Sul FOGLIO di oggi, 29/07/2011, a pag.3, due analisi relative a Israele. La prima, sui rapporti con la Turchia, preceduta da un nostro commento la seconda sulla possibilità che a settembre esploda un aterza intifada.
Ecco gli articoli:
"C'è la mano di Erdogan dietro al momento no di Netanyahu"
Questo articolo contiene alcune tesi curiose:
1) sembra che la crisi con la Turchia sia iniziata con l'affare della Mavi Marvara, quando invece è noto che i rapporti con la Turchia hanno cominciato ad entrare in crisi con l'avvento del governo Erdogan otto anni fa. E non solo con con Israele, ma anche con gli Usa
2) Non è Abu Mazen che è passato dall'Egitto alla Turchia, ma è Erdogan che si è allontanato da Israele avvicinandosi, in funzione anti-Israele, ai palestinesi, più che con l'Anp con Gaza. E' ovvio che con la caduta di Mubarak, è migliorata per Abu Mazen la possibilità di ampliare il numero degli alleati nella regione, Egitto compreso.
3) Abu Mazen, se volesse veramente lo stato palestinese, non metterebbe in pericolo gli accordi di Oslo. Se lo fa, non è perchè sia astuto - come sostiene il FOGLIO - ma perchè ritiene che l'iniziativa possa dargli visibilità nei confronti di Hamas, il partner scomodo ma indispensabile per far credere all'Occidente che la Paestina c'è ed è unita.
4) Netnayahu non ne imbrocca una: é Erdogan che è un premier democratico, non Bibi, il quale sbaglia a comportarsi così con l'ex alleato turco. Bibi si accorge in ritardo dei danni che provoca, Bibi ritarda a mettere in moto la sua diplomazia, non essendosi accorto di aver dato una risposta alla Mavi Marmara facendo un "uso sproporzionale della forza", almeno così dice il rapporto Onu. Che è come dire che l'uso della legittima difesa è un ricorso sproporzionato alla forza. Tesi che il FOGLIO sembra condividere. Bibi poi chiederebbe forse persino scusa, se non ci fosse quel birbante di Lieberman a impedirglielo.
5) per finire Bibi non sa "ricomporre le relazioni (eccellenti fino al 2008) con l'unico altro stato democratico del Medio Oriente. Se non fosse chiaro è la Turchia ad essere l'altro stato democratico.
Ci siamo stropicciati gli occhi per essere sicuri che stavamo leggendo il FOGLIO.
Caro Ferrara, che succede ?
IC redazione
Roma. Il crollo della popolarità del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, scesa dal 51 per cento di maggio al 32 per cento di questi giorni, non è legato alla politica estera, ma ai contraccolpi della crisi economica. Alle proteste di piazza contro il caro-alloggi si è sommata la mobilitazione dei medici contro le condizioni della sanità pubblica e la discreta prova del movimento degli indignados. E’ invece il suo governo a essere spaccato proprio dalla politica estera. La soluzione della crisi con la Turchia, aperta dal caso della Mavi Marmara, è infatti un tutt’uno con una scadenza che preoccupa Israele: il voto con cui l’Onu, a settembre, sancirà il passaggio dell’Autorità nazionale palestinese da “entità nazionale” a “stato”. La radice dei due momenti di crisi è identica: il passaggio del palestinese Abu Mazen dalla partnership con l’Egitto di Hosni Mubarak a quella con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Il cambio di alleanze ha prodotto un’astuta iniziativa diplomatica che non porterà alla proclamazione unilaterale dell’indipendenza (proibita dagli accordi di Oslo), ma a una passo che indebolirà la posizione negoziale di Israele: l’assemblea dell’Onu, accogliendo la Palestina come stato, di fatto riconoscerà la piena validità dei confini del ’67. Poco importa se poi il Consiglio dell’Onu non avallerà – per via del veto americano – la risoluzione. Resterà il fatto che due terzi dei membri delle Nazioni Unite avranno riconosciuto i confini del ’67. Il percorso sarà sostenuto dalla mobilitazione popolare palestinese, a cui si è appellato ieri Abu Mazen. Si teme che la risposta della base sarà violenta, anche se Abu Mazen farà di tutto per impedirlo, perché una nuova Intifada svuoterebbe del tutto la forza della sua strategia. E’ la prima volta che l’Anp assume un’iniziativa così raffinata, di palese ispirazione turca. Il premier di Ankara Erdogan ha fatto pubbliche pressioni su Hamas per ottenere la riappacificazione (di pura facciata) con l’Olp. Netanyahu è rimasto spiazzato dalla nuova partnership: Erdogan, che ha sostituito l’immobilismo dell’ex alleato egiziano Mubarak, è islamico, ma democratico. Il premier israeliano si è accorto in ritardo dei gravi danni che potrà subire dalla prossima assemblea Onu (con Francia, e forse anche Inghilterra e Germania, intenzionate a votare a favore della risoluzione palestinese) e ha messo in moto troppo tardi la diplomazia di Gerusalemme. L’argomento dell’impossibilità, per i palestinesi, di guidare da soli il futuro stato – vista la totale inattendibilità della pacificazione fra Hamas e Olp – è valido ma non sufficiente ad arginare la valanga dei voti a favore della risoluzione. Anche la zavorra della risposta israeliana alla flotilla Mavi Marmara è ora d’ostacolo a Netanyahu, persino dentro al suo governo. La pubblicazione del report dell’Onu sul caso è stata spostata a settembre, dietro pressione americana, ma il suo contenuto è noto: Israele aveva tutto il diritto di difendere manu militari il blocco di Gaza, ma è ricorso a un “uso sproporzionato della forza”. Su queste basi il procuratore generale Yehuda Weinstein, figura centrale nel sistema israeliano, ha raccomandato al governo di ricomporre il contenzioso con la Turchia, anche per evitare cause di risarcimento danni da parte dei parenti delle vittime della flotilla. Netanyahu s’è detto disponibile, aprendo anche alla possibilità di una qualche formula di “scuse”, attirandosi le critiche pubbliche del suo ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Erdogan si è inserito nell’impasse diplomatica, dichiarando che, in mancanza di “scuse”, declasserà le relazioni con Israele e visiterà Gaza. La situazione è decisamente critica per Israele: mentre cresce il rischio che l’autunno sia foriero di azioni militari da parte di Siria e Hezbollah, Netanyahu non sa ricomporre le relazioni (eccellenti sino al 2008) con l’unico altro stato democratico del medio oriente.
"Israele si prepara al rischio di una terza Intifada a settembre"
Roma. L’Idf, l’esercito di Israele, ha un solo programma per settembre: “Zero funerali”. La domanda degli analisti e dei militari dello stato ebraico è una sola: cosa accadrà dopo che i palestinesi avranno cercato l’indipendenza all’Onu? Numerosi gli scenari e Pinhas Inbari, uno dei massimi esperti di mondo arabo, in un dossier per il Jerusalem Center for Public Affairs spiega che i palestinesi potrebbero lanciare una “terza Intifada”. Altri analisti dicono il contrario, i palestinesi non avrebbero interesse a riprendere la lotta armata. Nel caso in cui l’Onu voti per l’indipendenza, le forze di sicurezza palestinesi potrebbero reclamare i territori. In caso di voto negativo, i gruppi terroristici potrebbero rilanciare il terrorismo su larga scala. Intanto Gerusalemme si arma – è di ieri l’annuncio che l’esercito sarà dotato di armi speciali. Le violenze potrebbero riprendere sia che Israele annulli gli accordi di Oslo sia che annetta i territori contesi dal 1967. Uno dei maggiori analisti militari, Moshe Hisdai, ha stilato un “piano d’emergenza” in caso di attacchi ai civili. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, dice che l’esercito non è pronto a “una invasione di massa dei confini” e ha fatto sapere che “una protesta non violenta di quattromila persone che marciano su un checkpoint o una colonia non può essere fermata da gas lacrimogeni”. Anche l’ex capo di stato maggiore Amnon Lipkin- Shahak prevede dimostrazioni di massa contro gli insediamenti e il muro che separa Israele dai territori palestinesi. Per questo Marwan Barghouti, leader dell’ala movimentista di Fatah, che ha lanciato un appello a “marce di massa” contro Israele, è stato posto in isolamento nel carcere israeliano in cui sconta l’ergastolo. La polizia di Gerusalemme ha tenuto la più grande esercitazione congiunta dal 2005, quando Israele evacuò i coloni di Gaza. Al confine con la Striscia è in corso la creazione di una “autostrada invisibile” di tre chilometri che servirà a proteggere i civili che costeggiano la regione. Si sa che sarà protetta da una nuova, fittissima schiera di alberi piantati per sigillare il confine dalla vista dei terroristi di Hamas. A ottobre sono previsti attacchi agli insediamenti, ai posti di blocco, alla barriera difensiva. Si parla di “terrorismo popolare”, con blocchi e incendi delle strade. A rischio le comunità israeliane dentro alla Linea verde e vicine alla barriera, ma si parla anche di attacchi di arabi israeliani nelle comunità della Galilea. Il quotidiano Haaretz ha riferito di lanci massicci di razzi Grad del Jihad islamico sulle città del sud. Il rischio è che le forze palestinesi occupino l’area C, che l’accordo di Oslo ha mantenuto in mani israeliane. Sono previsti attacchi al Muro del pianto e violente manifestazioni arabe a Gerusalemme. Israele ha investito 20 milioni di dollari nell’acquisto di una nuova arma, “Scream”, l’urlo, che causa vomito e disorientamento. Sta valutando anche l’acquisto di un sistema sonoro che stordisce i manifestanti (gli Stati Uniti non ne hanno approvato l’uso, duri i gruppi dei diritti umani). A nord, l’esercito sta costruendo una barriera di 12 chilometri contro infiltrazioni siriane e libanesi. Nuove licenze per la detenzione di armi sono concesse ai settler di Giudea e Samaria. Secondo il Palestinian Center for Public Opinion, il 72 per cento dei palestinesi e il 52 per cento degli israeliani (sondaggio Dahaf) si aspettano una nuova Intifada. Ieri l’esercito ha testato Arrow 3, il sistema antirazzo che intercetta i missili a lunga gittata (dall’Iran, ad esempio). Ron Ben Yishai, esperto militare di Yedioth Ahronoth, scrive che Hamas ha stoccato diecimila razzi, molti dei quali possono raggiungere lo skyline di Tel Aviv.
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