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La Stampa Rassegna Stampa
25.07.2011 Una proposta per far partire il negoziato
L'analisi di Abraham B.Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 25 luglio 2011
Pagina: 1
Autore: Abraham B.Yehoshua
Titolo: «Una proposta per far partire il negoziato»

Sulla STAMPA di oggi, a pag.1-33, A.B.Yehoshua, con il titolo "Una proposta per far partire il negoziato" dice la sua opinione sul processo (arenato) di pace. L'unica affermazione che ci pare paradossale è la seguente: "Come reagirebbe infatti Israele se la futura Palestina pretendesse di essere riconosciuta come lo Stato di tutto il popolo arabo e dell’intera nazione islamica?". Beh, si dà il caso che di Stato ebraico ne esista uno solo, mentre di stati arabi ce ne sono 22 !, semmai c'è l'imbarazzo della scelta, sarà per questo motivo che i palestinesi si ostinano a non velerne uno loro, mandando a monte tutte le trattative fino ad oggi, e mirano a prendersi Israele ?
Ecco il pezzo:


A.B.Yehoshua

Alla ripresa dei negoziati tra Israele e i palestinesi si oppongono diversi ostacoli che non sono che una premessa di quelli che si riveleranno durante le trattative. Uno di questi è la richiesta che i palestinesi riconoscano Israele come Stato «ebraico», e che loro si rifiutano di soddisfare.

Diamo un’occhiata a cosa si nasconde dietro tale richiesta, avanzata, credo, già all’epoca del governo Olmert.

Se dietro a essa si nasconde il rifiuto di Israele di accogliere entro i propri confini i profughi palestinesi della guerra del ’48, perché girare intorno alla questione e non dirlo apertamente?
Ritengo che oltre il 95 per cento dei cittadini ebraici di Israele respinga fermamente questa eventualità, sia che i profughi del ’48 siano ora residenti in Cisgiordania e a Gaza, sia nei Paesi arabi. È chiaro infatti che non potranno tornare a fantomatiche «case» ormai inesistenti in un Paese per loro straniero, ma solo a una patria nella quale provino un senso di comune identità. Solo lì potranno rifarsi una vita, a una distanza massima di 10 o 15 chilometri dalle loro case distrutte e dalle terre conquistate dagli israeliani durante la guerra del ’48. In ogni caso, per ricostruire o restaurare quelle originali e ridare la terra ai profughi, Israele dovrebbe evacuare decine, se non centinaia di migliaia, di suoi cittadini, che diverrebbero a loro volta degli esuli.

Tutto il mondo può quindi capire la nostra posizione, compresi i palestinesi che sanno bene che la pretesa di un ritorno dei profughi (fatta eccezione per un numero molto limitato di persone per motivi di ricongiungimento familiare) non verrebbe mai accettata e la pongono unicamente come eventuale carta di scambio o come tentativo di impantanare i negoziati.

Ma se dietro la richiesta del governo Netanyahu di riconoscere Israele come «Stato ebraico» (che, per inciso, non è mai stata posta come condizione a un accordo di pace con l’Egitto o la Giordania) si nasconde qualcosa di più grande e profondo, giustamente i palestinesi vogliono sapere cosa. Forse il desiderio di un placet morale e politico a un’ulteriore riduzione dei diritti degli arabi israeliani? In questo caso i palestinesi avrebbero ragione a respingerla. Se invece tale governo pretende che i palestinesi riconoscano il principio che qualsiasi ebreo, in qualunque parte del mondo, fa parte dello Stato di Israele solo grazie alla sua nazionalità ebraica (cosa inaccettabile anche per molti ebrei), allora, giustamente, vorrebbero innanzi tutto sapere quale sia la definizione ufficiale di «ebreo» e, in secondo luogo, rifiuterebbero la mediazione di un inviato americano quale Dennis Ross, del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner o di altri ancora perché, essendo ebrei (e quindi «appartenenti» a Israele), non potrebbero svolgere la loro missione in maniera imparziale. Come reagirebbe infatti Israele se la futura Palestina pretendesse di essere riconosciuta come lo Stato di tutto il popolo arabo e dell’intera nazione islamica?

In poche parole nella mente politica israeliana si è creata una specie di strana idea fissa intesa a bloccare i negoziati, o a esprimere una profonda aspirazione ebraica di porre fine alle dispute in maniera teologica, come preparazione alla venuta del messia. Si vorrebbe insomma risolvere un conflitto che dura da 120 anni non come farebbero altri popoli, ma in un modo più profondo, completo, chiedendo cioè ai palestinesi di riconoscere non solo l’ideologia sionista ma anche l’intera storia ebraica.

Avrei allora una proposta alternativa, che sarebbe forse accettabile per i palestinesi. Proporrei loro di ascoltare i nostri nazionalisti fanatici - per lo più religiosi - quando cantano in preda a estasi vicino alle loro case: «La Terra di Israele appartiene al popolo di Israele» e non «La terra di Israele appartiene agli ebrei», «al popolo ebraico» o «alla nazione ebraica». Se proprio quindi non possiamo farne a meno, anziché porre loro la condizione di riconoscere Israele come «Stato ebraico», dovremmo chiedere che lo riconoscano come «lo Stato del popolo di Israele» o «del popolo israeliano». Proprio come noi riconosceremmo la Palestina come lo Stato del popolo palestinese. Questa simmetria sarebbe corretta e accettabile anche dal punto di vista della nostra terminologia storica e religiosa. Una formulazione che rimuoverebbe una mina sulla strada del negoziato e che, credo, i palestinesi non avrebbero motivo di rifiutare.

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