Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/07/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Troppo legato a Damasco, lo sceicco di Hezbollah è in affanno".
Nasrallah con Bashar al Assad
Roma. Hassan Nasrallah è in un momento difficile. Il leader del movimento islamico libanese ha per la prima volta fatto male i calcoli: il Partito di Dio si trova a dover gestire una situazione scomoda, perché Nasrallah ha deciso di rimanere fedele all’alleato siriano fino in fondo, mettendo a repentaglio la sua immagine di eroe della resistenza araba e correndo il rischio di scontentare la base politica della sua legittimità. Il problema, spiega Nadim Shehadi, analista del think tank britannico Chatham House, è che “Nasrallah non è un politico eletto come gli altri: certamente i suoi parlamentari devono rendere conto alle urne, ma oltre a fare promesse elettorali, devono fare i conti con la narrativa di resistenza che costituisce il loro manifesto politico”. Nasrallah, per primo, ha creato per sé l’immagine dell’eroe della lotta agli imperialismi, del leader duro e puro incapace di scendere a compromessi e sempre pronto a difendere la causa delle fasce più deboli (la minoranza sciita è la frangia più povera della società libanese). Il Partito di Dio è nato come movimento sociale dal basso, radicatosi sul territorio tramite l’assistenzialismo e la retorica, che si è trovato, dopo il ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano nel 2000 e la successiva guerra con Israele nel 2006, al posto di onore nel firmamento dei movimenti arabi: tra il 2000 e il 2008 i poster e le bandiere con lo stemma di Hezbollah erano venduti a turisti e locali in tutte le capitali arabe, da Ramallah a Damasco fin nel lontano Marocco. Ora in Siria i manifestanti bruciano regolarmente le bandiere di Hezbollah e nel resto della regione il leader ha perso quell’aura di eroe di cui godeva tra la popolazione. La semi caduta di Nasrallah “non è stata causata da un evento singolo – spiega Shehadi – il leader dirige ancora il Partito di Dio, da un bunker nascosto da qualche parte nel Libano del sud, e il 13 giugno partiscorso è riuscito a imporre a Beirut un governo di coalizione guidato da Hezbollah, ma ciò che si nota è un allontanamento della base politica di Hezbollah dalla sua leadership, la cui legittimità è quanto mai incerta”. Intanto a Beirut traspaiono i primi segni di nervosismo da parte della leadership del Partito di Dio, racconta in un’intervista al Foglio Hanin Ghaddar, editrice del quotidiano liberal libanese Now: “Da quando in Siria sono scoppiate le manifestazioni contro il regime di Assad, in Libano diversi gruppi di attivisti hanno tentato di inscenare dimostrazioni in sostegno ai rivoltosi siriani, ma ogni tentativo è stato stroncato sul nascere dalle risposte, spesso violente, di gruppi impuniti di sostenitori di Nasrallah, che hanno picchiato gli organizzatori, spesso lasciandoli in fin di vita”. Oltre alle bande di teppisti islamisti, per le strade di Beirut sono tornate le camicie nere, la divisa non ufficiale dei sostenitori di Hezbollah, con l’intento di intimorire e sedare ogni manifestazione di scontento e solidarietà con la protesta siriana. Non è la prima volta che Hezbollah usa questa tattica, già nel 2010 come prova di forza (anche se disarmata) ha bloccato la città per impaurire la popolazione. “In meno di una settimana tutto cambiò”, continua Shehadi. Hezbollah, volendo giocare d’anticipo sul Tribunale speciale per il Libano (Tsl) che avrebbe indicato membri dell’organizzazione tra i responsabili dell’assassinio dell’ex primo ministro libanese, Rafiq Hariri, fece cadere il governo il 12 gennaio scorso. Una settimana dopo è cominciata la primavera araba che ha cambiato radicalmente gli equilibri politici regionali. “Per Nasrallah è stato un cambiamento brusco – evidenzia Shehadi – che ha colpito Hezbollah nel momento di massima influenza politica del suo alleato siriano: gli Stati Uniti avevano appena riaperto un’ambasciata a Damasco, gli europei arrivavano a Damasco a frotte e anche l’Arabia Saudita era intenzionata a saldare i rapporti con gli Assad, condizioni che Nasrallah ha giudicato sufficienti per togliere di mezzo il governo Hariri”. La situazione è ora opposta. La Siria vacilla sotto le proteste dei manifestanti e nel tentativo di prendere tempo Hezbollah ha lasciato il Libano senza governo per quasi sei mesi. Il contesto politico è però soltanto peggiorato e nelle ultime settimane si è molto speculato sulla possibilità di un attacco di Hezbollah contro Israele per allentare le pressioni su Assad.
Il bluff di Nasrallah
Per Ghaddar, “le condizioni politiche in Libano non permettono che Nasrallah cominci una guerra per quattro motivi”. Primo: la comunità sciita del sud del Libano, della valle del Bekaa e dei quartieri sud di Beirut sta ancora pagando le ripercussioni del conflitto del 2006. Molti palazzi, distrutti dai bombardamenti, non sono ancora stati ricostruiti e numerose famiglie aspettano ancora di essere compensate per i morti e i feriti che hanno donato alla causa. Gli sciiti non si sono d’un tratto ammorbiditi con Israele, ma le condizioni economiche e la percezione generale che una guerra sarebbe più a favore della Siria (molti libanesi vedono Damasco con astio dopo l’occupazione di quasi tre decenni durata fino al 2005) che per difendere gli interessi libanesi, giocano a sfavore di Nasrallah. Secondo: sono molti i dubbi sui doppi standard assunti da Hezbollah, che nei primi mesi della primavera araba ha pronunciato parole di favore e elogio ai manifestanti del nord Africa, per poi tacere e difendere gli Assad (gira voce che Hezbollah abbia mandato uomini armati in Siria per aiutare Damasco). Terzo: se Hezbollah cominciasse una guerra, la vittoria sarebbe tutt’altro che sicura. Una sconfitta significherebbe per Nasrallah perdere l’aura di eroe liberatore, il sostegno degli sciiti e le armi che nasconde nel sud del paese, una delle ragioni che permettono di mantenere un’egemonia nella politica libanese. Quarto: “La vittoria divina”, così la definiscono, del 2006 portò una quantità notevole di capitali “amici” al Libano del sud: Qatar e Iran intrattennero per mesi una gara a chi fosse in grado di aiutare di più i villaggi del Libano del sud in via di ricostruzione. Su ogni cantiere o edificio si possono leggere cartelli di ringraziamento ai paesi donatori. Sono passati sei anni e l’Iran è nel mezzo di una crisi economica (morso dalle sanzioni internazionali) e politica (la lotta di potere interna tra Ahmadinejad e Khamenei) e non è più in grado di sostenere lo stesso livello di aiuti degli anni precedenti. I rapporti tra Qatar e Hezbollah sono invece al momento gelidi a causa della questione siriana, la cui difesa senza remore da parte di Nasrallah ha alienato il governo di Doha.
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