Carlo Panella: " Guerra islamica e mistica indù "
In India, musulmani e induisti vivono in piena pace e concordia, nessuna divisione tra India e Pakistan, ma un’unica federazione, come sognava Gandhi; nessuna guerra interreligiosa nel 1948, con il suo milione di morti (e neanche la scissione del Bangladesh nel 1970 con i suoi 500 mila morti); nessuna delle tre guerre tra India e Pakistan e ovviamente, talebani mai nati in Afghanistan per farne il “retroterra strategico” della futura, immancabile nuova guerra tra Pakistan e India. Tutto questo sarebbe reale, vero, soltanto se a Samugarh e a Deorai, a metà del ’600 avesse vinto il principe moghul Dara Shikoh e non suo fratello Aurangzeb, realizzando così quella straordinaria Riforma dell’islam che buona parte della élite islamica indo-persiana e moghul condivideva. Uno dei tanti momenti di frattura della storia, il cui esito non era affatto scontato, che l’hanno incanalata, grazie al fato capriccioso, verso l’esito attuale. Come se a Waterloo avesse vinto Napoleone (e poteva vincere, se solo le truppe prussiane del feldmaresciallo Leberecht von Blücher, appena sconfitte dal Bonaparte, avessero tardato di un’ora a uscire dal pantano in cui erano finite), o se qualcuno non avesse spostato di 50 centimetri la borsa di Von Stauffenberg che conteneva la bomba che sicuramente avrebbe ucciso Hitler il 20 giugno 1944 (milioni di morti in meno, probabilmente nessuna Cortina di ferro e neanche Hiroshima e Nagasaki). Sliding doors. A molti indiani, e sicuramente a chiunque – pochi– ne abbia conoscenza in occidente, le battaglie di Samugarh, del 30 maggio 1658 e quella di Deorai dell’11 marzo 1659, non ricordano altro che un’ennesima guerra di successione tra principi fratelli del regno Moghul. Ma non è così. In realtà, in quei due giorni, la storia dell’India e anche quella dell’islam mondiale cambiarono radicalmente. In peggio; cambiò per caso, per opera del fato. Il principe Dara Shikoh – Dario il Magnifico, in farsi – era l’erede designato al trono Moghul dal padre, lo scià Jahan, sovrano illuminato (che fece costruire, tra l’altro, il Taj Mahal). Se Dara Shikoh avesse regnato, come tutto indicava, avrebbe applicato la sua straordinaria cultura dando profondità e spessore a quella pacificazione tra musulmani – regnanti – e induisti, iniziata da suo nonno, lo scià Akbar, e da suo padre. Se si legge la sua opera fondamentale dal titolo suggestivo “La congiunzione dei due Oceani” (edito in Italia da Adelphi), si comprende che nel subcontinente indiano si sono persi tre secoli consumati nell’odio interreligioso. Infatti, se Dara Shikoh avesse vinto e quindi se avesse regnato sull’India moghul, avrebbe governato realizzando riforme basate sulla sua profonda convinzione che islam e induismo, così come cristianesimo ed ebraismo, con simbologie differenti, con termini diversi, venerano in realtà un Dio unico. Usando la simbologia poetica del grande Oceano, che comprende tanti mari, Dara Shikoh – uomo di profonda cultura, mistico, mecenate delle arti e autore di molti testi – sosteneva che queste religioni sono solo facce della stessa Rivelazione, sì che Raama e Rahman altri non erano che il nome induista di Allah, Braahma e Visnu erano identificati come Abramo e Mosè, così come i Veda, la Torah, i Salmi, il Vangelo e il Corano erano considerati libri rivelati assolutamente consonanti e “sorgente di verità e oceano del monoteismo”. Così scriveva il principe moghul: “Questo asceta, privo di dolore e afflizione, Muhammad Dara Shikoh, dopo avere compreso la realtà delle realtà e verificato i misteri e le sottigliezze della religione vera dei Sufi, dotato di questo dono eccelso, si propose di conoscere la religione dei monoteisti indiani e dei realizzati di questa antica nazione. Intraprese allora ripetute conversazioni e colloqui con i perfetti tra questi che avevano raggiunto il grado più alto della disciplina, della percezione e della comprensione spirituali e il fine ultimo del sufismo e della ricerca di Dio; ed egli non trovò differenza alcuna, fuorché divergenze lessicali, nel loro modo di percepire e comprendere il Vero”. La tesi del sostanziale monoteismo degli induisti, peraltro, aveva nel mondo indiano e persiano eccellenti e noti sostenitori, tra cui Abu al Fazli, che interpretavano l’evidente venerazione induista degli idoli (nettamente contrastante con l’essenza stessa dell’islam e più volte condannata da Maometto), soltanto quale metodo, tecnica, per favorire la concentrazione e la meditazione sul divino; equiparavano il mantra vedico alla shahada islamica (Dio è il solo Dio e Maometto è il Profeta di Dio), così come equiparavano la città sacra agli induisti di Benares alla Mecca. Una costruzione teologica ardita, mediata dalla gnoseologia sufi, basata su una grande attrazione per il significato reale della narrazione mitologica, connotato che distingueva nettamente il mondo culturale islamico persiano e indiano da quello arabo che si rivolse, come è noto, con passione e studio alla scoperta del mondo ellenistico, senza mai però provare alcun interesse per la sua pur determinante componente mitologica. Le conseguenze politiche nel regno Moghul di questa concezione sincretica erano immense, allora, più che oggi: consolidamento della abolizione della Jiza, la “tassa di sottomissione” dei non musulmani già abolita dal nonno, lo scià Akbar, status identico alle moschee come ai templi induisti, fine di ogni discriminazione su base religiosa e infine, ma non per ultimo, piena apertura del Palazzo e della gestione del regno alle classi dirigenti induiste. Dara Shikoh, membro della confraternita sufi Qaadiryyia, era a tal punto convinto che i Veda fossero pienamente parte della Rivelazione divina e quindi totalmente compatibili con il Corano e l’islam, che ne ordinò la prima traduzione dal sanscrito in Farsi (il persiano, che sino a metà del Ventesimo secolo sarà, con l’Urdu, lingua ufficiale del Rajiv), che fu poi tradotta da Hyacinthe Anquetiluperron ed ebbe un enorme impatto sulla cultura europea, a partire da Schopenhauer, per arrivare a Mircea Eliade, base di tutti gli studi sull’induismo sino a oggi. Ma Dara Shikoh perse. Vittoria militare, casuale, in parte dovuta al tradimento – sliding doors – di Malik Jiwan, capo tribale dei Baluchi. E vinse Aurangzeb, suo fratello. Dara Shikoh fu fatto prigioniero, esposto in catene su un elefante sporco di fango per le vie di Delhi, e la notte del 30 agosto 1658 fu decapitato come apostata e responsabile di Fitna, in esecuzione di una fatwa emessa dai massimi ulema seguaci di Aurangzeb. Si chiuse così una battaglia politica, culturale e religiosa che da decenni, dal regno di scià Akbar, coinvolgeva tutto l’islam indiano (che si estendeva sull’area che oggi comprende Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e India non peninsulare, con forti risonanze anche in Iran) tra la componente riformista e tollerante a cui si era abbeverato Dara Shikoh e quella fondamentalista e salafita che fortemente sosteneva Aurangzeb. Questi, su istigazione dei seguaci del teologo Ahmad Shirindi, delle confraternite Mujaddidi e Naqshbandiya (del cui ramo turco sono oggi membri gli ex premier turchi Turgut Özal e Necmettin Erbakan, così come l’attuale premier Tayyip Erdogan) e forte dell’appoggio di buona parte del mondo degli ulema e dei mullah, intendeva ripristinare la durezza settaria dell’avo Babur. Questo re moghul discendente diretto di Gengis Khan, nel 1527, partendo dall’attuale Afghanistan, aveva concluso la conquista di tutta l’India continentale e parte di quella peninsulare, sconfiggendo il raja induista Chittodgad instaurando il regno Moghul in India. India, in cui l’islam aveva attecchito sin dal X-XI secolo (nel XIV secolo era stato instaurato il sultanato di Delhi), sia pure sempre in posizione marginale rispetto alla diffusione dell’induismo. Convinto che l’induismo fosse religione politeista, quindi apostatica, Babur impose la sharia, Jiza compresa per gli induisti, distrusse molti templi indù e nel 1528 proprio sulle macerie di uno dei più sacri templi, eretto su quello che veniva considerato il luogo natale di Raama, ad Ayodhya, costruì la celebre moschea Babri. Ferita tanto profonda e lacerante nel mondo induista che dopo quasi cinque secoli, nel 1992, questa moschea fu distrutta dagli estremisti induisti. Ne nacque un conflitto tra estremisti induisti e musulmani, su cui naturalmente si è innestata la galassia di al Qaida, che ha fatto sinora migliaia di morti in scontri diretti e molte centinaia in attentati. Non ultima motivazione degli stessi attentati di Mumbai del 26 novembre 2008 e del luglio 2011. Anche Aurangzeb distrusse decine di templi, perseguitò e sradicò le confraternite sufi, reintrodusse la Jiza, abbatté non poche statue del Budda (a lui si ispirarono i talebani distruggendo nel marzo 2001 le due statue del Budda di Bamiyan) e emanò una serie di disposizioni oscurantiste, incluso il divieto della musica e della danza, assolutamente organiche a quelle che caratterizzeranno il governo afghano dei talebani. Assonanza per nulla meccanica e casuale, perché se è vero che gli storici sono divisi circa il peso che ebbe la legislazione repressiva di Aurangzeb nell’eccitare la rivolta dei Marabutti e dei musulmani, che alla sua morte (1707) portò rapidamente alla decadenza del regno Moghul in India (aprendo le porte alla penetrazione inglese), è indubbio il consistente lascito del suo quarantennale – e feroce – regno all’estremismo islamico che oggi furoreggia in Pakistan, Afghanistan e India. Così come è indubbio che la Riforma islamica di cui Dara Shikoh fu il più potente esponente (anticipando di 150 anni le timide riforme – Tanzimat – del ben più sterile islam ottomano), non era un’utopia intellettuale, ma una componente ben radicata in India. Infatti, due secoli dopo la sua morte nella seconda metà del XIX, Sayyed Ahmed Khan – probabilmente affiliato alla confraternita Qaadiryyia – stimolato dal confronto con la potenza coloniale inglese ed espressione delle forti tensioni riformiste che attraversavano l’islam indiano, fondò il Muhammedan Anglo Oriental College, che poi divenne la Aligarh Muslim University, che formò nel nome della tolleranza (e dell’averroismo) quella élite musulmana che rifuggì dal fondamentalismo e che tuttora è parte dirigente dell’India democratica. All’opposto, testimonianza e prova inconfutabile del segno profondo nella storia indiana lasciato dal regno “talebano” ante litteram di Aurangzeb, è l’opera di Muhammad Iqbal, morto nel 1938, teologo fondamentalista e politico che ebbe un ruolo unico e centrale nella organizzazione e nella elaborazione della basi dottrinali che portarono nel 1948 alla separazione dei musulmani e degli induisti del Rajiv indiano, con la fondazione artificiosa del Pakistan. Iqbal, nel suo testo “The Emperor Alamgir and the Tiger” (L’impero Alamgir e la tigre), condanna apertamente e duramente tutta l’opera di Dara Shikoh accusato di avere piantato in India il seme dell’eresia ed esalta l’opera restauratrice del vero islam di Aurangzeb: “Ultima freccia nella nostra faretra, nella guerra tra Fede e miscredenza”. Muhammad Iqbal è stato il principale ispiratore dell’azione di Abu Ala al Maududi, il “Khomeini sunnita” che a sua volta promosse e diresse con il suo partito Jamaat e Islami la riforma fondamentalista del Pakistan operata negli anni Ottanta dal dittatore Zia Ul Aqh (legge sulla blasfemia inclusa). Non solo, a Muhammad Iqbal si rifanno tutti i gruppi estremisti e terroristi che operano oggi in Af-Pak (Afghanistan e Pakistan), con la copertura di quei vertici militari pachistani, annidati soprattutto nell’Isi (i servizi segreti di Islamabad) che in Iqbal venerano ancora oggi una sorta di “padre della patria” ante litteram (Lashkar e Taiba, mujaheddin indiani e talebani del Pakistan). Non di teologia dunque si parla, guardando alla figura sfortunata e alle opere di Dara Shikoh, non di elucubrazioni teoriche e mistiche, ma di un tornante decisivo nella storia politica dell’islam. Guardare alla avventura religiosa e politica di Dara Shikoh è indispensabile per recuperare quanto meno il senso dello spessore plurisecolare, le intersezioni tra nazionalismo e guerre di religione, il dibattito interno al mondo musulmano, che occupano le cronache di oggi, da Kabul a Mumbai, passando per Peshawar, Islamabad e Karachi. Ma a questo, purtroppo, non si guarda. Come se l’estremismo e il terrorismo islamico fossero una escrescenza impura postcoloniale e non il portato di una storia plurisecolare. Come se la vicenda del fondamentalismo islamico fosse solo il prodotto del contesto ottomano e arabo e non anche della storia complessa dell’islam in Persia e India, negli ultimi quattro secoli ben più fertili sul piano culturale. Per questo, anche per questo, l’occidente è in affanno in quell’Afghanistan da cui il re moghul Barbur, per rinverdire le imprese dell’avo Gengis Khan, partì, cinque secoli fa, alla conquista dell’India.
(al.muc): " Perchè in Siria Assad non ha tutti i torti quandfo lancia l'allarme al Qaida "
Roma. Lunedì trenta persone sono morte negli scontri di Homs, in Siria. Questa volta non è l’esercito ad aver sparato contro i manifestanti: sunniti e alawiti si sono uccisi tra di loro. E’ un segnale che la rivolta siriana si sta muovendo in direzione del conflitto settario. I resoconti dicono che le violenze sono state provocate da una folla di alawiti (la minoranza degli Assad), armata di bastoni, che ha circondato una moschea sunnita appena prima della preghiera del venerdì intonando slogan anti sunniti. La risposta dei sunniti, che a Homs, come nel resto della Siria, sono la minoranza più numerosa del paese, è stata immediata: sabato tre alawiti sono stati rapiti e domenica i loro corpi, crivellati di proiettili, sono stati ritrovati in un vicolo. Gli alawiti hanno replicato bruciando negozi sunniti, scatenando così gli scontri e i conseguenti trenta morti. Non si può negare, ovviamente, che le proteste nascono soprattutto dal desiderio dei siriani di avere più libertà politica e meno povertà. Ma il fondatore di Conflicts Forum, Alastair Crooke, su Asia Times evidenzia con decisione “la crescente possibilità del conflitto settario”. Lo scontro è ormai diventato “violento e polarizzato”, scrive Crooke, e la narrativa semplificata, che vede un dittatore malvagio opposto a un popolo oppresso, non basta più a spiegare la situazione siriana. Quando i carri armati di Damasco occuparono Daraa all’inizio delle rivolte, Assad denunciò “il pericolo estremista” e i media all’esterno furono rapidi a vendere le dichiarazioni del regime come semplici pretesti per schiacciare le aspirazioni popolari, ma non bisogna dimenticare che fino a due anni fa i servizi segreti occidentali consideravano la Siria un covo di simpatizzanti e di volontari del terrorismo. Secondo le autorità siriane e i blog degli attivisti, Hama è ora di nuovo sotto il comando del governo, che ieri ha però perso il controllo di Bu Kamal, al confine con l’Iraq, e di Qatana, città a sud di Damasco vicino al Libano, dove sono scoppiate nuove violenze settarie tra sunniti e alawiti. In Siria, i sunniti non sono un’entità monolitica, bisogna quindi considerare soltanto la parte più estremista dei sunniti come responsabile della crescente polarizzazione – la borghesia sunnita urbana rimane fedele ad Assad.Per Crooke i motivi dell’accanimento del conflitto sono da ricercare soprattutto nel vicino Iraq per due motivi. Primo: perché gli estremisti “fanno riferimento al pensiero del jihadismo di Abu Musab al Zarqawi (il leader di al Qaida in Iraq), nato in Iraq, emerso poi con violenza in Libano e da qui giunto in Siria dopo il rientro, alla fine della guerra irachena, di numerosi veterani siriani con forti simpatie salafite”. Secondo: “Il profondo risentimento seguito alla perdita di potere da parte dei sunniti dopo che in Iraq il primo ministro sciita, Nuri al Maliki, ha preso in mano il paese”. Poco prima di morire nel 2006, sotto i bombardamenti americani Zarqawi concluse che uno dei principali obiettivi del jihad, prima di sostenere una guerra contro l’occidente e Israele, doveva essere la distruzione degli sciiti – di cui gli alawiti fanno parte. Questi ideali di revanscismo sunnita hanno ancora una profonda influenza all’interno di alcune comunità sunnite siriane: durante le guerre in Afghanistan e in Iraq si calcola che tra i 40 mila e i 50 mila siriani abbiano imbracciato le armi e varcato il confine per combattere gli invasori occidentali. Tornati in Siria, molti si sono sistemati nei villaggi rurali al confine con Turchia, Giordania e Iraq. La maggior parte si è sposato con donne locali e rappresenta adesso, assieme alle famiglie, una base sociale ampia, in grado di sfidare apertamente gli alawiti: “Il loro obiettivo in Siria è simile a quello che avevano in Iraq – continua Crooke – preparare il terreno per la guerra santa esacerbando i conflitti settari come ha fatto Zarqawi con i suoi attacchi contro gli sciiti e i loro luoghi sacri. Alla stessa maniera, i jihadisti siriani cercano un punto d’appoggio nel nordest del paese per instaurare un emirato islamico”. E’ indubbio che Assad utilizzi “la minaccia salafita” per convincere l’occidente, ancora indeciso sul futuro della Siria, di essere la scelta più sicura per la stabilità regionale, ma le denunce non sono al cento per cento soltanto mera retorica. Anzi, è possibile, come scrive Nibras Kazimi su Newsweek, che “invocando il pericolo jihadista, per nascondere la repressione, Assad rischia di far tornare i jihadisti”, richiamati dall’odio contro gli sciiti che uccidono “i fratelli sunniti”
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