Il commento di Stefano Magni
Stefano Magni, giornalista dell'Opinione
Solo da un mese Israele vive in pace. Ma è una piccola oasi circondata da incendi, che rischiano di bruciare i suoi confini. L’ultimo episodio bellico combattuto dallo Stato ebraico risale al 5 giugno scorso, anniversario della Guerra dei Sei Giorni (il giorno della “Naksa”, disfatta, in arabo) quando una massa di manifestanti palestinesi ha cercato di passare il confine del Golan. L’esercito israeliano ha dovuto aprire il fuoco per evitare lo sfondamento. Il numero dei caduti è ancora ignoto: 23 secondo fonti siriane (le stesse che, però, negano gli eccidi nelle città della Siria), entro la decina secondo varie stime israeliane. Fonti palestinesi (l’agenzia Wafa) riferiscono che nei giorni seguenti il tentativo di violare il confine, un’altra quindicina di palestinesi sia morta per mano di… altri palestinesi. Le vittime protestavano per la cinica azione sul confine del Golan: i manifestanti erano stati pagati dal regime di Assad, 1000 dollari a testa, per compiere quel pericoloso gesto dimostrativo. Alle future vedove e orfani dei “martiri” erano state promesse altre migliaia di dollari. Palestinesi armati, appartenenti al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina – Comando Generale (Fplp-Cg), hanno sostenuto l’azione di Damasco fino al punto di sparare sui loro compatrioti che osavano protestare contro di essa. L’obiettivo di Damasco ed Fplp-Cg è evidente: destabilizzazione di Israele a tutti i costi, anche contro la volontà del proprio popolo.
Questo episodio di un mese fa merita di essere ricordato per comprendere meglio quel che è avvenuto in questa settimana. Da un lato continuano le rivoluzioni arabe ai confini di Israele, in Egitto e in Siria. Dall’altro i regimi al potere e i movimenti islamici radicali tentano di convogliare l’ira popolare contro il nemico di sempre: “l’entità sionista”. Infine, un’opinione pubblica occidentale sempre più ideologizzata, incapace di saper distinguere fra aggrediti e aggressori, finisce aiutare questi ultimi a destabilizzare i confini israeliani.
Le rivoluzioni arabe, come sempre sin dal loro inizio, sono foriere di speranze e sventure. La speranza va riposta nella ribellione siriana contro il dittatore Bashar al Assad, che da dieci anni è uno dei peggiori nemici dichiarati dell’Occidente e il migliore alleato dell’Iran. Nonostante la repressione abbia provocato già 1300 morti (secondo le stime dell’Osservatorio per i diritti umani siriano), anche questo venerdì la popolazione di Hama è scesa in piazza per protesta. In settimana, sia Hama che la provincia settentrionale di Idlib sono state attaccate dal regime con i carri armati. Eppure, venerdì, a Hama, secondo alcune fonti, sono scesi in strada in 450mila. Quella città è simbolicamente molto importante. Il regime vi stroncò la più grande ribellione della sua storia (allora era guidata dai Fratelli Musulmani) nel 1982, provocando circa 20mila vittime. Venerdì scorso, per impedire che il bagno di sangue si ripetesse, due coraggiosi ambasciatori, Robert Ford degli Stati Uniti ed Eric Chevallier della Francia, si sono esposti personalmente recandosi nella città ribelle. Il loro rischia di rimanere un gesto isolato: presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu solo la Francia preme per una condanna formale al regime di Assad. La Francia e una Ong, Amnesty International, che questa settimana ha chiesto di deferire il regime di Assad al Tribunale Penale Internazionale. Ma la Cina e soprattutto la Russia (di cui la Siria è cliente) minacciano di opporre il veto ad ogni possibile condanna.
Gli alleati di Assad, gli Hezbollah in Libano, tacciono in quella che appare una breve calma prima della tempesta. Il 30 giugno, quattro fra i loro leader sono stati formalmente incriminati dal Tribunale Penale Internazionale (Tpi) per l’omicidio dell’allora premier Rafiq Hariri, il 14 febbraio 2005. Dopo un’indagine lunghissima, la corte internazionale ha compiuto il grande passo… ma nel momento che appare meno opportuno. Dal 14 giugno, infatti, il Libano è guidato da un governo dominato dagli Hezbollah che, con 19 ministri su 30, possono controllare l’operato del premier Najib Miqati. L’opposizione, guidata da Saad Hariri (figlio del defunto Rafiq), benché avesse vinto le elezioni è già stata messa in condizioni di “non disturbare” dopo una serie di minacce golpiste: lo stesso Hariri jr è in fuga, fra Riyad e Parigi. Hezbollah può ritenere che l’incriminazione del Tpi sia solo un pezzo di carta. D’altro canto, un altro ricercato, il dittatore sudanese Omar Bashir, può addirittura viaggiare in Cina, Africa e Medio Oriente senza timore di essere arrestato. Se Hezbollah dovesse prendere sul serio l’incriminazione, a farne le spese sarebbe Israele: per sviare l’attenzione dalla condanna, il “Partito di Dio” è pronto a lanciare migliaia di razzi contro la “entità sionista”, in una riedizione della guerra del 2006, senza che i caschi blu della missione Unifil-2 possano fare alcunché.
Nubi ancor più nere si addensano a Sud, dove l’Egitto (80 milioni di abitanti e il più potente esercito mediorientale) sprofonda nella violenza. Parlando informalmente, un ex membro del consiglio supremo militare, che dovrebbe gestire la transizione verso la democrazia dopo la caduta del dittatore Mubarak, ha dichiarato che le elezioni, previste per settembre, potrebbero essere rimandate di tre mesi. Questo rinvio permetterebbe ad altri partiti di organizzarsi. Perché attualmente gli unici pronti alle urne, organizzati in un partito, radicati sul territorio, sono i radicali islamici affiliati ai Fratelli Musulmani. Il posticipo permetterebbe di rimettere un po’ di ordine al caos: per tutta la settimana, centinaia di migliaia di persone sono tornate a occupare per protesta Piazza Tahrir, simbolo della rivoluzione contro Mubarak. Chiedono giustizia per le vittime della rivoluzione, democrazia subito, trasparenza, un vero cambiamento. Fra loro non ci sono solo integralisti. Anzi, questi ultimi sono in minoranza. Ci sono cittadini di tutte le estrazioni e tendenze. Ma come la pensano i laici che si opporrebbero ai Fratelli Musulmani? Sconcerta l’intervista rilasciata al Washington Times da Ahmed Ezz El Arab, leader del partito “liberale” Wafd (il movimento che per primo si ribellò alla Gran Bretagna nel 1919): secondo questo “laico”, l’11 settembre è una cospirazione ebraica e americana, l’Olocausto non è mai esistito, persino Babilonia è stata saccheggiata e le sue rovine portate a Gerusalemme, sotto la moschea di Al Aqsa, per simulare l’esistenza del Tempio. Se questo è il meglio che il mercato della democrazia in Egitto ci può offrire… intanto uomini armati di esplosivi, che non hanno rivendicato il loro gesto, hanno fatto saltare, per la terza volta da febbraio, il gasdotto del Sinai che collega Egitto e Israele. Un segnale, inequivocabile, che, con lo Stato ebraico, si vuol rompere ogni legame.
In questo incendio c’è chi getta benzina sul fuoco, credendo, per giunta, di farlo in nome della pace. La Freedom Flotilla 2 intendeva forzare il blocco navale israeliano per portare simbolici aiuti alla popolazione (leggasi: al regime di Hamas) a Gaza. La Grecia, che ospitava le dieci navi che la compongono, non l’ha lasciata partire. La Turchia, visti gli esiti della spedizione precedente del 2010 (9 morti) e alle prese con ben altri problemi con la Siria (10mila rifugiati), si è completamente dissociata alla spedizione. Il suo appoggio, evidentemente, era determinante: mancando Ankara, la Freedom Flotilla è rimasta all’ancora. Altri 200 attivisti pro-Palestina che cercavano di arrivare in Israele per via aerea (la “air flotilla”) sono stati fermati sia all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv che al Charles de Gaulle di Parigi.
Ma intanto la propaganda anti-israeliana continua a montare. All’Onu, lo “special rapporteur” del Consiglio dei Diritti Umani, Richard Falk, è stato beccato dall’Ong Un Watch a pubblicare una vignetta antisemita sul suo blog. Esposto lo scandalo, Falk ha dovuto chiedere pubblicamente scusa e la Anti-Defamation League americana ne chiede il licenziamento. Ma la vignetta di Falk, la dea bendata della giustizia che tiene al guinzaglio un cane feroce con la kippah (e il cappottino con la scritta “Usa”), è solo un simbolo alla rovescia. Lungi dal favorire sempre la lobby ebraico-americana, l’Onu si dimostra sempre più una dea bendata pronta a non vedere i crimini dei regimi arabi, a non reagire quando qualcuno li denuncia, ad ammonire Israele se prova a difendersi.