La ' Palestina' non è fatta, ma non sono fatti neanche i 'palestinesi' 19/07/2011
La "Palestina" non è fatta, ma non sono fatti neanche i "palestinesi". Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Hamas-Fatah, cercare le differenze
Cari amici vi ricordate quella frase "Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani"? E' attribuita in genera al Massimo d'Azeglio, ma forse non è davvero sua. Lui avrebbe detto "Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani". Il motto non apparterrebbe a d'Azeglio, ma sarebbe stato coniato nel 1886 da Ferdinando Martini «nel tentativo di "tradurre" il senso politico» (http://it.wikiquote.org/wiki/Massimo_d%27Azeglio). Fatto sta che il senso è che le costruzioni politiche non funzionano se non sono radicate nella popolazione. D'Azeglio era giustamente preoccupato dell'unità di un paese da sempre diviso da faide e particolarismi, ma c'è un altro senso possibile di questa perplessità: perché uno stato moderno funzioni, c'è bisogno dell'accettazione dell'impersonalità delle leggi, di un potere impersonale e non legato alla pura forza del dominio di qualcuno su un certo territorio. E' il problema che conosciamo bene con la mafia e le altre forme di criminalità organizzata.
Perché vi parlo di queste cose? Ma perché anche i "palestinesi" vogliono fare uno stato. Anch'essi hanno divisioni feroci, fra Gaza e Cisgiordania, abitanti interni ed esterni ai confini del vecchio mandato britannico, laici e islamisti, e anche per le diverse provenienze (non si dice, ma buona parte delle loro famiglie è immigrato da altri paesi arabi durante il secolo scorso e la provenienza conta moltissimo in una società tribale come quella araba). Sembrerebbe che ora siano abbastanza uniti nel chiedere uno stato loro, ma non lo sono affatto nel decidere come dev'essere. Per esempio la "riunificazione" fra Fatah e Hamas, tanto strombazzata due mesi fa, è sostanzialmente arenata, fra l'altro sul nome del capo del governo. Muhammed Abbas, presidente dell'autorità palestinese, vorrebbe che fosse l'attuale primo ministro Salam Fayyad, ma Hamas non lo vuole apertamente e neppure Fatah lo vede bene. Sapete perché? Lo spiega bene un giornalista palestinese che lavora dalla Cisgiordania per i media occidentali, provando a fare almeno qualche volta, guardate un po', il giornalista e non il propagandista, Khaled Abu Toameh (http://en.wikipedia.org/wiki/Khaled_Abu_Toameh). Il fatto è che nel mondo palestinese, per essere un capo credibile, non bisogna essersi laureati in una buona università americana (quella di Fayyad è solo discreta e non certo ottima, St.Edwards e poi Texas U. di Austin, ma non importa, rispetto all'istruzione araba siamo nella stratosfera). Per fare il dirigente palestinese bisogna essere "laureati nelle carceri israeliane", spiega Toameh, o almeno poter vantare la propria partecipazione al terrorismo, e Fayyad non può, è un economista e non un tagliagole (http://www.hudson-ny.org/2271/palestinians-fayyad : leggete questo articolo, è molto interessante). Sarà forse per questo che Fayyad è scettico sulla scommessa della statualità palestinese (http://www.google.com/hostednews/ap/article/ALeqM5gpoND4KJwDHPzGZ55r9zoXHsgWPw) .
E non ha torto, perché a parte il mettere d'accordo quella confusa galassia unita solo dall'odio per Israele per fare "i palestinesi", ci sarebbe anche da creare i requisiti minimi della cittadinanza, il che non è assolutamente ancora realizzato. Sul Guardian, che è un giornale di sinistra debitamente antisraeliano, ma qualche volta si ricorda delle vecchie buone regole del giornalismo anglosassone e dunque traspaiono anche dei fatti, è uscita l'altro giorno un'inchiesta di Harriet Sherwood, in cui si raccontano gli ostacoli alla costruzione dello stato palestinese: non solo la crescente freddezza internazionale (a parte i soliti stati arabi, comunisti, del Terzo Mondo e quelli che aspirano a diventarlo come la Spagna di Zapatero e la Norvegia), ma anche l'insieme di sperperi, vandalismi, clientelismi, tribalismi, incapacità di stare alle regole che la società "palestinese" condivide con buona parte del mondo arabo, come si vede bene oggi con le rivolte in corso, che non riescono a trovare un quadro politico e restano magmatica e confusa turbolenza. Sarà una piccola cosa che nessuno paghi il parcheggio a Ramallah con i parchimetri nuovi di zecca fatti istallare dal governo Fayyad, o che non vi sia una moneta palestinese funzionante, che manchi un aeroporto (ma vi sia solo l' "artistico" progetto del biglietto di ingresso), come racconta Sherwood (http://www.guardian.co.uk/world/2011/jul/16/palestine-authoirty-state-ramallah-un). Il fatto è che a dispetto di finanziamenti stratosferici della comunità internazionale, di frotte di consulenti altrettanto internazionali, la scommessa di uno stato palestinese è in questo momento molto probabilmente destinata a collassare per mancanza di strutture, per divisioni, e soprattutto per l'incapacità della popolazione di porsi come cittadini. La "Palestina" non è fatta, ma non sono fatti neanche i "palestinesi".