sabato 21 settembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
07.08.2011 La Turchia non sa quale ruolo assumere di fronte ai massacri siriani
commento di Lucia Annunziata, cronaca di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 07 agosto 2011
Pagina: 1
Autore: Lucia Annunziata - Francesca Paci
Titolo: «I profughi siriani che spezzano il sogno turco - Damasco offre elezioni e partiti»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 07/08/2011, a pag.1-17, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo " I profughi siriani che spezzano il sogno turco ", a pag. 17, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Damasco offre elezioni e partiti ".
Ecco i pezzi:

Lucia Annunziata - " I profughi siriani che spezzano il sogno turco "


Lucia Annunziata, Recep Erdogan

Negli scorsi due mesi la Turchia ha preparato ai confini con la Siria un campo di accoglienza in grado di ospitare fino a 200 mila profughi. Lavoro fatto in silenzio e senza allarmi, ma confermato da ambienti diplomatici stranieri nel Paese. Il livello e la velocità di questa preparazione è la migliore indicazione delle nere previsioni e della preoccupazione con cui anche la Turchia, Paese finora molto vicino alla Siria, segue l’avvitarsi verso l’inferno della Casa degli Assad di Damasco.

La deriva siriana lambisce dunque anche il Paese più dinamico, e più differente (in quanto non arabo) del Medioriente. Il pericolo per la Turchia non è certo la destabilizzazione interna - troppo grande il suo Pil, troppo solido il suo consenso interno. Ma la fine precoce di un rinnovato sogno delle sue élite: la voglia di contare di nuovo, la non confessata ma coltivata determinazione di far rivivere un neo-Ottomanismo del terzo millennio.

Era proprio all’insegna di queste aspirazioni «Ottomane» che i rapporti fra Turchia e Siria si erano fatti strettissimi, e sono rimasti tali anche dopo settimane dall’inizio della protesta contro gli Assad. La repressione della protesta in Siria ha però infine scavato un profondo solco tra le due nazioni confinanti.

Nel corso di giugno, secondo la Commissione Onu per i rifugiati dal 7 a fine giugno tra i 500 e i 1500 cittadini siriani hanno attraversato in fuga gli 840 chilometri di confine tra il loro Paese e la Turchia. Il 27 di giugno, il governo Turco ha affrontato energicamente il problema inviando le proprie truppe a limitare la zona per evitare che i profughi si diffondessero in Turchia. Contemporaneamente, secondo fonti diplomatiche straniere, i siriani hanno a loro volta dispiegato le loro truppe lungo la strada che va dalla Turchia a quel rilevante snodo commerciale che è la siriana città di Aleppo.

La strada di cui si parla è la principale arteria dell’area e convoglia verso le capitali mediorientali, fino all’Iraq, il traffico di merci provenienti dall’Europa. La strada è stata messa sotto controllo dai soldati di Assad con posti di blocco fino alla zona di Deir al-Jamal, cioè a 25 chilometri dalla frontiera turca. La mossa, mirata, secondo le parole del diplomatico, «a prevenire la rivolta di Aleppo tagliando ogni legame logistico con la Turchia», la dice lunga sul livello di integrazione, e dunque possibile danno, fra i due Paesi: nella Siria del Nord è molto diffuso il servizio turco di telefonia

(che viene usato dai dissidenti per diffondere informazioni sulla rivolta), e l’interscambio di merci è spinto anche da un fiorente traffico di contrabbando.

Da fine giugno la situazione è drasticamente peggiorata. Dal primo Agosto la famiglia Assad ha scelto la strada della strage. E se l’Occidente sembra attaccare (un po’), la Turchia si è limitata a un modesto avvertimento. Reticenza che è segno – come sostiene il maggior esperto di sicurezza in Turchia, Gareth Jenkins, senior fellow dell’Istituto Central Asia/Caucasus - di imbarazzo, e di indecisione.

Il peggiorare della crisi siriana ha del resto colto Ankara nel pieno di una sua propria crisi istituzionale non insignificante. Due settimane fa l’annoso braccio di ferro fra il governo di Erdogan e Gul e i militari, parte a sua volta di una decennale tensione fra civili e militari dentro il Paese fin dalla sua rifondazione per mano di Atatürk (un militare), è finita con le dimissioni di massa dei vertici militari. Erdogan e il Presidente Gul hanno risposto nominando due giorni fa nuovi vertici dell’esercito. La conclusione ha avuto diverse letture (rafforzamento «autoritario» del governo, o apertura democratica?) - ma di sicuro sposta il pendolo a favore dei civili.

Significativo però è che il discorso di Erdogan di presentazione della nuova giunta militare abbia sottolineato i pericoli terroristi che di nuovo minacciano la Turchia. Per terrorismo qui si intende soprattutto i curdi, il cui più influente leader rimane Abdullah Ocalan (ricordate chi è e quanto costò all’Italia?) dal 1999 in isolamento sull’isola di Imrali, unico prigioniero guardato da più di mille soldati. Di recente in uno scontro a fuoco sono morti 13 soldati turchi e sette curdi. Come è noto I curdi sono divisi in quattro Stati - Turchia, Iran, Iraq, Siria. Per Ankara, dunque, ogni movimento in questi Paesi pone un grave minaccia.

I militari turchi hanno sviluppato così una lunga esperienza nel chiudere con efficacia i propri confini: nella memoria di tutti c’è ancora la brutalità con cui dopo la prima guerra del Golfo, nel 1991, fermarono sparando a vista mezzo milione di iracheni (non solo curdi) che fuggivano la pulizia etnica di Saddam Hussein. Negli Anni Novanta questi stessi militari intervennero in Siria per prendere curdi cui Damasco offriva santuario.

Per la Turchia oggi, tesa a uno sviluppo democratico, economicamente forte, vogliosa di pesare, queste tattiche di «polizia» militare sarebbero un’imbarazzante regressione. Tacere sulla Siria, però, sarebbe regressione ancora maggiore. Le opzioni dunque non sono molte. Fra esperti e diplomatici si parla molto della possibilità che la Turchia decida di creare una «buffer zone» una zona cuscinetto, per contenere (più che per accogliere) i rifugiati. Tale scelta però, secondo Gareth Jenkins, potrebbe creare in molti Paesi del mondo arabo una reazione, dando un segno negativo a quella ambizione «neo-Ottomana» che finora era servita come motore per riscrivere i rapporti fra la Turchia e i suoi vicini.

Francesca Paci - " Damasco offre elezioni e partiti "


Bashar al Assad

Come cambierà la Siria nei prossimi mesi? Mentre i carri armati del presidente Assad assediano le regioni ribelli chiudendo il primo venerdì di Ramadan a quota 22 morti, il ministro degli esteri Walid al Muallin scommette sulla «normalizzazione» e annuncia entro la fine dell’anno le tanto richieste elezioni legislative che, sostiene, dovrebbero dar vita a «un parlamento pluralista», il primo dopo mezzo secolo di monopolio del partito Baath. Damasco conta così di alleggerire con la carota dell’apertura riformista il bastone della repressione che dal 15 marzo a oggi ha reagito alle proteste uccidendo, secondo l’opposizione, almeno 1700 persone.

Prevedibile, a questo punto, il rifiuto dei manifestanti che, per tutta risposta, hanno convocato per stamattina uno sciopero generale in sostegno alla città di Hama, l’epicentro degli ultimi scontri ribattezzato dalla rivista Foreign Policy «massacre city» dove anche ieri tra le strade buie e deserte è rimbombato il tuono sinistro dei bombardamenti.

Il regime siriano continua ad accusare sedicenti «gruppi terroristi», rei di soffiare sul fuoco di «alcune legittime richieste popolari». Ma il tentativo di confondere la narrativa nazionale con quella regionale non sembra dare al governo i frutti sperati. Se la comunità internazionale sempre più inquieta si affida ora al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Kimoon, che ieri avrebbe avuto un colloquio telefonico con il presidente Bashar al Assad, i paesi vicini iniziano a perdere la pazienza. Pressato dal sostegno della propria gente alla protesta di Hama, Homs, Daraa, il Kuwait esorta Damasco a interrompere la violenza mentre le monarchie del Golfo - dall’Arabia Saudita al Bahrein, dagli Emirati Arabi a Oman e Qatar - esprimono per la prima volta un supporto ufficiale alle riforme invocate dai siriani, intervenendo nell’imminente guerra civile con il peso d’una voce araba come auspicato nei giorni scorsi dal segretario di Stato americano Hillary Clinton.

Arriverà il messaggio alle orecchie riluttanti di Assad? L’atmosfera che filtra attraverso la Siria inaccessibile ai giornalisti occidentali non si direbbe promettente. Gli Stati Uniti hanno invitato il proprio personale diplomatico ad abbandonare il paese e l’Italia, pioniera in Europa, ha già richiamato l’ambasciatore a Damasco.

Difficile immaginare una trattativa tra due avversari che non sono mai stai tanto distanti, politicamente e socialmente. All’annuncio delle elezioni concesse dal regime fa da controcanto quello dell’opposizione che denuncia l’arresto del noto dissidente Walid al-Bounni. Due fronti, due narrative, un popolo sul baratro.

Per inviare la propria opinione alla Stampa, cliccare sull'e-mail sottostante


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT