Sul FOGLIO di oggi, 29/07/2011, a pag. I, con il titolo "S'è spenta Tunisi", David Carretta analizza la situazione tunisina mentre i fondamentalisti islamici si preparano all'attacco:
Ecco il pezzo:
La speranza
Agiudicare dagli acchiappaturisti che stazionano all’entrata della medina di Tunisi, la rivoluzione che il 14 gennaio ha portato alla fuga dell’ex presidente Zine el Abidine Ben Ali non ha cambiato le abitudini in Tunisia. “Oggi c’è un’occasione irripetibile! E’ l’ultimo giorno di una fiera di prodotti tradizionali berberi! Hai la possibilità di comprare un tappeto unico al mondo!”, urla il mercante. Come accadeva dieci anni fa, segue il rituale dell’accompagnamento per visitare il mercato, del passaggio su una terrazza per ammirare la vecchia medina dall’alto, del tè in un negozio di tappeti su cui capeggia la scritta “Fiera Berbera”, dei negoziati estenuanti con il venditore, della stretta di mano con il malcapitato, che il più delle volte si conclude con una strisciata di carta di credito e una spedizione via corriere espresso. La modernità ereditata dai regimi passati si vede anche da questo. Banche, centri commerciali, tram, grattacieli in vetro a forma di palla e – cosa più importante in un paese arabo non immune all’islamismo – donne senza velo, alcune in minigonna, che passeggiano o sorseggiano un caffé lungo l’avenue Habib Bourguiba. E’ la via principale di Tunisi, dedicata all’eroe dell’indipendenza, il primo presidente della Repubblica, che dal 1957 ha guidato il paese per oltre trent’anni, prima di essere costretto alla pensione dall’allora suo ex primo ministro Ben Ali. L’avenue Bourguiba è anche il luogo della rivoluzione dei gelsomini, dove i tunisini hanno manifestato a ripetizione in gennaio, riuscendo a porre fine ai ventiquattro anni di regno di Ben Ali. E a innescare la primavera araba, con la rivoluzione di piazza Tahrir al Cairo, le rivolte in Yemen, Bahrein e Siria, la guerra in Libia. Sull’avenue Bourguiba, come nel resto della capitale, ora si discute con una libertà che non ha precedenti: si critica il governo, si irride la polizia, si dibatte della minaccia islamista, e gli islamisti non si nascondono più, manifestano pubblicamente. In poche settimane, i tunisini sono riusciti a conquistarsi la libertà di parola e di associazione, e le prime elezioni realmente libere. E ora? “Siamo al preambolo della fase di transizione”, dice al Foglio Amine Ghali, direttore di Kadem, un’organizzazione regionale che si occupa di transizioni democratiche. “Forse la rivoluzione in senso stretto è dietro di noi, ma siamo nel pieno dell’inizio di una transizione. La prossima tappa sarà il voto del 23 ottobre – spiega Ghali – Solo con le elezioni entreremo nel ‘capitolo uno’ della transizione: la preparazione della Costituzione”. Fino ad allora tutto il processo che dovrebbe portare alla costruzione di una nuova Tunisia è a rischio, circondato da pericoli e minacce interne e esterne. Il 21 luglio, il presidente della Repubblica ad interim, Foued Mebazaa, ha firmato un decreto che dal primo agosto instaura lo stato d’emergenza su tutto il territorio. E’ l’inizio del Ramadan, un mese di festa, ma anche un mese che si annuncia di tensioni politiche e rivendicazioni sociali. Il 2 agosto si chiudono i termini per le iscrizioni alle liste elettorali e inizia l’organizzazione delle elezioni dell’Assemblea nazionale costituente. Già a metà luglio una serie di manifestazioni politiche, sociali e religiose ha fatto tremare il governo. L’economia è bloccata, la disoccupazione è in aumento, e la rivoluzione tarda a dare i suoi frutti. I posti di polizia di diverse località sono stati attaccati nel fine settimana del 17 luglio da alcuni militanti islamisti. A Sidi Bouzid, la città dove il 17 dicembre si era dato fuoco Mohammed Bouazizi provocando la rivolta in tutto il paese, un ragazzino di 14 anni è stato ucciso da una pallottola vagante. In un discorso televisivo alla nazione, il primo ministro provvisorio, Béji Caïd Essebsi, ha risposto accusando delle violenze “le correnti estremiste religiose e gli altri estremisti di destra e sinistra” e denunciando “un piano premeditato” per rinviare le elezioni. Sono più di cento i partiti che hanno annunciato la loro intenzione di correre il 23 ottobre. Laici contro islamisti; progressisti contro conservatori; democratici contro repubblicani, liberali contro marxisti; modernisti contro tradizionalisti. Complice una legge elettorale per garantire la massima rappresentatività possibile nell’Assemblea costituente, la lista di nuovi e vecchi partiti è sterminata. Ma l’incubo di molti – governo di transizione, élite laica pre e post rivoluzione, partner occidentali della Tunisia, donne – è il successo degli islamisti di Ennahda. Bourguiba prima e Ben Ali poi hanno fatto della Tunisia uno dei paesi più moderni e laici del mondo arabo. Il governo di transizione si è iscritto nella loro tradizione, decretando la parità uomo-donna nelle liste elettorali. Ma ora “gli islamisti minacciano le conquiste dei tunisini e delle tunisine”, dice al Foglio Saoussan Kanoun della’Association Citoyenne, che aspira a essere capolista donna di uno dei tanti partiti in lizza. “Se gli islamisti arriveranno al potere, avremo una società completamente diversa”. Imposizione del velo? Poligamia? Proibizionismo dell’alcol? Legge del taglione? “Loro non lo dicono, perché usano un doppio linguaggio, ma hanno l’intenzione di applicare la sharia islamica”, si allarma Kanoun. Il leader di Ennahda, Rachid Ghannouchi, dopo essere rientrato trionfalmente dall’esilio di Londra, è diventato il politico più conosciuto della Tunisia. In un sondaggio realizzato a giugno, il 67 per cento dei tunisini dice di essere indeciso, ma il 14 per cento è pronto a votare Ennahda, mentre tutti gli altri partiti sono sotto il 5 per cento. Dopo anni di clandestinità, il partito è stato legalizzato in marzo dal governo di transizione. Rachid Ghannouchi concede interviste al Financial Times per chiedere un esecutivo di unità nazionale che affronti le emergenze economiche. Al Times di Londra, il leader islamista dice che non intende “vietare il bikini e l’alcol” in Tunisia: “Non dico che sono a favore. Credo siano cose pericolose. Non ci piacciono. Ma non tratteremo la gente costringendole a fare delle cose, semmai convincendole”. Ufficialmente Ennahda si ispira al Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) di Recep Tayyip Erdogan in Turchia: un partito islamico-moderato che incide sulla società, e non una forza islamista che vuole replicare la rivoluzione iraniana del 1979. Ma si stanno moltiplicando i segnali di allarme: attacchi a bar che vendono alcolici; donne in costume insultate sulle spiagge di Hammamet; attentati contro le forze di sicurezza. Su Facebook i laici tunisini sono denunciati come “burattini dell’occidente”. A inizio luglio un gruppo di salafiti ha assaltato un cinema a Tunisi che proiettava il film “Ni Dieu, Ni Maître” della regista franco-tunisina Nadia El Fani, critica dell’islam politico. “Gli islamisti non sono moderati, cercheranno di riportarci a come la gente viveva 1.400 anni fa”, spiega Nadia El Fani. Secondo Saoussan Kanoun, “per essere accettati nella società oggi, gli islamisti devono avere un doppio linguaggio, altrimenti nessuno li ascolterebbe. E’ una strategia per arrivare al potere”. Per Amine Ghali, Ennahda rappresenta una delle minacce, anche se “non la più importante”, che pesano sulla transizione tunisina: “Sono forze tradizionaliste che vorrebbero riportare il paese a uno schema meno modernista, molto vicino a un approccio islamico”. Un altro rischio è rappresentato dalla “presenza massiccia delle forze dell’ancien régime”, dice Ghali. “E’ vero che abbiamo eliminato Ben Ali e la sua cricca. Ma tutto il sistema e tutta l’amministrazione sono attualmente governati da gente vicina al partito di Ben Ali”. Il premier ad interim, Béji Caïd Essebsi, era stato presidente dell’Assemblea nazionale negli anni del regime. Habib Essid, l’attuale ministro dell’Interno, è un ex alto funzionario che ha servito sotto diversi governi Ben Ali. Né l’amministrazione né la giustizia né la polizia sono state epurate per evitare il pericolo di una destrutturazione dell’intero paese. “Finora non siamo riusciti a riorganizzare il settore della sicurezza, che è strategico”, spiega Slaheddine Jourci, vicepresidente dell’Alta istanza sulla violenza, una delle tre commissioni responsabili della transizione. “Finora la giustizia non è cambiata. I mezzi di informazione e il giornalismo continuano a lavorare nello stesso modo”. L’Unione costituzionale democratica (Rcd) di Ben Ali è stata sciolta d’imperio in marzo e a più di novemila suoi ex iscritti è stato vietato di correre alle elezioni. Ma la vecchia guardia si sta riorganizzando in vista del voto del 23 ottobre. Un ex ministro dell’Interno e della Difesa di Ben Ali, Mohamed Jegham, è alla testa di al Watan (la nazione), partito che si descrive centrista ma che alla rivoluzione preferisce “il ritorno alla serenità”. Un altro ex ministro della Difesa, Kamel Morjane, ha fondato al Mubadara (l’iniziativa). “Il partito di Ben Ali non c’è più”, ma gli uomini del regime si stanno riunendo “sotto un’altra bandiera per deviare la transizione democratica”, spiega Ghali. Mercoledì, a meno di una settimana dalla scadenza del 2 agosto, solo un settimo dei tunisini aventi diritto al voto si era iscritto nelle liste elettorali: poco più di un milione di persone su quasi otto milioni di potenziali elettori. In realtà, l’operazione dell’iscrizione serve al governo per attualizzare gli elenchi degli elettori. Esiste la scappatoia dell’iscrizione automatica “passiva”: chi non si è registrato in tempo, potrà votare nel luogo di residenza scritto sulla carta di identità. Ma la mancata corsa dei tunisini per iscriversi alle liste elettorali è un segnale di allarme in un paese che dovrebbe essere in piena effervescenza democratica. Alcuni danno la colpa a Ben Ali e alle sue elezioni farsa, che non hanno mai permesso ai tunisini di sviluppare un vero senso civico. Altri sospettano un boicottaggio di Ennahda, l’unica forza politica che ha un controllo sociale esteso, in particolare nelle campagne, ma che contesta una legge elettorale sfavorevole. “La partecipazione resterà debole perché esiste un fossato enorme tra due tipi di tunisini”, scrive un commentatore del giornale Kapitalis: c’è la minoranza “politicizzata, che frequenta i social network e partecipa alle manifestazioni”; e c’è la massa dei tunisini che si iscrive in una “logica della sopravvivenza, per la quale votare significa poca cosa, l’importante è arrivare alla fine del mese”. La rivoluzione del 14 gennaio è stato un duro colpo per l’economia tunisina. Secondo le ultime stime della Banca centrale nazionale, nei primi tre mesi dell’anno c’è stata una contrazione del 3,3 per cento. La speranza è che alla fine del 2011, la crescita torni a essere positiva: 1 per cento, contro il 3,7 dello scorso anno, dice la Banca centrale. Il settore del turismo, il più importante con l’agricoltura, ha perso il 50 per cento delle entrate. Centinaia di migliaia di persone sono state licenziate o non hanno ritrovato un posto di lavoro stagionale. Le rimesse dei tunisini emigrati all’estero – 2,5 miliardi, circa il 5 per cento del pil – sono crollate di due terzi anche a causa della crisi economica mondiale. “La situazione è grave. Ci sono milioni di tunisini che vogliono risolvere i loro problemi corporativi e individuali molto rapidamente, e con un governo che non ha le capacità e il diritto di fare delle scelte economiche strategiche”, spiega Slaheddine Jourci. “Abbiamo bisogno che il turismo si riprenda e che si risolva la situazione in Libia”, ha detto al Financial Times il governatore della Banca centrale, Mustapha Nabli. Perché la crisi libica economicamente “è stata molto dolorosa per noi”. La Tunisia deve fronteggiare un afflusso di rifugiati dal conflitto che non ha precedenti e non è minimamente paragonabile agli sbarchi in Europa. Circa 600 mila persone hanno attraversato il confine per sfuggire alla guerra civile tra le forze del colonnello Muammar Gheddafi e i ribelli di Bengasi sostenuti dai bombardamenti della Nato. Nella piccola città del sud di Tataouine, in pochi mesi, la popolazione è raddoppiata: 15 mila locali e 20 mila rifugiati. “La Libia è un paese in conflitto interno, con un intervento militare occidentale. In questi ultimi giorni ci sono missili che cadono sul territorio tunisino – spiega Amine Ghali – Non dico sia un attacco contro il paese, ma costituisce un altro rischio”. Tanto più che “dall’altra parte c’è un peso massimo della regione, l’Algeria. E l’Algeria è un paese che resiste al cambiamento. L’Algeria è circondata da un lato dalla Tunisia sulla via della democrazia, dall’altra dal Marocco che è un paese verso la strada della democratizzazione – dice Ghali – Questo potrebbe incitare Algeri a giocare un ruolo negativo in questi due paesi”. Secondo Slaheddine Jourci, “ci sono forze antirivoluzionarie, anche straniere, che vogliono inquadrare la rivoluzione tunisina per garantire la continuità dei loro interessi ed eliminare tutte le possibilità di un cambiamento reale sia su un piano economico sia su un piano culturale e politico”. Di fronte ai rischi interni ed esterni che fanno traballare la rivoluzione tunisina, mancano “l’attenzione e il sostegno internazionale”, in particolare dell’Unione europea e dei suoi paesi, denuncia Emma Bonino, di passaggio a Tunisi per il Consiglio generale del Partito radicale nonviolento transazionale e transpartito. “Invece di aspettare di rimpiangere dopo, forse è meglio attrezzarsi” per dare una mano alla Tunisia perché – dice Bonino – “la transizione verso la democrazia sarà lunga, complicata, difficile e controversa”. Per Amine Ghali, ci vorranno “cinque, sei, forse dieci anni”. Al di là dell’orizzonte temporale – le elezioni del 23 ottobre oppure il decennio per tentare di arrivare a una democrazia – rimane un “grande problema”, spiega Slaheddine Jourci, una delle voci più ascoltate dagli islamisti: “Come questi tunisini, questi partiti, questi intellettuali, che non hanno la stessa concezione della nuova Tunisia, come gli islamisti e i laici, i rivoluzionari e i non rivoluzionari, come tutto questo mosaico riuscirà a vivere insieme nella Tunisia dopo la rivoluzione”.
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