Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/07/2011, a pag. 1-19, l'articolo di A. B. Yehoshua dal titolo " Perchè Israele deve scegliere il negoziato ", preceduto dal nostro commento, a pag. 18, gli articoli di Maurizio Molinari e Aldo Baquis titolati " Palestina, l’Onu pronta al riconoscimento. Obama prepara il veto " e " Netanyahu: il conflitto non farà che peggiorare ", a pag. 19, l'articolo di Paola Caridi dal titolo " Una nazione che rischia di nascere già divisa ", preceduto dal nostro commento.
Sull'autoproclamazione dello Stato palestinese e le sue conseguenze, consigliamo la lettura dell'editoriale di magdi C. Allam, pubblicato sul Giornale e ripreso da IC il 04/07/2011 (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=9&sez=120&id=40417).
Ecco i pezzi:
A. B. Yehoshua - " Perchè Israele deve scegliere il negoziato "
A. B. Yehoshua
A. B. Yehoshua ricorda una parte di storia della nascita di Israele che, spesso, viene ignorata dai quotidiani italiani : "Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina. E votò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina.(...) I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo.".
Yehoshua è un grande scrittore, milita da sempre nel fronte pacifista, la sua è sempre stata una politica di comprensione verso la minoranza palestinese, concetti che ha espresso con motivazioni basate sul rispetto dei diritti umani, e che abbiamo sempre condiviso.
Ma non possiamo condividere la motivazione che adduce per convincere che sia giusto accettare l'autoproclamazione dello Stato palestinese : "Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale ". Come scrive Yehoshua stesso, infatti, "Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi ". I confini del '67 non erano difendibili all'epoca e continuano a non esserlo. Per questo non è possibile accettare l'autoproclamazione. I confini e la sicurezza dello Stato ebraico devono essere oggetto di discussione e negoziati.
Lo scenario descritto da Yehoshua se a settembre l'Anp proclamerà lo Stato palestinese senza il riconoscimento di Israele è molto realistico (agitazioni, conflitti, scontri). Proprio per questo non è attuabile. I palestinesi tornino al tavolo dei negoziati, impegnandosi per raggiungere un compromesso. Come ha detto Netanyahu a Bersani in visita in Medio Oriente in questi giorni, la soluzione è in mano ad Abu Mazen, inizi col riconoscere Israele come Stato ebraico, Israele è pronto a negoziare.
Ecco l'articolo:
La campagna condotta da Israele contro l’iniziativa palestinese per ottenere il riconoscimento di un proprio Stato all’Assemblea delle Nazioni Unite il prossimo settembre è a mio parere politicamente e moralmente scorretta e connessa alla questione del riconoscimento internazionale dei confini del 1967.
Permettetemi di riassumere brevemente una storia forse poco conosciuta alla maggior parte dei lettori italiani. Nel novembre 1947 l’Assemblea generale dell’Onu, che comprendeva un terzo dei Paesi oggi membri, votò la fine del mandato britannico in Palestina. Evotò, nel contempo, la creazione di due diversi Stati: uno ebraico - Israele -, e uno arabo - la Palestina. L’area assegnata a questi due Paesi era più o meno la stessa. Lo Stato ebraico sarebbe stato costituito da circa 14 mila chilometri quadrati di territorio (per metà desertico) e quello palestinese da più o meno 13 mila.
I palestinesi respinsero categoricamente tale decisione, lanciarono attacchi contro gli insediamenti ebraici e nel maggio 1948, dopo la proclamazione della nascita di Israele, sette Paesi arabi invasero il nuovo Stato per annientarlo. Israele non solo si difese dagli attacchi che minacciavano di distruggerlo ma nello slancio della guerra le sue forze penetrarono nel territorio destinato alla futura Palestina (sul quale, nel frattempo, aveva preso il controllo la Giordania) e dopo l’armistizio del 1949 ne annesse circa la metà. Vennero così stabiliti i cosiddetti confini «del 1967» (o meglio, del 1949) riconosciuti dalla comunità internazionale e all’interno dei quali il territorio di Israele si estende per 20.000 chilometri quadrati mentre quello della Palestina (Striscia di Gaza e Cisgiordania) per 7.000.
Nel 1967 Israele fu attaccato da Egitto e Giordania e durante la successiva Guerra dei Sei giorni conquistò i rimanenti territori palestinesi: la Cisgiordania, allora sotto dominio giordano, e la Striscia di Gaza, in mano all’Egitto. Quest’ultima è ora governata dai palestinesi di Hamas mentre la Cisgiordania è ancora in mano israeliana. La decisione dell’Assemblea generale a settembre riguarderà sostanzialmente la questione territoriale del futuro Stato palestinese mentre, a quanto pare, non farà riferimento al ritorno dei profughi, alla smilitarizzazione, a Gerusalemme Est come capitale di tale Stato, e, naturalmente, al futuro degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Temi che dovranno essere discussi nel corso di negoziati diretti.
Il riconoscimento di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 sancirà dunque la decisione presa dalle Nazioni Unite nel novembre 1947 riguardo alla partizione della regione, sostenuta a suo tempo da Israele e alla base della sua legittimità internazionale. Se quindi il governo di Gerusalemme è sincero nel voler riconoscere uno Stato palestinese - come ha ripetutamente dichiarato perché si oppone tanto alla prevista risoluzione di settembre? Penso che l’unica ragione sia il riferimento ai confini del 1967. Il governo israeliano intende annettere parti della Cisgiordania, sia per via degli insediamenti lì presenti che per i vincoli storici con luoghi sacri agli ebrei. Dobbiamo però renderci conto che il territorio del futuro Stato palestinese (soltanto un quarto dell’intera regione) è il minimo di quanto spetta al suo popolo. E la tesi di Israele secondo la quale i confini del 1967 sarebbero indifendibili è problematica. È ovvio che lo Stato ebraico va assolutamente protetto da eventuali aggressioni ma tale protezione non sarà assicurata da insediamenti civili nel cuore della popolazione araba né dall’annessione. Solo basi militari, israeliane e internazionali, lungo il Giordano, al confine orientale del futuro Stato, potranno fronteggiare eserciti arabi che vogliano introdursi in Palestina per attaccare lo Stato ebraico. E potrebbe anche essere necessario dislocare postazioni di sorveglianza internazionali e israeliane in punti strategici per garantire che le forze armate palestinesi non si armino con artiglieria pesante. Tutte queste misure non intaccherebbero l’identità nazionale palestinese (così come le basi militari straniere in Europa e in altre regioni durante la Guerra Fredda). Una presenza militare è sostanzialmente temporanea e un domani, mutate le circostanze, sarà possibile rimuoverla. Viceversa i civili israeliani in enclave all’interno dello Stato palestinese sarebbero una costante provocazione che rinfocolerebbe odio e dissenso.
L’eventualità di una folla di civili palestinesi, tra cui donne e bambini, che si riversano nelle strade di villaggi e città per manifestare in maniera non violenta (come avviene ultimamente in vari Paesi arabi) contro avamposti e insediamenti israeliani in Cisgiordania dopo la decisione dell’Onu a settembre mi inquieta molto. L’Anp saprebbe tenere a bada tali manifestazioni? E cosa farebbe Israele? Invierebbe l’esercito per reprimerle con la forza? E gli estremisti israeliani come reagirebbero a quelle proteste dinanzi alle loro case?
Un simile scenario potrà essere evitato se il governo di Israele sosterrà a settembre la risoluzione delle Nazioni Unite e avvierà subito negoziati diretti su tutte le questioni controverse, come lo ha esortato a fare il Presidente degli Stati Uniti.
Maurizio Molinari - " Palestina, l’Onu pronta al riconoscimento. Obama prepara il veto "
Maurizio Molinari
Con la riunione di oggi a Washington del Quartetto (Usa, Russia, Ue e Onu) le grandi potenze tentano di scongiurare il riconoscimento dell’indipendenza della Palestina da parte della Assemblea Generale dell’Onu di settembre consapevoli che potrebbe innescare una seria crisi in Medio Oriente. Il pericolo di uno «tsunami diplomatico», come lo ha definito il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, nasce dalla volontà del governo di Ramallah guidato da Abu Mazen di chiedere all’Assemblea Generale di votare a maggioranza qualificata - due terzi dei 192 voti la proclamazione del nuovo Stato sui territori di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Sulla carta i voti ci sono perché oltre 100 nazioni hanno già riconosciuto la «Palestina» ma Barack Obama si è detto contrario affermando che «l’indipendenza palestinese deve essere raggiunta attraverso il negoziato con Israele» e al fine di ostacolare il voto ha dato mandato al Segretario di Stato Hillary Clinton di studiare una controstrategia basata sul regolamento dell’Onu.
Poiché serve una «raccomandazione del Consiglio di Sicurezza» per poter votare sull’ammissione di un nuovo Stato, gli Usa sono pronti a porre il veto ma vorrebbero agire d’intesa con europei e russi. Il britannico David Cameron è in sintonia con Obama mentre il francese Nicolas Sarkozy ha fatto intuire a Ramallah la possibilità di un aperto sostegno, in sintonia con il ruolo di alto profilo di Parigi sulle rivolte arabe: «Se non ci sarà un processo di pace, la Francia si assumerà le sue responsabilità sulla Palestina».
E’ proprio tale convergenza fra offensiva Onu dell’Autorità nazionale palesinese (Anp) e rivolte arabe che fa temere il peggio a Israele, come il premier Benjamin Netanyahu ha spiegato al Congresso, soffermandosi sul rischio che il voto dell’Assemblea Generale possa essere seguito da una sollevazione generalizzata dei palestinesi capace di innescare un conflitto. Il Congresso condivide tali timori: Camera e Senato hanno approvato a larga maggioranza identiche mozioni che chiedono alla Casa Bianca di bloccare il tentativo dell’Anp. Per riuscirci Hillary conta su un’intesa in seno al Quartetto sul rilancio del negoziato israelo-palestinese, congelato da quasi un anno. È un approccio che converge con quello di Catherine Ashton, il ministro degli Esteri dell’Unione Europea, che auspica «colloqui di riconciliazione» per trasformare il pericolo del voto all’Onu nell’acceleratore del negoziato sullo status definitivo.
Resta da vedere se Usa e Ue riusciranno a trovare una formula capace di far incontrare Netanyahu e Abu Mazen. Quest’ultimo è convinto di avere il sostegno della Russia anche se al termine della sua recente visita a Mosca, il ministro degli Esteri Serghey Lavrov si è limitato a dire: «Vogliamo la creazione di una Palestina democratica e indipendente» senza accenni all’Onu. Se Hillary riuscirà ad ottenere una posizione comune del Quartetto, il passo seguente sarà tentare di riportare le parti al negoziato per arrivare alla riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 26 luglio con un risultato politico in base al quale votare, d’accordo con Ue e Russia, contro il pronunciamento dell’aula. Lo scenario migliore per Hillary sarebbe se l’Anp facesse marcia indietro. Per questo David Hale, inviato Usa per il Medio Oriente, ha suggerito al negoziatore palestinese Saeb Erakat di «rinunciare al voto perché è una cattiva idea», ma l’Anp è disposta a farlo solo in cambio dell’accettazione da parte di Israele di confini basati sulle linee del 1967, considerate «indifendibili» da Netanyahu.
A confermare l’importanza della mediazione del Quartetto c’è un altro scenario: in caso di opposizione del Consiglio di Sicurezza, l’Anp potrebbe andare comunque in Assemblea Generale, in base a un precedente risalente alla Guerra di Corea, innescando un corto circuito istituzionale dentro l’Onu dalle conseguenze imprevedibili.
Aldo Baquis - " Netanyahu: il conflitto non farà che peggiorare "
Bibi Netanyahu
La partita diplomatica è compromessa; ad Israele non resta che impegnarsi per una sconfitta onorevole anche perché di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite le possibilità di far valere le proprie ragioni sono inesistenti.
In uno splendido inglese, del tutto a suo agio di fronte ai dirigenti mondiali dell’Agenzia Ebraica riuniti due settimane fa a Gerusalemme, Benyamin Netanyahu non ha cercato di vendere illusioni. Se l’Anp punta alla proclamazione di uno Stato palestinese all’Onu, la avrà. Al massimo - ha puntualizzato Israele può cercare di mettere assieme una «coalizione dei Paesi responsabili», che ritengono un errore assecondare la volontà del presidente Abu Mazen di esimersi da negoziati bilaterali e di imporre ad Israele una risoluzione dell’Onu. Solo che quella strada non porta alla pace, ha però avvertito il premier: «Al contrario, non farà che irrigidire le posizioni palestinesi». «L’obiettivo della comunità internazionale - ha notato dovrebbe essere quello di mettere fine al conflitto e non di creare accanto ad Israele uno Stato palestinese che lo fomenti, che cerchi di dissolvere Israele in una marea di profughi, oppure incitando all’irredentismo gli arabi della Galilea e del Neghev».
I rapporti di intelligence che il premier riceve in queste settimane sono allarmanti. Abu Mazen - dicono - non ha alcuna intenzione di mettere la parola «fine» al conflitto con Israele. Una volta proclamato lo Stato ci sarà da attendersi una prosecuzione della lotta con altri mezzi: ad esempio con costanti manifestazioni di massa lungo i perimetri di Israele, oppure con estenuanti schermaglie legali nelle Corti internazionali, con la richiesta di risarcimenti per 40 anni di occupazione militare. Su Israele incomberà la minaccia del boicottaggio commerciale.
Pur sapendo che ormai è vano, Netanyahu continua a premere su Abu Mazen per una ripresa delle trattative e per l’abolizione degli accordi politici fra Fatah e Hamas, comunque finora rimasti sulla carta. Ma nel frattempo Israele addestra le forze di pronto intervento in vista del possibile confronto di settembre.
Non tutti in Israele seguono la linea di pensiero di Netanyahu. La leader dell’opposizione Tzipi Livni lo accusa di aver sperperato in due anni il prestigio internazionale di Israele con una politica dettata dalle forze nazionaliste ed integraliste con cui ha composto il governo. Ma anche la Livni aspira a uno Stato palestinese smilitarizzato; con confini che tengano conto delle nuove realtà demografiche; che assorba i profughi e che, con la sua costituzione, metta fine alle richieste palestinesi verso Israele.
Al di fuori del mondo politico, vi sono ristretti ambienti dell’intellighenzia dove la costituzione della Palestina è vista invece come un momento di catarsi nelle relazioni fra i due popoli. Proprio Israele, dicono questi intellettuali riuniti nel gruppo «Solidarietà», dovrebbe essere il primo a tendere una mano amica al nuovo vicino. La lista dei firmatari comprende 20 nomi, fra cui svetta il filosofo spinoziano Yirmiahu Yovel.
Paola Caridi - " Una nazione che rischia di nascere già divisa "
Abu Mazen
Paola Caridi non si smentisce e dimostra di essere molto favorevole alla proclamazione unilaterale dello Stato palestinese "Finora i palestinesi avevano il riconoscimento come popolo. Quello che ha fatto entrare nel panico anzitutto Israele, e poi l’intera diplomazia occidentale (Stati Uniti compresi), è il fatto che ora vogliano uno Stato. ". Ciò che preoccupa Israele sono i confini e la sicurezza dei propri cittadini, non l'ipotetico Stato palestinese in sè. E infatti tutti i governi israeliani si sono sempre impegnati nei negoziati. Ma è evidente che uno Stato palestinese non può nascere senza garanzie per la sicurezza di quello ebraico. I confini del '67 sono indifendibili. E il terrorismo palestinese è reale. Solo pochi mesi fa due terroristi hanno massacrato a sangue freddo la famiglia Fogel. Abu Mazen non offre nessuna garanzia sulla fine del terrorismo, nè sulla sicurezza dei confini, nè sul riconoscimento di Israele come Stato ebraico. Per questo anche gli Usa di Obama sono intenzionati a bloccare l'autoproclamazione dello Stato palestinese.
Caridi continua : "la richiesta del riconoscimento di uno Stato di Palestina era iniziato, qualche mese fa, come un «ballon d’essai». Per premere su Israele quando non aveva voluto congelare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e dentro Gerusalemme Est. Col tempo, però, lo Stato di Palestina è diventato un obiettivo. ". La nascita dello Stato palestinese non era in partenza uno degli obiettivi dei negoziati? Secondo Caridi no, lo è diventato in seguito. E allora qual era, secondo i palestinesi, lo scopo dei negoziati? Da questo si capisce come mai sono naufragati tutti, in passato. Se i palestinesi avessero desiderato il loro Stato sul serio, l'avrebbero avuto già nel '48. Ma pretendere che Paola Caridi lo specifichi sarebbe troppo...
Ecco l'articolo:
«Ce l’aspettavamo questa pressione, da parte degli Stati Uniti. La decisione, però, è stata presa e sarà confermata dalla Lega Araba sabato prossimo». Riyadh al Malki, il ministro degli Esteri del governo palestinese di Ramallah, ha riassunto in due battute, ieri al Cairo, quello che l’Anp sta passando in queste ultime settimane. Dalla minaccia alla blandizie, i palestinesi stanno sperimentando tutto il catalogo delle pressioni per evitare che vadano all’Onu a chiedere che venga riconosciuto il loro Stato sulla famosa Linea Verde, che nella realtà del territorio palestinese frammentato è una mera chimera. Finora i palestinesi avevano il riconoscimento come popolo. Quello che ha fatto entrare nel panico anzitutto Israele, e poi l’intera diplomazia occidentale (Stati Uniti compresi), è il fatto che ora vogliano uno Stato. E i palestinesi questo panico non riescono proprio a capirlo. «È un diritto naturale e legale per i palestinesi, quello di determinare il nostro destino sulla nostra terra come parte di quella comunità internazionale alla quale chiediamo il riconoscimento», diceva qualche giorno fa Hanan Ashrawi. Qualcuno con i capelli bianchi se la ricorderà: fu una delle protagoniste della conferenza di Madrid, esattamente vent’anni fa, intellettuale palestinese di fede cristiana. Acuta e pungente, quando vuole. «Il problema è di Israele che vuole monopolizzare e isolare i palestinesi per controllare la terra palestinese», ha chiosato.
La pressione è oggettivamente forte. E anche se i palestinesi fanno sfoggio di una determinazione ricordata ogni giorno dal presidente Abu Mazen, da Fatah e dall’Olp, il disagio è evidente. Il fatto è che la richiesta del riconoscimento di uno Stato di Palestina era iniziato, qualche mese fa, come un «ballon d’essai». Per premere su Israele quando non aveva voluto congelare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e dentro Gerusalemme Est. Col tempo, però, lo Stato di Palestina è diventato un obiettivo. E poi un traguardo insperato. Il motivo è semplice, dicono i palestinesi. Essere uno Stato li mette su un piede di parità formale con lo Stato di Israele. Sino a questo momento, sono una strana entità. Se fossero uno Stato, lo stesso comportamento israeliano sulla loro terra si configurerebbe come un contenzioso tra due Stati. Uno dei quale occupa l’altro. Politicamente, è tutta un’altra cosa. Ed è questo che spaventa Israele.
I palestinesi, però, non hanno ancora risanato la frattura politica. La riconciliazione tra Hamas e Fatah, firmata il 4 maggio scorso al Cairo, è ancora lettera morta. E lo sarà sin quando non sarà trasformata in un governo di unità nazionale che metta sotto lo stesso ombrello istituzionale Cisgiordania e Gaza. Dalla loro, però, i palestinesi hanno alleati nella regione che si stanno comportando diversamente dal passato. Non solo l’Egitto e la Turchia, che non sono più avversarie sul dossier palestinese. C’è anche il nuovo segretario generale della Lega Araba, Nabil el Arabi. È lui che ha voluto la riconciliazione. È lui che potrebbe rimettere in gioco la Lega Araba.
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