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Libero Rassegna Stampa
21.07.2011 Cosa leggevano i nazisti, e un ritratto di Heidegger
Commenti di Vito Punzi, Mario Bernardi Guardi

Testata: Libero
Data: 21 luglio 2011
Pagina: 28
Autore: Vito Punzi-Mario Bernardi Guardi
Titolo: «Nelle librerie nazi spopolava la fantascienza- Il tentativo di occultare l'Heidegger filo-hitleriano»

Su LIBERO di oggi, 21/07/2011, a pag. 28, due articoli sulle letture preferite dei nazisti e un ritratto del filosofo Martin Heidegger, sul quale spesso escono libri che tentano di cancellare le sue responsabilità nei confronti del Terzo Reich.
Eccoli:

Vito Punzi: " Nelle librerie nazi spopolava la fantascienza "

È stato da tempo appurato che il programma ideologico del nazionalsocialismo è consistito di un amalgama di diverse correnti spirituali. Meno noto (e accettato) è il fatto che il paesaggio culturale del Terzo Reich non possa essere reso in alcun modo con un’immagine di compattezza e uniformità. E se il controllo della quotidianità era l’obiettivo del regime, bisogna direchequel progetto fallì in particolare nel contesto editoriale. Questo sebbene fin dal 1927 i nazisti avessero fondato, sotto la guida di AlfredRosenberg, un “Fascio per la cultura tedesca”. I problemi emersero già dal 1933, l’anno della presa del potere, perché il ricco e articolato sistema editoriale tedesco si vide consegnato nelle mani di molte e discordanti istituzioni impegnate a vario titolo nel controllo e nella censura: il ministero per l’Educazione, quello per gli Interni e la Propaganda, l’ufficio di Rosenberg, le amministrazioni provinciali e dei Länder, le commissioni culturali del partito nazista, l’asso - ciazione “Energia e gioia”, varie associazioni di docenti e studenti ecc. Insomma, una baraonda, tanto che a neppure un anno dall’ascesa al potere di Hitler un libraio si lamentò pubblicamente del divieto di vendita emesso per oltre mille titoli da 21 uffici diversi. Ci sarebbe voluta un’unica autorità, suggeriva quel libraio, ma un ufficio centrale di controllo sull’editoria non ci fu mai durante l’intero Terzo Reich. O meglio, solo nel 1941, dunque a guerra iniziata e in relazione alla difficoltà nel reperimento della carta, venne costituito l’Ufficio Economico del Commercio Librario Tedesco, che esercitò un più rigido controllo sulla concessione dei permessi e dunque sui divieti alla pubblicazione. In questo contesto s’inserisce il recente libro di Christian Adam, Leggere sotto Hitler (Verlag Galliani, pp. 304, euro 19,95), che si concentra in particolare su quali siano stati gli autori più amati dai tedeschi durante il Terzo Reich e quali i bestseller. Peccato che i giudizi espressi siano stilati spesso secondo categorie interpretative contemporanee, senza un particolare sforzo di comprensione del contesto storico. A proposito dei libri pubblicati in Germania tra il 1933 e il 1945, Adam ammette non esserci stata una direzione unitaria stabilita dal potere nazionalsocialista. L’autore dichiara di aver cercato di individuare una politica culturale nazista, ma inutilmente, e questo per uno Stato totalitario è sorprendente. Dalla sua analisi si apprende che il Mein Kampf di Hitler, uscito in due volumi tra il 1926 e il 1927, fino alla conclusionedella guerra vendette 12,5milioni di copie, restando costantemente in testa alle vendite (peccato non venga specificato se in quel numero sono comprese anche le numerose edizioni edite fuori di Germania), ma anche che la maggior parte dei bestseller che raggiunsero una tiratura di almeno 100.000 copie nulla avevano a che fare con qualcosa che si potesse definire “letteratu - ra nazionalsocialista”. Particolarmente amati, già allora, i romanzi di science fiction, su tutti Il paese d’acqua e di fuoco (250.000 copie tirate) di Hans Dominik, che fu autore di altri tre titoli analoghi capaci di superare le 100.000 copie. Sorprendente fu il successo di alcuni saggi aventi per oggetto temi legati allo sviluppo della tecnica, e tra questi Adam segnala in particolare Anilina di Karl Aloys Schenzinger pubblicato nel 1937 e capace di vendere in otto anni oltre 920.000 copie. Relativamente agli anni bellici, se è vero che dall’inizio della guerra i libri vennero usati come fermento per la mobilitazione ideologica (l’ordine era di spedirli al fronte, ma le statistiche dicono che solo i 5% dei soldati era interessato alla lettura della propaganda hitleriana), in realtà anche durante il drammatico epilogo del Reich il complesso mercato librario tedesco fu tutt’altro che solo un’agenzia di rifornimento di testi culturalmente ispirati al binomio “sangue e terra” (Blut und Boden). Quanto ai detentori del potere di allora, va ricordato come essi amassero scrivere e pubblicare i loro ricordi. Così Joseph Goebbels, con il suo diario, redatto tra il gennaio 1933 e il maggio 1934, raggiunse una tiratura di 660.000 copie. Altrettanto interessante è il capitolo dedicato alle letture che più interessavano i gerarchi: Hitler amava in particolare May, Schwab, Goethe, Dante, Schopenhauer e Nietzsche. Himmler invece, che aveva una formazione più marcatamente borghese, si lasciava prendere dalla lettura di Verne, Wedekind, Thomas Mann, Dumas, Zola, Gogol, Dostoevskij, ma anche di Ibsen e Wilde. Piuttosto superficiale appare il giudizio di Adam a proposito dei numerosi titoli che proponevano crude storie e memorie risalenti alla Prima guerra mondiale. Ecco alcuni titoli: Fuoco di sbarramento intorno alla Germania di Werner Beumelburg (363.000 copie), Il viandante tra i due mondi di Walter Flex (622.000), Verdun. Il grande tribunale di P.C. Ettighoffer (304.000 copie). Piuttosto che ammettere che quei libri erano molto lontani dal patriottismo del 1914 e piuttosto rappresentavano senza edulcorazioni la guerra nella sua efferatezza, Adam preferisce lamentare il fatto che quei libri non fossero «pacifisti». In definitiva, come ha scritto Harro Zimmermann per Die Welt, questo libro di Adam documenta in maniera esaustiva come, «per quanto sia stata catastrofica la rottura di civiltà provocata dai nazisti, essa non fu così profonda da poter espellere durevolmente la caparbietà dalla testa dei lettori e degli autori tedeschi ».

 Mario Bernardi Guardi: " Il tentativo di occultare l'Heidegger filo-hitleriano "


Martin Heidegger

Sembra si faccia ancora una certa fatica ad ammettere che buona parte dell’intelligentsia tedesca detestò la democratica Repubblica di Weimar e che, in nome della Kultur germanica, dei valori del sangue e della terra e dei miti della “rivoluzione conservatrice”, coltivò il terreno dove poi sarebbe germogliata la pianta nazista: e parliamo di Thomas Mann, Stefan George, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Ernst von Salomon, Gottfried Benn. Ci furono inoltre i nazisti a pieno titolo, in prima fila nel mondo della cultura e dell’accademia, come Richard Strauss, Herbert von Karajan, Arno Breker, Ernst Bertram, Alfred Bæumler, Carl Schmitt e Heidegger. Già, Martin Heidegger. Piaccia ono, non c’è nessuno, ci sembra, che abbia smantellato il ritratto che ne disegnò Victor Farias: e cioè quello di uno studioso che non divenne il filosofo ufficiale del regime non perché nazista tiepido ma piuttosto perché radicale, vicino a Ernst Röhm e alle SA, poi eliminate nella “notte dei lunghi coltelli”. E anche Alfredo Marini, curatore del Meridiano dedicato nel 2006 ad Essere e tempo, non può che confermare, con i chiaroscuri del caso, l’immagine nazi del filosofo di Messkirch. A metterla in discussione ci prova ora un libro come Che cos’è la verità?, comprendente i due corsi che Heidegger tenne all’Università di Friburgo durante il suo rettorato (1933-1934) pubblicato in traduzioneitaliana a cura di Carlo Götz (Christian Marinotti, pp. 332, euro 30). L’opera - che ha al centro il rapporto tra essere e verità -dovrebbe «documentare il lavoro filosofico che Heidegger dedicò all’in - tensa critica di ciò che allora - siamo agli inizi del criminale regime hitleriano - si stava generando ». Il tutto attraverso pagine come quelle che «il pensatore dedica al “mito della caverna”, ove il filosofo torna con l’intenzione di liberare i prigionieri, cioè gli uomini, dalla forza di attrazione delle ombre». Le quali, ci par di capire, dovrebbero essere assimilate alle camicie brune e a tutto il mistificante apparato ideologico-liturgico di Hitler. Insomma: queste pagine mostrerebbero «tutta la lontananza tra la posizione di fondo della filosofia di Heidegger e l’ideologia nazista». In realtà, dalla involuta, labirintica, criptica prosa heideggeriana qualcosa viene fuori. Ma non nel senso preteso dai “bonificatori”del filosofo. Leggiamo: «La gioventù accademica sa della nobiltà dell’istante geniturale che ora il popolo tedesco attraversa (…). Il popolo tedesco, nella sua integralità, giunge all’in - dole nativa, ossia trova la sua guida. Nell’elemento di questa guida, il popolo crea il suo Stato. Il popolo che si conforma nello Stato, e che in esso istituisce durata e stabilità, cresce fino a diventare nazione. La nazione assume il destino del suo popolo». Ora, possiamo benissimo sbagliarci, per carità, ma ci sembra che i termini della riflessione non siano diversi da quelli del Discorso del rettorato, pronunciato il 27 maggio 1933 e concluso con un sonante «Heil Hitler!», tra sventolii di bandiere crociuncinate e cori inneggianti al protomartire nazista Hosrt Wessel. Vediamoli: la gioventù universitaria come consapevole erede di una tradizione da rifondare, la nobiltà delle origini e dei fini, il popolocomecomunità, la guida (il Führer), lo Stato, la nazione, il destino tedesco. Questo è il lessico politico di un filosofo che non ebbe mai ripensamenti né pentimenti, e “denazificarlo”è davvero impresa impossibile.

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