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Il Foglio Rassegna Stampa
15.07.2011 Guerra al terrorismo, Obama segue la via di Bush
Analisi di Mattia Ferraresi

Testata: Il Foglio
Data: 15 luglio 2011
Pagina: 5
Autore: Mattia Ferraresi
Titolo: «Quella sporca guerra pulita»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/07/2011, a pag. I, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo "Quella sporca guerra pulita".


Mattia Ferraresi, Barack Obama

Le guerre di Obama sono igieniche e a buon mercato. I bombardamenti con i droni della Cia comandati dalle basi del Nevada hanno altissime percentuali di successo e pochi effetti collaterali: i Predator volano al di sotto della portata dei radar senza mettere a rischio la vita dei soldati americani, arrivano sul luogo prescelto, abbattono ciò che devono abbattere e tornano da dove sono venuti come fedeli cani da riporto. E’ la realizzazione aerea di quello che Alfred Döblin rappresentava in una futuribile battaglia di mare in cui gli ingegneri bellici avevano inventato un’arma micidiale e pulitissima. Le navi erano in grado di scomporre un’enorme quantità di acqua in idrogeno e ossigeno in tempo reale, in modo da creare una bolla d’aria proprio al di sotto dell’imbarcazione nemica. In un attimo la chiglia finiva giù per la scarpata d’aria e un istante dopo veniva avvolta dalla potenza dei flutti.
Niente scontri a fuoco, niente arrembaggi, niente perdite, niente tracce. Per trovare una strategia di guerra più efficace bisogna tornare alla sconfitta della cavalleria egiziana attraverso il Mar Rosso, ma nemmeno l’impero americano ha un commander in chief tanto potente. Il meccanismo dei droni funzionava nei territori occupati “boots on the ground” di Afghanistan e Iraq; quando il generale David Petraeus, teorico della presenza militare sul territorio, ha preso il comando delle truppe in Iraq nel 2007 ha quadruplicato gli attacchi aerei per colpire i piani alti della piramide terroristica. Lo stesso ha fatto quando Obama lo ha nominato successore del generale Stanley McChrystal a capo delle forze della coalizione in Afghanistan. Nel solo mese di novembre del 2010 ha ordinato 850 raid aerei.
Mentre però si procedeva alla sterilizzazione dall’alto, in basso le truppe si aggiravano nei villaggi per conquistare cuori e menti della popolazione; si trattava di carpire informazioni per poi colpire nottetempo i compound infestati, ma anche di dissuadere la gente dalle tentazioni del reclutamento jihadista e faticosamente trasformare la percezione popolare della potenza ostile che occupa un paese straniero senza fare troppe distinzioni. La doppia velocità nei teatri di guerra rispondeva alla natura gelatinosa di un nemico che non ha divisa, si confonde (e a volte s’identifica) fra la popolazione, rigenera la sua leadership orizzontale con grande facilità, si tira strategicamente indietro quando è attaccata con una potenza di fuoco superiore. Soltanto per ricomparire rafforzata altrove.
Per combattere un nemico strisciante bisogna sapere in quale direzione si muove, con quale logica, secondo quale catena di contatti; prima di polverizzare un capo con un raid occorre essere in grado di prevedere chi sarà il successore e magari avere già qualche indizio sul compound in cui si nasconde. La guerra igienica di Obama prevede una fiducia incondizionata nel potere disinfestante dei droni, che infatti il presidente ha fatto volare con un ritmo estenuante soprattutto al di fuori dei teatri di guerra ufficiali. L’alleanza con il Pakistan si è trasformata in una tragica telenovela proprio per il ronzio continuo degli aerei senza pilota che arrivavano dalle basi afghane per colpire i “safe havens” dei talebani sul confine, e l’operazione Geronimo, regina delle incursioni segrete in territorio alleato, è stato in fondo soltanto l’affronto che ha colmato la misura. Nel 2010 Obama ha ordinato 117 operazioni in Pakistan, nelle quali sono stati uccisi 801 talebani di vari livelli. Dall’inizio di quest’anno ci sono stati quarantacinque attacchi, con 285 miliziani caduti sotto le bombe dell’Amministrazione e questa settimana Washington ha ordinato tre attacchi in contemporanea: 45 morti.
La pulizia della guerra dall’alto, la preferita dai liberal, è soprattutto un fatto legale. Sotto il cappello sicuro della Cia la Casa Bianca può armare aerei senza dover chiedere l’autorizzazione del Congresso e senza dover ammetterne nemmeno l’esistenza. Sono operazioni clandestine, che si distinguono da quelle segrete perché queste ultime la Casa Bianca nega di averle fatte, mentre di fronte a una domanda pubblica su un attacco con i droni il presidente può rispondi Mattia Ferraresi dere con un’altra domanda: “Che cos’è un drone?”. Il documento strategico del controterrorismo usa l’espressione “unique asset”, le risorse uniche, espressione vuota che nasconde la guerra nota e inammissibile che l’Amministrazione ha esteso a Libia, Yemen e Somalia. Per colpire nei paesi divisi dal sottile braccio di mare del Golfo di Aden i droni partono direttamente dalle basi di Burundi e Uganda, dove gli americani hanno piazzato quattro Predator per coprire il quadrante strategico più caldo del momento.
L’ammiraglio William McRaven, mente operativa dell’incursione che ha ucciso Osama bin Laden ad Abbottabad e nuovo capo delle forze speciali dell’esercito, conferma che gli occhi degli americani “stanno guardando molto attentamente in Somalia”, stato perso in un’anarchia settaria in cui il jihad si sovrappone alla generica lotta per la sopraffazione. Inevitabilmente i droni hanno finito per colpire anche lì. Il 23 giugno gli aerei senza pilota hanno fatto un raid alla periferia di Chisimaio, roccaforte di Shabab, e diverse fonti in Somalia dicono che qualche ora più tardi gli elicotteri americani sono arrivati sopra la città. Gli uomini delle forze speciali sono scesi a terra, hanno caricato alcuni corpi (forse anche altro?) e sono scomparsi. Ma radere al suolo le case dei cattivi non aiuta a decifrare i flussi migratori del terrorismo e nemmeno il più radicale dei presidenti democratici può permettersi di rinunciare alla raccolta di dati sul campo in nome dell’intelligenza delle bombe.
E quindi che fa? Nel piano lucido della guerra dall’alto scava una botola che conduce allo scantinato delle prigioni segrete della Cia, dove succede quello che succedeva durante gli anni di Bush ma con un livello di segretezza più alto. Il ritiro delle truppe e i bombardamenti belli funzionano come una specie di nulla osta per fare cose necessarie e necessariamente sporche dove occhio non vede e associazione per i diritti civili non duole. Così almeno succede di solito. Una lunga inchiesta del mensile The Nation offre i dettagli della presenza americana nel teatro dell’incubo di “Black Hawk Down”: la Cia gestisce una dozzina di palazzi chiusi in un recinto con torrette d’osservazione proprio a ridosso dell’aeroporto di Mogadiscio (posizione doppiamente strategica: la pista d’atterraggio è praticamente sul mare) e lì con la collaborazione dei malconci servizi segreti somali interroga sospettati che arrivano soprattutto dal Kenya su aerei civili di proprietà dei servizi segreti di Langley. Sono extraordinary rendition e anche al democratico Clinton quel loro fare discreto garbava parecchio. Il piano delle forze americane in Afghanistan prevede di cedere il controllo della prigione di Parwan (che a sua volta aveva sostituito quella di Bagram, nel piano interrato della superbase americana) all’esercito locale entro la fine dell’anno, ma è ingenuo credere che Washington rinunci d’emblée al privilegio di rinchiudere, interrogare e scucire informazioni utili alla sicurezza nazionale.
Da tempo le voci parlano di un carcere segretissimo gestito dalle forze speciali per ospitare i terroristi di alto livello; per gli altri l’Amministrazione ha affidato a un costruttore afghano il progetto di quattro edifici di massima sicurezza, che sorgeranno in una località imprecisata entro novembre. Una volta costruito quello, il governo bandirà una gara d’appalto per costruire altri sette palazzi a completamento della fortezza: il contratto è da 46 milioni di dollari. C’è anche un progetto per un secondo centro per la detenzione, con abitazioni, torri di guardia, uffici amministrativi, strutture sanitarie, generatori di energia, depuratori d’acqua e tutto ciò che possa garantire l’indipendenza americana della struttura. Costo: da 25 a 100 milioni di dollari, non proprio la cifra che si spende per una prigione provvisoria funzionale alla transizione del comando. L’esigenza di mantenere il controllo sui detenuti, a dispetto di qualunque proposito obamiano di legalità, è il lato sporco della guerra pulita. Nello Yemen le bombe teleguidate hanno cercato invano di colpire un cittadino americano, Anwar al Awlaki, l’imam che ha scalato la gerarchia della divisione di al Qaida nella penisola araba e ora ammicca agli Shabab somali per una partnership del terrore lontana dall’insidioso confine fra Afghanistan e Pakistan. I droni funzionano bene e piacciono anche alle colombe della Casa Bianca, ma l’esagerazione del loro ruolo nella guerra al terrore impone di marciare a due velocità. E’ un fatto che ha innanzitutto a che fare con l’efficienza bellica. Bombardare un compound pieno di terroristi che tramano contro l’occidente ha il vantaggio di risolvere istantaneamente il grattacapo della custodia dei prigionieri e lo svantaggio di eliminare preziose fonti d’informazione. Durante le interrogazioni del Senato per la conferma al nuovo incarico di capo della Cia, Petraeus non si è dimostrato un entusiasta della campagna aerea e ha sottolineato piuttosto i vantaggi delle operazioni che prevedono almeno in teoria la possibilità di cattura: “Puoi interrogare i terroristi, acquisire conoscenze su di loro e sulle organizzazioni di cui fanno parte, puoi capire la gerarchia e disporre le informazioni in un ordine razionale”, ha spiegato senza negare che “l’attività cinetica è un’opzione” e che “gli aerei senza pilota hanno una precisione impressionante”. Nell’osservare la lotta al terrore da una prospettiva più alta viene il sospetto che quella dei droni non sia la migliore delle guerre possibili. Sempre davanti a una commissione del Senato, McRaven ha spiegato che l’Amministrazione non ha idea di come gestire i prigionieri catturati nelle operazioni delle forze speciali: “E’ una questione molto complicata, perché non ci sono due casi uguali fra loro”, ha detto prima di entrare nei dettagli: un nemico catturato viene trasferito su una nave americana (la portaerei Boxer è la destinazione classica) e interrogato sotto la giurisdizione militare. A quel punto il Pentagono lavora assieme al dipartimento della Giustizia per trovare una sistemazione al prigioniero. Se nessuna delle soluzioni proposte è praticabile, viene rilasciato.
Il problema è che sono proprio le politiche dell’Amministrazione ad avere eliminato qualunque soluzione praticabile alla luce del sole tranne quella di un regolare processo sotto una corte federale degli Stati Uniti. Si tratta di una scelta politicamente e legalmente estrema; per accedere alla procedura civile ci sono decine di condizioni che la maggior parte dei prigionieri non può soddisfare. Ahmed Abdulkadir Warsame non è che un’eccezione. La versione ufficiale della Casa Bianca dice che le forze americane hanno catturato il terrorista di Shabab assieme a un suo collega in aprile nelle acque internazionali del Golfo di Aden, al riparo dalle controversie legali; li hanno tenuti per due mesi su una nave, li hanno interrogati e dopo aver carpito informazioni utili (probabilmente collegate al raid di giugno) uno è stato liberato e all’altro hanno letto i diritti. Warsame ha rifiutato l’avvocato d’ufficio e nonostante la facoltà di non rispondere ha continuato a collaborare. Era ufficialmente pronto per realizzare il sogno di Obama di un processo ai terroristi a New York, a due passi da dove un tempo svettavano le torri del World Trade Center. Una fonte del Foglio in Somalia contesta la ricostruzione degli ufficiali di Obama e dice che più probabilmente Warsame è stato catturato sul suolo formalmente non ostile del paese, scelta illegale che altrove, ad esempio in Pakistan, ha logorato le già instabili relazioni con Washington. Rimane il fatto che per la prima volta dall’11 settembre 2001 un cittadino straniero catturato al di fuori del suolo americano viene condotto davanti a una corte civile. Peccato, si crucciano gli uomini di Obama, che non sia Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’attacco; peccato che il dipartimento di Giustizia abbia detto che nel carcere speciale di Guantanamo ci sono 48 prigionieri che è impossibile spostare altrove; peccato che il presidente abbia intensificato i processi militari inventati da Bush e Cheney; peccato che il trasferimento dei detenuti da Cuba a paesi terzi sia stato praticato molto più da Bush che da Obama; ed è un peccato, infine, che lo stesso procuratore generale, Eric Holder, abbia autorizzato le indagini soltanto per due dei 101 soldati americani accusati di aver abusato di prigionieri in Iraq e Afghanistan. Obama ha provato a ribaltare il paradigma legale della detenzione e degli interrogatori legati alla lotta al terrorismo e quando ha capito che l’impresa era troppo ardua anche per la sua fama di leader creativo ha chiesto ai servizi segreti di plasmare una strategia che per lo meno arginasse ciò che non poteva essere rimosso. Se non si poteva togliere il dente, certamente si poteva trovare un modo per addormentare il nervo. La risposta è una vecchia strategia molto in voga fra i presidenti democratici tipo Kennedy, amanti delle azioni chirurgiche che raggiungono lo scopo senza scandalizzare le coscienze. La tecnologia rende questa tattica ancora più pulita rispetto al passato e così Obama ha ingaggiato una guerra globale al terrore e le ha dato un nome al di sopra di ogni sospetto: controterrorismo. Analisti militari universalmente rispettati come Tom Ricks ammettono che la guerra dei droni assomiglia più che altro a un sistema di operazioni di polizia su scala globale. Di certo il controterrorismo è l’alternativa filosofica alla dottrina del generale Petraeus, la counterinsurgency, cioè un metodo uguale e opposto all’insurgency del nemico obliquo che si confonde fra la popolazione. Nulla è più popolare di un’arma che uccide i cattivi, limita al massimo le vittime civili ed evita l’occupazione permanente di un paese in cui, dice il buonsenso, non saranno certo tutti fanatici terroristi. Però l’insistenza sul metodo controterroristico ha generato un enorme circolo vizioso nella politica legale di Obama. Il presidente ha ripetuto fino allo sfinimento che lo scopo dello sforzo americano è “distruggere, smantellare e sconfiggere” al Qaida, ma proprio per la natura liquida dell’organizzazione, capace di rigenerarsi, dividersi per gemmazione, infiltrarsi nelle gerarchie degli stati alleati e, come trascinata da un’osmosi terroristica, saldarsi con altre entità periferiche, raggiungere lo scopo richiede una grande quantità di informazioni. Le informazioni derivano soprattutto dagli interrogatori (Guantanamo è stata una miniera), ma interrogare i detenuti sotto le leggi militari è una chiara violazione dei principi di Obama, che aveva giurato alla nazione che avrebbe smesso con le forzature della guerra al terrore. Basta con gli interrogatori duri e le prigioni fuori dalla Convenzione di Ginevra, aveva detto. Per non trovarsi con prigionieri che non saprebbe dove mettere, il presidente con una mano bombarda in modo molto elegante e con l’altra installa prigioni segrete e indicibili. I missili che vengono scaricati nella notte hanno percentuali di successo molto alte, ma la mattina dopo gli ufficiali dell’intelligence si trovano con un mucchio di macerie che non parlano e un capo di stato alleato fuori di sé dalla rabbia. Se persino Hamid Karzai, il presidente di un paese che è teatro di guerra, è molto scocciato dai raid, figurarsi il Pakistan, dove l’escalation degli screzi reciproci ha rinfocolato sentimenti antiamericani a tutti i livelli. Non che prima il popolo si mettesse la mano sul cuore vedendo issare la bandiera a stelle e strisce, s’intende. La strategia che Obama ha vergato mentre il vicepresidente Joe Biden annuiva e mentre Petraeus e Gates deglutivano è efficace nell’immediato ma rischia di far perdere all’Amministrazione la “big picture” della guerra lunga. Il documento che definisce la strategia nazionale per il controterrorismo, pubblicato dalla Casa Bianca alla fine di giugno, è esemplare: il focus è quasi eclusivamente sulla minaccia di al Qaida, mentre altre organizzazioni tipo Hezbollah, Hamas e Lashkar-e-Taiba vengono soltanto nominate di passaggio; Somalia e Yemen vengono citate come la culla di un’alleanza relativamente nuova e molto attiva nel consolidare la filiale qaidista nella penisola araba; nessun riferimento al ruolo di copertura del Pakistan nei confronti di gruppi che con al Qaida trafficano nei modi che si convengono alle organizzazioni orizzontali e stratificate. Nella guerra al terrorismo Obama cerca di tracciare confini e di trovare soluzioni “cinetiche” e circostanziate a minacce anfibie che strisciano alla ricerca di ambienti umidi dove deporre le uova. Per la stessa logica, gli “unique asset” del presidente sono armi efficaci se dirette a obiettivi proporzionati, non trattate come una panacea semplicemente perché comportano effetti collaterali minimi sulla reputazione legalista del presidente. Esaltando il ruolo del controterrismo l’Amministrazione infonde l’impressione di essere aggressiva quanto serve con i cattivi e, se non proprio in grado di chiudere Guantanamo, almeno abbastanza retta da farlo sembrare come un vecchio rudere in via di dismissione, un ricordo di un tempo che è scomparso assieme alle torture, agli abusi, alle rendition illegali e a tutto il resto. Nonostante il colpo d’occhio dica che la guerra dall’alto è l’igiene del mondo, rimane il dubbio che la polvere sia stata infilata sotto i tappeti della Casa Bianca.

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