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Il Foglio Rassegna Stampa
17.08.2011 Che cosa sta succedendo in Egitto
Analisi di Rolla Scolari

Testata: Il Foglio
Data: 17 agosto 2011
Pagina: 5
Autore: Rolla Scolari
Titolo: «La rivolta a passo di gambero - Guardate la foto: tutto colpa del pane. Ma il prezzo sale ancora»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/08/2011, a pag. I, gli articoli di Rolla Scolari titolati " La rivolta a passo di gambero" e " Guardate la foto: tutto colpa del pane. Ma il prezzo sale ancora".

" La rivolta a passo di gambero "

Il Cairo. I colori sono gli stessi della rivoluzione di gennaio e febbraio: nero, bianco e rosso della bandiera egiziana, ma piazza Tahrir dista chilometri dallo spiazzo assolato di fronte all’Accademia di polizia nei sobborghi della capitale egiziana, che fino a poco tempo fa portava il nome di Hosni Mubarak e che ora ospita il processo all’ex presidente. Due giorni fa, per la seconda volta in un mese, il rais ha oltrepassato in ambulanza gli alti muri color sabbia sormontati dal filo spinato, mentre i suoi sostenitori osservavano in silenzio con il suo ritratto tra le mani e i suoi oppositori gridavano “sei un ladro” sventolando le bandiere nazionali. Per la seconda volta, Hosni Mubarak è comparso sugli schermi delle televisioni di tutto il mondo dietro le sbarre della gabbia degli imputati, steso su una barella da ospedale, con gli occhi chiusi, apparentemente addormentato. E’ accusato dell’uccisione di 850 persone durante la rivoluzione, e di corruzione. Assieme a lui, i figli – Alaa e Gamal – con la tuta bianca degli imputati. L’udienza, in cui sono comparsi cento avvocati dell’accusa, è durata poco più di un’ora. Il processo è stato aggiornato al 5 settembre e dietro richiesta del giudice da ora le televisioni dovranno restare fuori dall’aula. All’esterno, pochi minuti dopo l’ingresso di Mubarak nell’Accademia, scoppiano scontri tra le poche centinaia di sostenitori e oppositori del rais che si contendevano la miglior posizione sotto il maxischermo, su cui passavano le immagini del processo. Nonostante le decine di poliziotti in assetto antisommossa schierati tra i due sparuti gruppi di manifestanti e le transenne di metallo, è partita una sassaiola in cui alcune persone sono rimaste ferite. “Questo paese non funziona”, dice sconsolato un anziano agente del traffico passeggiando con flemma mentre attorno a lui decine di giovani corrono, sparpagliandosi in tutte le direzioni per sfuggire alla carica della polizia. Sono passati sei mesi dagli eventi di piazza Tahrir, da quando una rivolta nel paese arabo più popoloso ha messo fine ai trent’anni del regime di Hosni Mubarak. In una prima assoluta per la regione, un dittatore è comparso davanti a una corte, sotto accusa del suo popolo. Ma le divisioni che attraversano l’opinione pubblica sul processo all’ex rais raccontano di una rivoluzione che fatica a imbroccare la direzione. “E’ il sacro mese di Ramadan, non si può trattare così un uomo anziano e stanco”, dice del presidente alla sbarra Azza, una signora sulla cinquantina che ha sostenuto la rivoluzione di febbraio. “Siamo noi a essere stanchi, di lui”, ribatte Olla, estetista, un figlio all’università e due ore di autobus tutti i giorni per arrivare al lavoro dalla periferia. Per Bassem Kamel, uno dei fondatori del nuovo partito social-democratico e attivista della prima ora a piazza Tahrir, il processo è soltanto teatro “per soddisfare la popolazione”; dubita che Mubarak passerà del tempo in prigione. Bassem è un architetto quarantenne. Venerdì 28 gennaio, assieme a una decina di altri attivisti, dai 20 ai 40 anni, sedeva in un appartamento poco lontano dalle rive del Nilo aspettando nervoso la fine della preghiera islamica, tra un sorso di tè e un panino al formaggio. In jeans e maglioni larghi, le sciarpe contro i lacrimogeni alla mano e un kit di primo soccorso in caso di scontri, i ragazzi stavano per uscire alla spicciolata verso il luogo previsto per la seconda grande manifestazione indetta al Cairo dopo gli inediti esiti della rivoluzione tunisina. A gruppi di due, per non farsi notare dalla polizia, hanno raggiunto il corteo. I loro jeans e le loro scarpe da ginnastica hanno lasciato oggi spazio a pantaloni con la piega e camicie stirate di fresco. Bassem lavora nel nuovo ufficio del partito che ha ottenuto da pochi giorni la licenza. All’inizio dell’anno, con decine di altri attivisti, ha passato settimane a tenere viva la piazza e a organizzare la protesta e l’11 febbraio ha festeggiato incredulo la fine del regime. Ora che la richiesta comune, “Mubarak barra”, “Mubarak fuori!”, è stata soddisfatta, è difficile per le anime della piazza trovare una direzione comune e mettersi d'accordo sul futuro. Nonostante l’entusiasmo per il nuovo corso, Bassem lo mmette senza esitazioni: “La rivoluzione sta facendo passi indietro”. A sei mesi dai giorni di febbraio, della rivoluzione restano i graffiti che colorano i muri del Cairo, qualche manifesto sbiadito del 25 febbraio. La stazione del metrò Mubarak ora si chiama “al Shuhada”, i martiri. E piazza Tahrir è semivuota. Per Hisham Kassem, editore e storico oppositore del regime, la piazza ha perso la sua personalità. “Ci andavo con la mia fidanzata senza dover pensare a proteggerla. Oggi ho paura e tengo anche la mano sul portafoglio. Ci sono ultrà di calcio, nullafacenti e persone che sperano di apparire in televisione”. E infatti, i pochi capannelli che si creano ancora nella piazza si formano attorno alla telecamera del giornalista di passaggio. “E’ stata una rivolta, non una rivoluzione – dice Kassem al Foglio – mancava un leader. Volevano mandare via Mubarak e ci sono riusciti. Dopo la sua caduta metà dei manifestanti è però tornata a casa”. Oggi, molti di quei movimenti govanili laici che hanno dato carburante alla rivoluzione e che stanno creando partiti e gruppi politici sono schiacciati tra l’esercito al potere e i grandi numeri delle forze islamiste, che pure nei primi giorni delle manifestazioni avevano preso le distanze dal dissenso. I militari, applauditi a febbraio per la loro neutralità, adesso sono accusati dalla piazza di portare avanti i vecchi metodi del regime: corti militari, detenzioni arbitrarie, presunte torture. Dalla caduta di Mubarak, 11 mila persone sono state processate da tribunali militari e domenica scorsa uno dei volti più celebri della rivoluzione, Asmaa Mahfouz, del movimento giovanile 6 Aprile, è stata costretta al pagamento di 2.200 euro di cauzione per evitare di restare in prigione. E’ sotto accusa per aver scritto sul suo profilo Facebook che se le famiglie delle vittime di febbraio non troveranno giustizia nei tribunali non ci sarà da stupirsi se nasceranno gruppi armati e ci saranno assassinii politici. Inoltre, spiega al Foglio Wael Nawara, veterano dell’opposizione liberale egiziana, la leadership militare per svuotare la piazza sta soffiando sul fuoco della xenofobia, accusando forze straniere di fomentare il dissenso. Molti, in Egitto, vorrebbero che la situazione si normalizzasse al più presto. In quest’atmosfera di incertezza, è già capitato che gli stranieri fossero aggrediti da gruppi di arrabbiati. In questi mesi, però, l’esercito è stato anche costretto a concessioni. Come richiesto dalla piazza, ha tra l’altro rimosso l’ex primo ministro Ahmed Shafik, licenziato gli ufficiali delle forze dell’ordine implicati nelle violenze di gennaio e febbraio, e aperto il processo al presidente. I militari sono conservatori, vogliono contenere il nuovo, non riescono a gestire tutto questo cambiamento, spiega Wael Nawara. “Dobbiamo sempre fare pressioni per ottenere qualcosa. E’ come una danza spagnola, violenta, con molte spinte e strappi. L’importante però è mantenere la partnership. Le tensioni non devono portare alla rottura”. I giovani della rivoluzione fanno anche i conti con una forza politica e sociale che nel paese ha da sempre grandi numeri. Il 29 luglio, molti movimenti politici della rivoluzione hanno abbandonato piazza Tahrir davanti all’imponenza della manifestazione islamista. Fratelli musulmani, salafiti e altri gruppi islamici si sono riversati nel centro del Cairo. Bassem Kamel ne è sicuro: alle elezioni di novembre i gruppi religiosi, Fratelli musulmani e altri, conquisteranno molti più voti delle forze politiche nate dalla rivoluzione, il 30 per cento, dice: hanno un’esperienza politica di decenni, una rete sociale e politica sviluppata su tutto il territorio. C’è chi contesta questa presunta forza elettorale dei Fratelli musulmani. Per Hisham Kassem, sarebbe proprio questo il momento giusto per andare al voto per le forze laiche, perché “la Fratellanza è nello scompiglio”. E ormai lo slogan “Basta con Mubarak” dell’opposizione islamista non è più sufficiente a fare campagna elettorale. La nuova libertà politica potrebbe portare secondo l’editore a divisioni interne: ora ci sono il movimento politico dei Fratelli musulmani, il loro nuovo partito Giustizia e libertà, c’è il partito dei giovani, della nuova guardia. Non è detto che tra queste realtà non si creino tensioni. “Il prossimo Parlamento sarà l’ultimo ancora dominato dalle grandi famiglie, prima di febbraio erano legate al partito Nazionaldemocratico di Mubarak”, spiega Kassem. La rivolta, infatti, è stata una sollevazione urbana, non rurale, ma il voto decisivo arriva sempre dalle campagne. E nei villaggi il nuovo attivismo politico non ha ancora avuto la meglio sulle reti clientelari.

"Guardate la foto: tutto colpa del pane. Ma il prezzo sale ancora"

Il Cairo. Sul pilastro di cemento di un ponte che attraversa il Nilo, un gruppo di giovani artisti e attivisti della rivoluzione ha disegnato quasi in scala reale un carro armato. Come a piazza Tiananmen il blindato fronteggia un giovane. Non è uno studente in questo caso, ma un venditore di pane, di quelli che si vedono in strada tutti i giorni al Cairo: in bicicletta, una griglia di legno su cui appoggiare le pagnotte in equilibrio sulla testa. Il murale spiega quello che tutti sanno: che il pane è stato centrale nel far scoppiare la tensione, non soltanto in Egitto. Lungo i viali di Tunisi, a gennaio, i manifestanti urlavano contro il regime brandendo baguette. In Yemen i manifestanti scrivevano “Vattene!” su forme di pane che poi agitavano nelle piazze. Al Cairo, in piazza Tahrir, tra i manifestanti più fotografati c’era un giovane con un “casco” di pane in testa. E molti governi arabi sono subito corsi ai ripari abbassando i prezzi degli alimenti. Il ritornello delle primavere arabe, rimbalzato in tutta la regione, non sembrava uno slogan sociale, bensì politico: “As shab yiurid iskat al nizam”, il popolo chiede la fine dei regimi. Ma dietro c’è la questione pane. Nei mesi prima, l’aumento dei prezzi del grano sul mercato internazionale, la crescente inflazione nei paesi del Nord Africa e del medio oriente hanno contribuito a ingigantire il malessere e la frustrazione politica delle classi medie e a trascinare in strada i ceti più poveri ed esasperati, a gridare contro le ricchezze ammassate dai dittatori mentre la popolazione cerca gli spiccioli in fondo alle tasche per comperare la pagnotta quotidiana. In Egitto il pane è vita, lo dice la parola stessa: “Aish” in dialetto egiziano significa pane e ha la stessa radice di vita. E soprattutto di pane si nutre la popolazione di 75 milioni di abitanti, il 40 per cento della quale vive con meno di due dollari al giorno. Nel paese, il pane è un bene sovvenzionato dallo stato. Esistono forni che vendono il prodotto a prezzo fisso, 5 piastre – centesimi di lira – per un panino (una lira egiziana è 0,11 euro). Ma davanti alle panetterie si formano ogni giorno lunghe code. Chi può permetterselo compra altrove. E di pane in Egitto si muore. Nel gennaio 1977, quando il governo del presidente Anwar el Sadat cancellò i sussidi, la folla scese in piazza. Nelle “rivolte del pane” rimasero uccise 79 persone. E il regime ripristinò le sovvenzioni. Nel 2007- 2008, a causa di difficili raccolti nei paesi esportatori, il prezzo del pane in Egitto è salito del 37 per cento. Assieme ai prezzi è aumentata anche la disoccupazione, è quindi sceso il potere d’acquisto di molti cittadini. Ma i sussidi statali sono rimasti gli stessi. Ancora una volta, la popolazione è diventata irrequieta, si sono create code davanti ai forni, sette persone sono rimaste uccise. Poco prima che l’ex presidente Hosni Mubarak perdesse il trono, i prezzi degli alimenti in Egitto sono aumentati del 18,9 per cento. Said Sadek, sociologo dell’Università americana del Cairo, spiega al Foglio come non sia un caso che le rivolte del pane del 1977 e la rivoluzione del 2011 siano partite in gennaio, “quando i prezzi degli alimenti si gonfiano a causa dell'inverno”. E ricorda che è anche per una pagnotta che si è accesa, tre anni prima di piazza Tahrir, una delle scintille che ha portato alle manifestazioni di febbraio. Il 6 aprile 2008, un gruppo di giovani della classe media ha sostenuto l’arresto del lavoro degli operai delle fabbriche di cotone di Mahalla al Kubra, nel Delta del Nilo, invitando il paese a uno sciopero generale. I lavoratori chiedevano stipendi più alti e prezzi del cibo più contenuti. Il gruppo di giovani è diventato poi il movimento politico del 6 Aprile, protagonista della rivoluzione. Ora, anche i militari al potere in Egitto devono fare i conti con il pane. Le piogge hanno rovinato il 60 per cento del raccolto di grano da esportazione dell’Ucraina, uno dei paesi da cui il Cairo fa la spesa. L’Egitto è il più grande importatore di grano al mondo, con 10 milioni di tonnellate l’anno. Tareq Amer, presidente della Banca nazionale, ha detto al quotidiano egiziano Al Masry al Youm che il prezzo delle importazioni di grano salirà al 5,3 per cento del totale delle importazioni. La Banca mondiale ha messo in guardia sulle ripercussioni che questo potrebbe avere sulla transizione. Con un'inflazione che dall’11 per cento rischia di salire al 13-14 per cento nel 2011-2012, non sarà facile tenere vuota la piazza. Per ora, spiega al Foglio Ahmed al Sayyed al Naggar, economista all’Ahram Center for Political & Strategic Studies del Cairo, l’Egitto può andare avanti fino alla fine dell’anno. “Il raccolto di maggio garantisce il 56 per cento del consumo locale, non importa se in questo periodo le importazioni diminuiscono”.

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