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Il Foglio Rassegna Stampa
30.07.2011 Libano,Siria, Egitto: la primavera araba non trova pace
Come volevasi dimostrare

Testata: Il Foglio
Data: 30 luglio 2011
Pagina: 3
Autore: La redazione del Foglio
Titolo: «Hezbollah prende le distanze da Damasco, che però resiste-L'Egitto in piazza è sempre più diviso (tranne i militari)»

Sul FOGLIO di oggi, 30/07/2011, a pag.32, due analisi si Libano/Siria ed Egitto.


Milizie Hezbollah in Libano                          Assad di Siria

"Hezbollah prende le distanze da Damasco, che però resiste "

Roma. “Il vostro silenzio ci sta uccidendo!”: la parola d’ordine del ventesimo venerdì di protesta in Siria è innanzitutto rivolta ai concittadini, per convincere gli incerti a unirsi ai manifestanti. Gli attivisti siriani, tuttavia, tendono a chiarire alla stampa estera che lo slogan è rivolto anche alla comunità internazionale e alla sua totale incapacità di azione a fronte della più grande crisi umanitaria vista nel Mediterraneo dopo le guerre nei Balcani. La critica, naturalmente, è rivolta in primis ai paesi arabi che, con la sola eccezione dell’Arabia Saudita (che fornisce aiuti e finanziamenti cospicui ai ribelli, sebbene sotto copertura), sono immobili nei confronti della crisi siriana; ma il rimprovero è rivolto anche all’occidente, che, impaludato nella guerra in Libia, si dimostra incapace di iniziativa nei confronti dello stesso epicentro del rivolgimento epocale che sta cambiando il volto del medio oriente. Ieri, di nuovo, ci sono state cinque vittime in varie città e cittadine siriane, inclusi i quartieri della cintura di Damasco (tra queste, un bambino di otto anni a Latakia), ma l’episodio più indicativo è accaduto a Daraa – la città che all’inizio di marzo ha dato vita alla rivolta, più e più volte assediata e occupata dai carri armati di Maher el Assad, dove sono state arrestate centinaia di persone – che ieri, indomita, ha dato vita all’ennesima manifestazione di protesta a cui le forze di sicurezza hanno risposto con gli spari. E’ sintomatico anche lo stato d’assedio a cui è stato sottoposto il centro di Damasco, dove nella notte sono state effettuate decine di arresti preventivi (un centinaio in tutto il paese). In cinque mesi di ribellione, secondo la Ong Avaaz, le forze del regime hanno ucciso 1.634 persone, più del totale dei caduti negli scontri in Tunisia, Egitto e Libia (prima dell’inizio della guerra Nato); 26 mila sono state arrestate, 12.617 sono ancora detenute nelle carceri siriane, mentre i “desaparecidos” sono non meno di tremila. A fronte di questo quadro drammatico, l’Unione europea non riesce a mettere in atto altri provvedimenti se non quello preso ieri, che aggiunge altre cinque personalità del regime alla lista delle 25 già colpite da sanzioni personali. Sanzioni che, come si è verificato, non hanno prodotto alcun effetto, perché chi ne è colpito continua indisturbato e con ferocia (se possibile) sempre maggiore a dirigere repressione e massacri. L’Onu è bloccata dal veto della Russia e della Cina, mentre le veementi proteste del ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, che ha definito “indecente” l’inerzia delle Nazioni Unite, cadono nel nulla. Questo succede anche a causa del precedente libico in cui la Francia ha allargato a dismisura il mandato “umanitario” ricevuto, provocando una reazione non immotivata della Russia, che teme come una nuova risoluzione possa essere “interpretata” in maniera elastica, magari giustificando una riedizione della caccia all’uomo che la Nato ha aperto contro Muammar Gheddafi. La crisi siriana è a tal punto aggravata che lo stesso Hezbollah ha voluto smentire le critiche dell’opposizione siriana, che l’accusavano di avere aiutato Damasco a reprimere le manifestazioni. La smentita è probabilmente vera, perché Hezbollah ha eccellenti qualità militari, ma ben poca esperienza nella repressione di manifestazioni – le operazioni siriane, infatti, vedono la piena partecipazione dei pasdaran iraniani, che mettono a frutto l’esperienza maturata nel contrasto all’Onda verde. La smentita esprime anche la preoccupazione di Hezbollah – che fa parte dell’“Internazionale sciita” organizzata da Teheran ma che è un movimento a forte caratura nazionalista libanese – di essere accomunata alla sorte del regime siriano. Gli Assad, sostanzialmente indisturbati, riescono a esercitare una formidabile repressione di lunga durata, la cui tenuta è garantita dall’allineamento dei vertici militari al regime, a differenza di quanto è successo in Tunisia, Egitto e Libia, dove la rivolta popolare ha innescato tre putsch militari. L’allineamento dei vertici militari, però, non significa affatto compattezza dell’esercito. Già un mese fa, infatti, in un’intervista alla Cnn, il generale Riad Haddad, portavoce dell’esercito, aveva dichiarato che nei primi mesi della rivolta erano morti 1.300 militari. Cifra enorme (superiore alle vittime militari dalle due parti della guerra tra Israele e Libano del 2006), che conferma le testimonianze rese dai militari fuggiti in Turchia, che raccontano di continui scontri a fuoco tra reparti dell’esercito, dopo il passaggio di interi reparti dalla parte dei manifestanti. Restano forti i contraccolpi negativi della crisi siriana sull’Amministrazione americana. Giorni fa il Washington Post ha pubblicato un articolo dal titolo durissimo: “Parole e azioni improvvisate guidano la posizione americana sulla Siria”. Secondo il quotidiano americano, non certo sospettabile di antipatie nei confronti della Casa Bianca, il dipartimento di stato sarebbe in preda a continue improvvisazioni (come la “provocatoria” visita ad Hama dell’ambasciatore Robert Ford, che ha innescato una piccola crisi diplomatica) a causa dei contrasti irrisolti tra una posizione più interventista (capeggiata da Hillary Clinton e dallo stesso Ford) e una più attendista. Il risultato è, finora, una sostanziale paralisi.

" L'Egitto in piazza è sempre più diviso (tranne i militari) "

 

Il Cairo. Ieri, a piazza Tahrir, doveva essere il giorno dell’unità. Tutti i partiti e i movimenti dell’Egitto del dopo Mubarak avevano chiesto ai loro sostenitori di scendere in strada in favore di una lista di richieste, condivise, da presentare alla giunta militare che governa il paese dalla caduta del regime, a febbraio. Decine di migliaia di persone si sono riversate nel cuore della capitale egiziana. Ma la manifestazione, tra le più imponenti dal giorno delle dimissioni dell’ex presidente Hosni Mubarak, è finita per sottolineare la crescente frattura tra l’anima laica della contestazione e gli islamisti – che, nonostante il ritardo con cui sono saliti sul carro rivoluzionario, oggi cercano di condurlo. Dai tetti dei palazzi fatiscenti del centro del Cairo, piazza Tahrir sembra la stessa di febbraio. Ci sono decine di striscioni con i colori nazionali, rosso, bianco e nero. Di nuovo, da lontano, sembrano esserci soltanto gli ombrelli colorati, riparo dal forte sole estivo che rende faticoso scendere in piazza in tarda mattinata, dopo la preghiera islamica del venerdì. Gli slogan però non sono quelli apolitici che si sentivano nei primi giorni della protesta, quando un accordo non scritto tra movimenti laici e Fratelli musulmani – il gruppo islamista che per decenni è stato l’unica opposizione credibile al regime di Mubarak – aveva bandito le formule a sfondo religioso. Ieri, alcuni gruppi islamisti sono arrivati in piazza Tahrir gridando: “Non accetteremo un’alternativa alla legge di Dio”, “la vogliamo islamista”, la rivoluzione. A febbraio si cantava “thawra madaniya” – né militare, né religiosa, ma rivoluzione civile. Oggi, con l’esercito a guidare l’Egitto e gli islamisti in grado di riempire la piazza nonostante le divisioni interne, la voce dei movimenti laici di opposizione fatica a farsi sentire. Quando si è capita la piega che stava prendendo la manifestazione, un gruppo di 28 sigle politiche ha fatto sapere che manterrà il sit in permanente – che da settimane viene mantenuto in centro al Cairo –, anche se la manifestazione “dirottata” dalle forze islamiste, loro, preferivano boicottarla. Il motivo, hanno dichiarato i portavoce dei movimenti, è che gli islamisti avrebbero violato l’accordo per la creazione di un fronte unito. Da diverse settimane la piazza è tornata a riempirsi, obbligando l’esercito ad alcune concessioni. I militari, che a febbraio sono stati applauditi dalla folla per non aver puntato le armi contro la popolazione, sono ora accusati di voler restare aggrappati al potere con gli stessi metodi del governo precedente. Gruppi islamici e Fratelli musulmani avevano abbandonato le proteste ormai da giorni – per dare tempo ai militari di dimostrare la validità delle loro azioni, hanno spiegato – garantendo un appoggio silenzioso ai generali in carica. Ieri, però, sono scesi in piazza per appoggiare le richieste più sentite: basta tribunali militari per i civili, accelerare i processi ai funzionari del vecchio regime coinvolti nella repressione delle manifestazioni, bandire dalla politica gli uomini vicini al regime di Mubarak e dare al paese una road map concreta per una transizione che porti a un governo civile. Su questi punti sono d’accordo tutte le anime dell’opposizione. Le fratture profonde, invece, sono a proposito del futuro politico del paese e della Costituzione. I movimenti giovanili laici e i partiti liberali chiedono ai militari di tracciare oggi le linee guida per la bozza di una Costituzione sui cui lavorare dopo le elezioni. La Fratellanza, unico gruppo politico organizzato, si oppone, certa di poter conquistare un numero di seggi abbastanza alto in Parlamento da poter influenzare la stesura della Carta fondamentale. Il panorama politico resta ancora molto fluido: ieri gli islamisti hanno dato una dimostrazione di forza e gli altri movimenti, spesso, sono divisi persino al loro interno. Se ad aprile, secondo uno studio del Pew Research Center di Washington, il 75 per cento degli egiziani vedeva con favore i Fratelli musulmani, ora – secondo i sondaggi di Gallup, Washington Institute for Near East Policy e Newsweek – la Fratellanza sarebbe diventata impopolare, tanto da non poter andare oltre il 17 per cento dei voti alle elezioni. Il Partito nazionaldemocratico di Mubarak, l’obiettivo principale della rivoluzione di febbraio, otterrebbe il 10 per cento. Mercoledì, al Cairo, si dovrebbe aprire il processo a Mubarak e ai suoi due figli. I militari speravano che, in prossimità del processo, le proteste si sarebbero sgonfiate. Sono in pochi, però, ad aspettarsi che l’ex presidente verrà processato. Già qualche settimana fa il suo avvocato aveva fatto sapere che il vecchio rais aveva avuto un altro attacco cardiaco. L’opposizione dubita dei bollettini medici e si aspetta che ulteriori rivelazioni sulla salute dell’ex presidente ritardino l’inizio del processo.

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