Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/08/2011, a pag. 35, l'articolo di Viviana Bucarelli dal titolo "La fotografa che fu fatta generale per salvare 1000 ebrei".
Ruth Gruber, due sue foto
Nel corso della sua vita straordinaria è stata il primo reporter occidentale a documentare i gulag sovietici in Siberia negli Anni 30 come inviata del New York Herald Tribune . Poco dopo, nel pieno delle persecuzioni durante la II Guerra Mondiale, in qualità di rappresentante del ministro degli Interni Usa, nel corso di una missione «speciale», lei ebrea, ha scortato 1000 rifugiati ebrei verso la salvezza dall’Europa agli Stati Uniti. Nel 1947 ha fatto conoscere al mondo la vicenda dell’Exodus, poi ha raccontato il processo di Norimberga e ha seguito l’Anglo-American Committee of Inquiry in giro per il mondo mentre esaminava la questione degli ebrei rifugiati e della Palestina. E quest’anno, il 30 settembre, Ruth Gruber, giornalista e fotoreporter americana compie 100 anni.
Le sue foto hanno raccontato al mondo alcune delle più significative vicende del XX secolo, ma il suo lavoro ancora non aveva avuto l’attenzione dovuta. La sua figura è ben nota all’interno del mondo ebraico americano ma non abbastanza al di fuori di questo. Ma ora l’International Center of Photography di New York, la prima istituzione non ebraica a dedicarle una mostra, oltre ad averle assegnato il Cornell Capa Award, presenta al grande pubblico il suo lavoro fino al 28 agosto. «Volevamo che fosse chiaro a tutti che è una grandissima fotografa» spiega la curatrice
Maya Benton che ha incontrato Ruth Gruber nel 2005 ad una conferenza e ne è rimasta del tutto conquistata. «Non volevo perdere una parola di quel che diceva e desideravo imparare tutto da lei; è una persona così saggia e profonda», racconta. E quando insieme a Brian Wallis, il curatore capo dell’Icp è nata l’idea di una mostra, non ha perso un istante e «un sogno è diventato realtà». Maya Benton è cresciuta in una famiglia in cui si parlava yiddish, la sua nonna è stata in un DP camp (Displaced person camp, dove gli ebrei venivano tenuti dopo la guerra e prima di essere condotti alla propria destinazione definitiva) ed altri membri della sua famiglia sono sopravvissuti alla Shoah. Le erano ben noti molti degli eventi che la Gruber aveva fotografato, che avevano un significato importante legato alle vicende personali della sua famiglia. Ma inizialmente non sapeva di quale tempra e grandezza fosse la fotogiornalista.
La mostra sottolinea e valorizza l’eclettica e sofisticata produzione della Gruber e la contestualizza. Comprende nuove stampe realizzate dalle diapositive e dai negativi originali in bianco e nero, 55 fotografie a colori e vintage mai viste prima, realizzate nel corso di oltre 50 anni, in quattro continenti, e vari oggetti. «Uno dei momenti più emozionanti del progetto, racconta la Benton, è stato quando Ruth ha visto per la prima volta le sue foto a colori che non aveva mai stampato finora. "Non le avevo mai viste, mi ha detto. Non sono belle?"».
La sorprendente vita di Ruth Gruber comincia, come lei stessa ha raccontato, «in uno shtetl chiamato Brooklyn». Vince poi una borsa di studio a Colonia, in Germania dove ottiene a 20 anni, la più giovane a quei tempi, il dottorato in arte e letteratura. «Mia madre andò su tutte le furie quando le dissi che andavo in Europa. Pensò che Hitler mi avrebbe fatto ammazzare. Ma io avevo bisogno di capire che cosa stava succedendo». Proprio a Colonia ha l’occasione, nel ‘31, di assistere ad un discorso del Führer. «Fu terrificante sentirlo parlare dello sterminio degli ebrei e della distruzione degli Stati Uniti d'America», ha raccontato. Un insegnante fin dai tempi della scuola le aveva detto che sarebbe diventata una scrittrice. E forse l’assistere nella Germania del tempo allo svilupparsi di un clima così terribile, fece crescere in lei la determinazione che quei fatti non potevano che essere raccontati.
Attenta da sempre alla causa dei diritti umani, «pensa a sé stessa innanzi tutto come a una giornalista - dice la Benton - che usa la macchina fotografica». E grazie a questo sono arrivate delle immagini indimenticabili. «Appena misi le mani su una macchina fotografica - ha detto - provai un grande piacere. Sentii che usandola potevo raccontare delle storie».
Nel 1941 il ministro degli Interni del Presidente Roosevelt Harold L. Ickes le assegna un incarico per la documentazione dell’Alaska che non era ancora uno stato, ma un territorio. E come un pioniere, lei racconta quel fantastico paesaggio naturale e le abitudini della popolazione di questa nuova frontiera fino ad allora pressoché sconosciuta. Nel 1944 sempre per incarico del ministro, viene inviata nella missione pericolosissima per scortare 1000 rifugiati ebrei, sulla nave Henry Gibbins, dall’Europa a Oswego, nello Stato di New York. Considerando che lei stessa era ebrea, il pericolo era tale che il ministro le diede il titolo fittizio di «Generale» perché, nell’eventualità in cui fosse stata catturata, in base alla Convenzione di Ginevra, avrebbe avuto salva la vita.
Quando nel 1947 la nave dell’Exodus tentò di far sbarcare 4500 ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio in Palestina ma fu attaccata dalle forze britanniche e costretta a ritornare in Germania, la Gruber immortalò le condizioni disumane in cui venivano tenuti sulla nave prigione Runnymede Park. L’immagine di centinaia di loro, confinati in celle con il filo spinato mentre mostravano la bandiera inglese, la Union Jack, con su dipinta una svastica viene pubblicata da Life e fa letteralmente il giro del mondo che per merito di Ruth Gruber comincia a guardare la causa degli ebrei con occhi diversi.
Scrive inoltre 19 libri, tra cui il suo memoir, Witness: One of the Great Correspondents of the 20th Century Tells Her Story , pubblicato nel 2007 dalla Random House. Dal suo libro Haven nel 2001 è stato tratto un omonimo film con Natasha Richardson, candidato a tre premi Emmy e nel 2010 Bob Richman ha realizzato un documentario sulla sua vita, Ahead of Time .
«Spero che questa mostra - dice Maya Benton - sia solo l’inizio e che segua presto una retrospettiva che le spetta da tempo». E alla domanda su quale aspetto della Gruber l’abbia colpita maggiormente, la Benton risponde, «oltre la tenacia e l’intelligenza, la curiosità per le persone e le loro storie». A quasi cent’anni non perde un telegiornale. E in queste settimane è già assorbita dai festeggiamenti per il suo prossimo compleanno.
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