Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/07/2011, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri e Luigi De Biase dal titolo "Nella pancia di Karachi".
Daniele Raineri, Luigi De Biase, Pakistan
Centinaia di uomini in abiti bianchi gonfiano l’ingresso della moschea Binori, il tempio più grande e più influente di Karachi. Entrare non è difficile e confondersi non è impossibile, ma quando l’imam intona la preghiera – quando i fedeli si piegano con devozione in ogni angolo della moschea – quel potere si esaurisce senza segnali d’avvertimento. Allora un uomo si avvicina e domanda: “Perché non preghi come gli altri? Sei musulmano?”. Qualcuno si muove per capire che succede, anche il poliziotto di guardia all’ingresso lascia la tazza del tè e arriva veloce con il fucile in spalla, chiede qualcosa in pachistano, prende passaporto e macchina fotografica. In poco tempo decine di persone sono intorno. Ci sono bambini, barbuti e studenti con le braghe arrotolate sopra le caviglie, tutti assieme sembrano una persona sola divisa fra il dubbio e il delirio: vogliono sapere perché c’è un uomo che sembra pachistano ma non parla urdu, domandano “che cosa fai? Sei solo o ce ne sono altri con te?”, s’interrogano a vicenda ma nessuno sa che fare di preciso. Per questo il poliziotto prova improvviso sollievo quando un imam si fa largo a spinte, ordina ai curiosi di allontanarsi e tira il visitatore nella madrassa. Il religioso si chiama Ekramullah, dimostra trent’anni e una certa autorità. Dice di essere uno dei responsabili della moschea e si scusa per l’inconveniente. “Da qualche tempo siamo tutti più sensibili. Qui ci sono duemila studenti e dobbiamo garantire la loro sicurezza. Non possiamo permetterci che le loro famiglie si preoccupino”.
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Ekramullah siede in terra con le gambe incrociate, parla tranquillo e controlla il telefono che squilla in continuazione, capisce bene l’inglese ma guarda spesso un compagno che gli traduce. Un altro bussa alla porta ed entra con un vassoio carico di tazze e biscotti. Il problema, dice, è la guerra. “Migliaia di arabi sono andati in Afghanistan negli anni Ottanta per fermare l’invasione sovietica e sono stati accolti dai talebani. Quello che è accaduto l’11 settembre è sbagliato e condannabile, ma l’America ha scelto la strada peggiore per raggiungere la pace. Oggi cercano di separare i combattenti arabi dai talebani: è un’impresa difficile perché le tribù non possono negoziare sul principio di ospitalità. Quindi i guerriglieri attaccano gli Stati Uniti e tutti i paesi che aiutano gli americani. Il Pakistan è fra questi. Anche noi di Binori dobbiamo stare in guardia”.
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Binori è la scuola più importante della regione e il suo nome salta fuori ogni volta che s’indaga sui collegamenti fra i talebani, i terroristi di al Qaida e i servizi segreti di Islamabad. Secondo il giornalista pachistano Amir Mir, qui è avvenuto il primo incontro fra Bin Laden e il Mullah Omar. Lo stesso Mir ha raccolto i nomi dei guerriglieri che hanno combattuto in Kashmir e in Afghanistan dopo aver terminato gli studi a Binori: l’elenco è corposo e comprende l’élite della guerra santa in Asia. Nelle aule di questo tempio Deobandi, centinaia di studenti ripetono a memoria il Corano sino a notte fonda. Vengono da ogni angolo del paese, dalle Filippine, dalla Malesia, dagli Stati Uniti e dal Canada. Due ospedali alle spalle della moschea danno riposo ai reduci di guerra. Per Ekramullah e per i suoi colleghi non dev’essere facile trattenere a Binori centinaia di giovani mentre la guerra santa infuria a poche ore d’auto di distanza.
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Karachi è un accidente, una catastrofe. Quando gli inglesi decisero nel ’48 che non valeva la pena tenere unito ciò che Dio aveva voluto disunire, ovvero gli indiani musulmani dal resto del subcontinente, il piccolo porto sull’Oceano indiano fu invaso da milioni di profughi intenzionati a non andare troppo a nord. La densità di gente attira altra gente per una disgraziata legge di di Daniele Raineri e Luigi De Biase gravitazione dei popoli, e questa legge ha fatto il resto del disastro: una megalopoli da sedici milioni di abitanti secondo la stima ufficiale, ma che probabilmente conta un paio di milioni in più, con una mescolanza esplosiva di almeno cinque etnie e linguaggi ufficiali, senza più forma, senza più limiti, senza più controllo. A luglio i vapori sporchi che si alzano dall’oceano si abbattono a quarantacinque gradi centigradi su un paesaggio di costruzioni infinito e sugli abitanti maomettani che invano cercano scampo dalle strade. Questo, e non le aree tribali montagnose del nord, è lo scenario da incubo allo studio del Pentagono per gli anni che verranno. Che succede se la guerra vera scoppia qui, fra gli slum di Orangi Town, o fra i sette milioni di pashtun che abitano la megalopoli, molto più di quelli che popolano le zone più bellicose dell’Afghanistan? – ma anche in Europa non si scherza, la Gran Bretagna ha un’enclave pashtun da centomila abitanti. Lassù, in cima alla mappa, i droni volano su colline deserte e sulle rade baite che ospitano i ricercati. Che si fa se il conflitto si sposta giù, nel reticolo urbano di case e viuzze senza fine? Quanti soldati, quanti droni ci vogliono? Il giornalista Mike Davis, autore del saggio “Planet of Slums”, scrive che “secondo il Pentagono le città fallite del terzo mondo, e soprattutto gli slum alla loro periferia, diverranno il campo di battaglia che distinguerà il Ventunesimo secolo dagli altri”.
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Un gruppo di studenti della Federazione studentesca pashtun arriva con pistole e Ak- 47 all’ospedale Liaquat National e porta via il suo capo Fida Kakar. Due giorni prima era stato lasciato al banco dell’accettazione con un proiettile nel petto. La procedura di registrazione è stata violenta, gli studenti hanno sparato contro le telecamere a circuito chiuso e contro le sedie della sala d’aspetto, non volevano che i medici chiamassero la polizia. Kakar è stato curato per due giorni, ma l’ospedale è troppo vicino a una sede del gruppo studentesco opposto, il Fuuast, quello degli urdu, c’era la paura che arrivassero per ucciderlo e per questo è stato spostato. Le sparatorie tra studenti sono la versione in piccolo della battaglia urbana permanente tra i pashtun – che parlano la lingua pashto e sono protetti dal partito Anp – e la maggioranza che parla urdu, la lingua ufficiale della nazione, e si raccolgono sotto l’onnipresente partito Mqm. Bandiere, cartelloni e scritte minacciose dei due partiti infestano ogni angolo di strada e in molti casi delimitano il territorio come in una guerra per bande. Ci sono attacchi incrociati, assalti e vendette: tra i fumi convulsi della megalopoli un paio di morti ammazzati potrebbero pure passare inosservati, ma ormai il conteggio viaggia tra i cinque e i dieci morti ogni giorno. La settimana scorsa ci sono stati 90 morti in quattro giorni. “Tra tutte le etnie pachistane – sghignazza il tassista pashtun – la sola che tutto il mondo ha ben presente è quella pashtun: un motivo ci sarà”. La realtà è che per noi occidentali il problema ha soltanto una faccia, che ci tiene molto assorti e concentrati, ovvero la guerriglia dei talebani pashtun che dal sud dell’Afghanistan marcia verso la capitale Kabul. Ma nel sud dell’Asia è un problema più generale, i parlatori di pashto cozzano contro gli altri con tutta la loro volontà di affermazione e di conquista. A Karachi la questione ha preso la forma di uno scontro sociale tra vecchi immigrati più o meno sistemati che vedono la loro ricchezza e i posti di lavoro minacciati da “questi talebani che vengono da nord”.
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C'è una guida turistica che i viaggiatori chic accettano di possedere senza provare vergogna, si chiama “Lonely Planet” e ha portato a Karachi centinaia di giovani partiti da Chicago e Moncalieri con il sogno di vedere presto le città sante dell’Hindu e del Gange. Ma bastano pochi passi nel distretto di Saddar per capire che non c’è profumo d’incenso da queste parti. Chi cerca un letto nel mercato – come consiglia la guida dei viaggiatori chic – si può rivolgere all’Hotel Reliance, dove un uomo con il volto scuro inchiodato al banco della reception rifiuta senza troppe smancerie gli ospiti stranieri. A giudicare dal colore delle pareti, forse è un colpo di fortuna. Anche il Gulf e lo United hanno le camere piene – Siete pachistani Sir? No? Da dove venite allora? Mi spiace, siamo al completo – mentre il personale dello Shalimar è molto più disponibile: una rapida ispezione alle stanze, tuttavia, suggerisce che è il caso di allontanarsi il più presto possibile, quindi tanti saluti al vecchio con la barba tinta che guarda telenovele e al suo giovane aiutante. All’albergo Sarawi devono passarsela male perché accolgono i visitatori con strette di mano e bicchieri di succo d’arancia. Sono persino disposti a trattare sul prezzo delle camere business (telefono, doccia calda e wc), che passa in pochi secondi da cinquemila a tremila rupie. Un ragazzone del Punjab con un copricapo originale si carica i bagagli sulle spalle e fa strada lungo le scale. La sera, lo stesso uomo mette il cappello in un armadio, infila un ferro calibro 38 alla cintura e si mette comodo di fronte alla porta d’ingresso.
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Saddar Town è il centro di Karachi e gli ingegneri britannici che hanno squadrato il distretto nell’Ottocento ci hanno messo il rigore che si deve alle terre di conquista – palazzine di tre piani, una strada dritta che collega la chiesa di Sant’Andrea al Mercato dell’imperatrice e quartieri separati per ogni commercio. Ma il traffico di banchi, di gambe e di motociclette che invade la città ha sepolto da tempo quel disegno preciso. Oggi il mercato è una macchina che strilla e odora di polvere e nafta, è una fila di donne coperte che aspettano il pane sedute composte sul marciapiede, negozi di barbiere, maschi senza braccia, banchi di frutta matura e vecchi barbuti che parlano all’ombra. Non esistono vere pareti fra le botteghe di Saddar: un uomo siede al chiosco del tè e chiede di avere una fetta di melone, il garzone scompare per qualche minuto nel bazaar e torna con il frutto fra le mani. Un cliente conosciuto potrebbe mettere insieme il corredo di una sposa senza muovere un passo. A prima vista si direbbe che il quartiere non produce rifiuti perché ognuno è impegnato a riparare qualcosa, ma le discariche si trovano ovunque: al tramonto i calzolai lavorano all’aperto seduti sui loro sgabelli, nei chioschi si frullano patate, bacche viola e canna da zucchero, un macellaio sistema i polli dentro una gabbia mentre capre e falchetti sorvegliano gli scarti lasciati a marcire per strada. Saddar è uno dei quartieri più prestigiosi di Karachi – un tassista dice che l’affitto di un negozio costa venti milioni di rupie all’anno, circa ventimila euro – ma pochi europei riuscirebbero a camparci per una settimana intera.
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Basta fermarsi più di trenta secondi accanto alla grande insegna di pietra a cento metri dai vari cancelli della base della marina pachistana di Mehran, non troppo distante dall’aeroporto. Scaduto quel tempo, si avvicina un uomo in borghese e altri due arrivano in motocicletta. Servizi. Fanno domande sul perché si è scelto di sostare proprio accanto all’insegna, invitano con fermezza a levarsi di torno. Tanta efficienza è lodevole, ma è un po’ ridicola ora, dopo che l’attacco di al Qaida è già arrivato. Una squadra di quattro incursori suicidi è penetrata nella base tre settimane fa e ha resistito per quasi ventiquattr’ore alle forze di sicurezza, e nel frattempo ha distrutto due sofisticati Orion americani, aerei da sorveglianza carichi all’inverosimile di tecnologia avanzata, che Washington con pazienza ha già detto che sostituirà con altri due nuovi. Hanno pure dato la caccia agli stranieri, cinesi e americani, che aiutano i militari. Gli ingegneri di Pechino sono scampati alla morte per un soffio, portati via su una macchina da un marinaio che ha guidato tra le pallottole. La base è troppo grande e in mezzo alle case c’è perfino un museo aperto al pubblico dentro – ora non più, “forse riapriamo tra un mese, o tra un anno”, dice la sentinella – e dal cavalcavia della strada si riescono a vedere, anche se in lontananza, gli hangar con gli aerei. Ma la sua vulnerabilità è data soprattutto dalle infiltrazioni di uomini di al Qaida tra gli ufficiali di marina. Il giornalista che ha scoperto il collegamento fra la base e gli infiltrati, Syed Saleem Shahzad, è stato rapito, torturato e ucciso e Washington ha puntato il dito contro i servizi segreti.
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A un centinaio di metri soltanto, dietro al muro con reticolato, si alzano le piramidi immense di container del porto. Fuori hanno scritte in cinese e dentro custodiscono anche i rifornimenti per le truppe che combattono in Afghanistan, diciotto giorni di viaggio più a nord. Dall’altra parte della strada a quattro corsie, cominciano, invece, le viuzze di Sultanabad, una delle grandi enclave pashtun, che è come dire Mullah Omar, talebani, Kandahar, guerra violenta per cacciare la Nato e rimangiarsi Kabul: i pashtun fanno orgogliosamente parte della stessa etnia asiatica, ma si definiscono “nazione” e sono ovunque compatti per ferocia marziale, incazzatura ideologica e fanatismo religioso. I container della Nato e i talebani quaggiù si guardano da marciapiedi opposti in uno stato miracoloso di coabitazione. E’ vero, ci sono stati alcuni attacchi devastanti contro i moli in passato, alcuni Humvee sono finiti carbonizzati prima ancora che potessero vedere i campi di battaglia afghani, ma i pashtun hanno imparato a trattenersi, c’è una specie di accordo con le autorità: anche a loro viene comoda una base metropolitana dove nascondersi, svernare e leccarsi le ferite. “Il Mullah Omar potrebbe lucidare scarpe all’angolo di questa strada e non ce ne accorgeremmo mai”, ha detto due anni fa il capo della polizia metropolitana. Nell’ombra dei vicoli di Sultanabad, invasi dalla puzza marina da angiporto che è uguale ovunque nel mondo ma qui è decisamente forte, i mutilati arrivati dal fronte afghano riposano su stuoie, alcuni sono senza una o entrambe le gambe. Altri pashtun appaiono in ottima forma. Barba, avambracci grossi e pelosi, 23 anni, Abdullah è circondato da una ventina di guardie ossequenti e non vuole essere fotografato, anche se chiede subito i numeri dei telefonini. Fa sedere i due stranieri assieme a lui all’aperto su un divano sfondato, fa portare due Pepsi, dice di essere di Wana, nel Waziristan. Wana è un centro di attività per i talebani pachistani, è un bersaglio regolare dei droni, è un posto pericoloso al di fuori del controllo del governo. Abdullah si sente al sicuro anche qua, sulla costa, tra le auto, le pecore e i venditori ambulanti della città. Racconta di due suoi parenti stretti coinvolti nella guerra. Uno è Nek Mohammed. Tocca fare uno sforzo per trattenere la meraviglia: Nek Mohammed è stato uno dei grandi leader che hanno fatto risorgere i talebani dalle proprie ceneri dopo la sconfitta del 2001, è stato eliminato da uno dei primi colpi dei droni americani sulle aree tribali: si tratta comunque di un nome per addetti ai lavori, e mostrare troppa confidenza non sta bene nel retro del porto di Karachi. L’altro parente è ancora vivo, ma è tanto che non si sentono perché in questo momento sta a “Kiuba”. “Kiuba”? E’ una città in Pakistan? Nel nord? Dove sta? Abdullah il waziro ripete con pazienza lo spelling: “Cu-ba”. A Guantanamo.
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