Sul FOGLIO di oggi, 22/07/2011, a pag.4, con il titolo " L'inganno del Cairo " Carlo Panella analizza il caos politico che caratterizza quella che molti si ostinano a chiamare primavera araba.
Roma. Poche ore prima del giuramento del nuovo esecutivo guidato da Essam Sharaf, il generale Mamdouh Shahin del Consiglio supremo delle Forze armate ha reso nota la nuova legge elettorale per le prime consultazioni democratiche per l’Assemblea del Popolo (la Camera) e per la Shura (il Consiglio consultivo). Come sempre, i generali di Mubarak – che guidano il paese dopo il putsch militare con cui l’hanno allontanato dal potere – compiono passi ambigui e contraddittori, forti della debolezza politica e progettuale dei partiti ancora in formazione e della stessa piazza Tahrir. Il generale Hussein Tantawi – che era il fedele ministro della Difesa di Mubarak, ma l’ha deposto con l’appoggio della Casa Bianca nel febbraio scorso e che ora presiede il Consiglio – ha risposto positivamente alla nuova, forte mobilitazione dei giovani che hanno rioccupato piazza Tahrir e ha accettato di espellere dal governo e di sostituire 14 ministri. Dall’altra parte però, i generali hanno inserito nella legge elettorale una norma che impedisce qualsiasi controllo internazionale sulla correttezza del voto “per difendere la sovranità nazionale”. Decisione addirittura offensiva per l’Onu, l’Unione europea e l’Osce (organizzazione che monitora senza problemi tutte le elezioni nei paesi di nuova democrazia), che si accompagna a una più che sospetta suddivisione del voto in tre scadenze, a quindici giorni di distanza l’una dall’altra. Meccanismo accettabile in un paese enorme e con immense zone di sottosviluppo come l’India, ma in un paese come l’Egitto, oggi, sembra obbedire solo alla volontà di una manipolazione scientifica di risultati che il Consiglio, e soltanto il Consiglio, può mettere in atto con tutto comodo. In omaggio alle antiche fole del “socialismo arabo” la legge elettorale riserva a “operai e contadini” metà dei 504 seggi, ma abolisce la “quota rosa” introdotta da Mubarak. Ancora in forse la data del voto, che slitterà rispetto alla scadenza di settembre, ma che comunque si terrà entro il 2011. Il gioco ambiguo dei generali non si ferma a questo: il sito Facebook dell’esercito ha infatti indetto un irrituale sondaggio sul presidente della Repubblica (da eleggere nel 2012) a cui hanno partecipato oltre 270 mila egiziani e che è stato vinto da Mohammed ElBaradei con 68 mila voti (25 per cento), seguito dall’islamista Salim al Awa, con 48 mila voti (17 per cento) e dal laico e liberale Ayman Nour leader del partito Ghad col 13 per cento dei favori, mentre Omar Suleiman, ex potente capo del Mukhabarat (i servizi) di Mubarak si è piazzato al quarto posto (ma nega l’intenzione di candidarsi). Sondaggio per nulla indicativo – l’accesso a Internet è ultraminoritario – cui hanno risposto soprattutto militari, ma che rivela che l’esercito cerca un suo candidato da favorire. Non sorprende che il vincitore sia ElBaradei, personaggio solo mediatico, con nessuna base sociale, che da mesi si dà da fare per trovare un qualche potente sponsor che dia forza alla sua candidatura (ha tentato anche con i Fratelli musulmani). La sua fragilità politica, accompagnata alla sua forte immagine internazionale (è Nobel per la Pace) ne fanno probabilmente un candidato di elezione per le Forze armate da contrapporre a un Amr Moussa (ex segretario della Lega araba, avversario di Mubarak, ma sempre all’interno del regime), poco gradito ai generali a causa della sua popolarità. Il protagonismo politico dei generali egiziani è confermato da un comunicato ufficioso della Commissione che definisce le linee guida della nuova Costituzione (che sarà sottoposta a referendum) in cui si rende noto che la maggior parte dei suoi 50 membri si oppone a dare futuri ruoli politici ai militari. Bonapartisti in salsa araba I generali egiziani ambiscono a vedere riconosciuto dalla Costituzione un ruolo sovraordinato e di controllo sulle istituzioni elettive, come avevano i generali turchi quando controllavano il Consiglio supremo di sicurezza di Ankara. Ma i generali turchi svolgevano questo ruolo perché erano stati per 80 anni l’effettiva e operante garanzia del processo democratico e soprattutto della laicità dello stato, mentre i generali egiziani (che hanno peraltro perso tutte le guerre) sono sempre stati subordinati al regime di Mubarak. Il fatto è che il “bonapartismo in salsa araba” dei generali egiziani non trova argine in una forte presenza dei vecchi e nuovi partiti politici, ancora palesemente immaturi, frantumati e incapaci ad elaborare strategie politiche. Si pensi che i Fratelli musulmani (peraltro attraversati da continue scissioni) saranno forse il primo partito egiziano, ma in realtà, secondo il sondaggio di giugno dell’Abu Dhabi Gallup hanno solo il 15 per cento dei favori, questo perché tutti gli altri partiti sono frantumati e divisi.
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