). L’Olocausto sognato dalle masse arabe inneggianti a Nasser nelle
settimane precedenti la guerra de giugno 1967, è diventato l’Olocausto
subito (Harsa) dalla nazione araba.
La demonizzazione di Israele nel mondo arabo e islamico ha assolto il
compito di lenire una ferita narcisistica che ha radici lontane.

L’identificazione di Israele con i mali che corrodono la civiltà araba ha
permesso di spostare su un obiettivo esterno la rabbia e la frustrazione
per il fallimento del processo di decolonizzazione e la mancata
fuoriuscita dal sottosviluppo economico. La demonizzazione di Israele ha
permesso di non affrontare il cuore dei problemi che dilaniano le società
arabe: la corruzione, il divario sociale tra chi possiede tutto e chi
niente, il mancato decollo economico, l’assenza di democrazia, lo spreco
immenso delle risorse, l’aumento della forbice tra gli immensamente ricchi
e gli immensamente poveri, la mancata alfabetizzazione della società, il
lavoro minorile, il carattere  militare e oppressivo dei regimi,
l’oppressione delle donne, la desertificazione delle aree rurali, il
sovraffollamento delle città, la mancanza di posti di lavoro con la
conseguente migrazione verso l’Europa.

Da qui il carattere archetipico nella rappresentazione che i movimenti
fondamentalisti islamici attribuiscono alla presenza di Israele nella
regione e al ruolo degli ebrei dagli albori della storia islamica. Non si
spiegherebbe altrimenti l’isterica reazione con cui l’Egitto accolse agli
inizi la decisione dell’URSS di aprire le porte all’emigrazione ebraica
verso Israele. Né si comprenderebbe la collusione del governo egiziano con
la propaganda antisemita e anti israeliana sulla stampa e sui media
egiziani, nonostante l’esistenza di un trattato di pace che ha permesso
all’Egitto di rientrare in possesso dei territori occupati da Israele nel
corso della guerra del giugno 1967.

Il fatto che l’Egitto abbia mantenuto fredde le relazioni col suo vicino,
tollerando e autorizzando sui media la diffusione dei peggiori stereotipi
dell’antisemitismo, è un dato che non è stato adeguatamente valutato e
ponderato. Per gli israeliani era sufficiente che il confine meridionale
fosse sicuro. Ma un confine è veramente sicuro se diventa anche amico e
l’Egitto, amico per davvero non è mai diventato- come purtroppo riscoprono
con angoscia gli israeliani.

Nelle nuove derive dell’antisemitismo l’odio contro l’America può
identificarsi  con quello contro Israele e gli ebrei. Demonizzando
l’ebraismo e la memoria della Shoah, il radicalismo islamico può
presentarsi come l’estremo atto di ribellione contro la corruzione delle
classi dirigenti assoldate all’Occidente.

Se i politici israeliani si fossero presi la briga di leggere qualche
romanzo egiziano o poesia dopo la guerra, si sarebbero accorti che
l’attacco a sorpresa dell’Egitto del 1973 era purtroppo solo una questione
di tempo. Come ebbe a dire Hussein Fawzi al poeta israeliano Haim Guri,
l’intelligence non può permettersi di ignorare la letteratura e deve saper
leggere anche le poesie.   Farebbe bene a studiare con attenzione  le
migliaia di vignette con cui gli israeliani e gli ebrei sono dipinti come
mostri e serpenti da distruggere e da estirpare. In una vignetta dedicata
a un convegno ecologico, una delle vignette che campeggiavano sui giornali
era  quella del “fetore” di Israele che rende invivibile il pianeta.

“Quel che vogliamo, noi altri arabi, affermava Ben Bella nel 1982, è
essere; ora noi potremo essere solo se l’altro non esiste”. L’affermazione
del leader della rivoluzione algerina, il marxista “naturale” come lo
definivano i suoi sostenitori europei negli anni cinquanta, non è solo un
programma omicida. È una scelta suicida.

Se l’altro non esiste, è il sentimento del limite a venire meno e con esso
la capacità di controllare la distruttività interna ed esterna.
L’esistenza dell’altro è la condizione per l’esistenza di ognuno. La
negazione dell’altro è la morte dello spirito religioso più autentico, la
sua trasformazione in un culto necrofilo.

Nel delirio del nuovo antisemitismo l’eliminazione del “cancro sionista”
con un’atomica può valere il prezzo della morte di milioni di mussulmani
che perirebbero per la inevitabile reazione cui andrebbe incontro. Nella
logica del terrorismo la morte dei palestinesi (della cui condizione
dolorosa sono in molti a preoccuparsi solo ed esclusivamente in funzione
anti israeliana) non costituisce un problema.

In questa nuova versione dell’antisemitismo islamico il conflitto che
oppone Israele ai suoi vicini non è un confronto fra Stati o sistemi di
alleanze internazionali. Non è più o solo, come nelle vecchie narrazioni,
un conflitto fra “nord” e “sud”, “imperialismo” e “antimperialismo”,
“Occidente” e “Terzo mondo”, “democrazia” e “dittatura”.  La guerra è fra
“civiltà religiose” ed ha per obiettivo i regimi moderati filo occidentali
e nazionalisti accomunati  nell’accusa  di eresia e di tradimento dei
valori  di un islam “immacolato” e “incontaminato”.


http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

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