Turchia, l'intervento in Siria sembra inevitabile intanto Assad continua a massacrare la popolazione
Testata: Il Foglio Data: 13 luglio 2011 Pagina: 4 Autore: Marco Pedersini Titolo: «Che cosa succede se i soldati della Turchia invadono un pezzo di Siria?»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/07/2011, a pag. 4, l'articolo di Marco Pedersini dal titolo " Che cosa succede se i soldati della Turchia invadono un pezzo di Siria? ".
Molto interessante l'articolo di Pedersini, segnaliamo, però, la conclusione: "Recep Tayyip Erdogan, deve trovare un equilibrio difficile: un intervento a favore dei sunniti oppressi in Siria aumenterebbe i consensi al suo Akp, facendo passare i dissidi con l’opposizione in secondo piano. Ma forzando troppo la mano, Erdogan rischia di riscaldare troppo gli animi dei suoi generali, storicamente facili ai colpi di stato. ". I militari turchi, più che facili al colpo di Stato sono gli unici a garantire la laicità dello Stato. Erdogan ha limitato (e continuerà a farlo) il loro potere, procedendo così indisturbato nel suo piano di islamizzazione della Turchia. Ecco l'articolo:
Turchia Siria
Roma. Attorno alla città di Hama, duecento chilometri a nord di Damasco, corre il filo che può fare saltare in via definitiva le relazioni tra Siria e Turchia. Un’aggressione siriana alla roccaforte dei ribelli potrebbe dare l’innesco a un’operazione che i generali di Ankara meditano da mesi: entrare in territorio siriano e creare con la forza una zona cuscinetto, dove ospitare i profughi in fuga dagli scontri. L’ha già fatta durante la prima guerra del Golfo, al confine con l’Iraq, per fermare i curdi, potrebbero farlo di nuovo. Stavolta si parla di una striscia larga al massimo dieci chilometri lungo una parte di confine, presidiata dalle forze turche, che assicurerebbero acqua e servizi di prima necessità. Sarebbe un rischio diplomatico, ma con un vantaggio indubbio: i profughi resterebbero in territorio siriano, al di là dal confine. Tamponata l’emergenza di fine giugno, nei campi allestiti dalla Mezzaluna Rossa restano 8.500 profughi che non hanno alcuna intenzione di tornare sotto la giurisdizione degli Assad – al massimo lasciano gli accampamenti, assicurando di essere diretti in Siria dai parenti, per poi scappare chissà dove. Venerdì a Hama sono scese in piazza oltre 500 mila persone, nella più grande manifestazione organizzata finora contro il regime di Bashar el Assad. Ma ormai in città non si aspetta più il fine settimana, come testimoniano i video delle proteste di lunedì sera. La situazione si aggrava: ieri gli attivisti anti regime hanno detto di avere scoperto una fossa comune con quindici cadaveri nei giardini di al Hasan, nel centro di Hama. Nel frattempo, due elicotteri dell’esercito sorvolavano le zone in cui si sono barricati i rivoltosi, studiando le barriere in costruzione, in vista di un attacco che pende sempre come imminente. E’ così che si attende agosto, quando inizierà il Ramadan e allora, grazie alle frequenti visite alle moschee, sarà “venerdì tutti i giorni”, cantano i ribelli. Hama è diventata la chiave della rivoluzione. Lo sa chi, lunedì notte, sventolava i cartelli “Hama, siamo con te fino alla morte” nei sobborghi di Damasco. Lo sa anche l’ambasciatore americano Robert Ford, che nell’ultimo “Venerdì della collera” era tra i manifestanti che sventolavano ramoscelli d’ulivo contro il regime di Damasco. Una scelta coraggiosa che gli è costata una ritorsione lunedì, quando tre centinaia di sostenitori di Bashar el Assad hanno attaccato l’ambasciata americana a Damasco, rompendo vetri, scalando i muri di cinta e stendendo bandiere siriane sopra l’ingresso dell’edificio. L’attacco dà prova della bontà della nuova strategia diplomatica di Ford: l’ipotesi di un intervento militare in Siria è da incubo, un sostegno materiale e logistico ai ribelli potrebbe facilmente risultare vistoso e allora tanto vale provare con i gesti ad alto impatto simbolico. I risultati pratici sono più che apprezzabili, visto che la presenza di Ford e dell’ambasciatore francese Eric Chevallier ha impedito ai militari di aprire il fuoco sulla folla. L’ambasciatore turco, invece, venerdì è stato a casa. Poche ore dopo il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu, stringeva la mano al collega iraniano Ali Akbar Salehi, a Teheran. “Tutti i paesi di questa regione dovrebbero essere sensibili alle esigenze dei cittadini e consultarsi con grandi nazioni come l’Iran”, ha spiegato Davutoglu, secondo la delicatezza imposta dalla sua dottrina della “profondità strategica”, che mette al primo posto le buone relazioni di vicinato. “Siria, Iran e Turchia sono una famiglia e se un familiare ha un problema, gli altri fanno il possibile per aiutarlo”, ha replicato Salehi, sapendo però che si è vicini al limite a cui Ankara sarà costretta ad abbandonare la cortesia per far scattare l’operazione militare di contenimento. Il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, deve trovare un equilibrio difficile: un intervento a favore dei sunniti oppressi in Siria aumenterebbe i consensi al suo Akp, facendo passare i dissidi con l’opposizione in secondo piano. Ma forzando troppo la mano, Erdogan rischia di riscaldare troppo gli animi dei suoi generali, storicamente facili ai colpi di stato.
Per inviare la propria opinione al Foglio, cliccare sull'e-mail sottostante