Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza.
Quattro scrittori italiani e l’ebraismo Sergio Parussa
Giorgio Pozzi Editore Euro 15,00
«Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo». Così assicura il popolo d'Israele a Mosè appena sceso dal Sinai con la Torah. Il chiasmo con cui si chiude la frase, quel fare che, contro ogni nostra attesa, precede l'ascoltare, non è certo pura figura retorica né frutto di una svista. Secondo la tradizione ebraica, solo facendo, mettendo in pratica gli insegnamenti e i precetti religiosi, diviene possibile ascoltarli, e cioè comprenderli fino in fondo. La religione è dunque azione e non dogma, esercizio quotidiano, prassi che conduce verso il dominio intellettuale. Per due millenni, il giudaismo rabbinico è restato fedele al primato del fare. "Fare" i comandamenti, e non semplicemente enunciarli discorsivamente, questa è da sempre la via maestra della pietas ebraica.Ma se la religione vien meno, o attenua il proprio dominio sociale, cosa rimane di questo pragmatismo? È possibile trovare tracce dell'inversione tra teoria e azione anche nel giudaismo laico, o nelle identità marginali? E in particolare, cosa succede in letteratura? Sergio Parussa rilegge la parabola creativa di quattro autori italiani di origine ebraica – Umberto Saba, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani e Primo Levi – proprio alla ricerca di una scrittura-gesto, che si compia laicamente come si compiono, in religione, i precetti. Sono nomi di prima grandezza e tutti, in vario grado, partecipi di una lacerazione esistenziale. Certo, le biografie dei quattro solcano il secolo scorso in maniera molto diversa, ma la cesura delle leggi razziali, della discriminazione, della persecuzione e del nascondimento è per tutti evidente e dolorosa. Allo stesso tempo, in ciascuno, v'è molto altro, che non si lascia ridurre a un comune denominatore. Tra Saba, che si avvicinò in tarda età al cattolicesimo, e Primo Levi, testimone di Auschwitz, oppure tra la Ginzburg, col suo impegno nel Pci e Bassani, prima vicino al Psi e poi ai repubblicani, passano inconciliabili idiosincrasie, politiche, intellettuali, e di stile. Eppure è innegabile che, per tutti, l'ebraicità costituisca una sorta di reagente, un elemento che genera scrittura, un fermento d'inquietudine, di negazione, di spaesamento o, al contrario, di redenzione del destino individuale e collettivo.È celebre la definizione che Levi diede del proprio essere ebreo: «Sono io l'impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape». E proprio questo predicato di "impurezza", d'ibridazione è secondo Parussa, un primo fattore di gestualità letteraria. Appartenenza italiana ed ebraica si fondono e si scindono, in questi scrittori, in maniera instabile. Qualche volta gli slittamenti espressivi sono in negativo, come in Saba, che afferma di diventare antisemita quando legge «i poeti greci. Perché sono gli ebrei che hanno spanto per il mondo "il senso della colpa" e che, soprattutto, hanno buttato il malocchio sull'amore». Può accadere invece che il giudaismo sia un polo conflittuale, di appartenenza e di distacco. Così la Ginzburg confessa: «Io sono diventata comunista e ... mah, io adesso mi sento ebrea e cattolica, tutt'e due». Molto più complessa è la funzione del fato biografico nei personaggi di Bassani, impegnati a dipanare, sullo sfondo di una Ferrara intorpidita, la domanda che si affaccia quasi innocente nel Giardino dei Finzi-Contini: «Che fossimo ebrei ... e iscritti nei registri della stessa Comunità israelitica, nel caso nostro contava ancora abbastanza poco. Giacché cosa mai significa la parola "ebreo" in fondo?». Ma che l'ebraismo serva per modellare un passato a un tempo nostalgico e oppressivo, come in Bassani, o valga come veicolo di un itinerario verso la propria umanità, come per Primo Levi, che si definiva «un esempio tipico di ebreo di ritorno», il sentirsi contemporaneamente uguale e diverso influenza la scrittura, quasi si trattasse di un'azione preverbale, che determina misteriosamente il dire ancora prima che questo affiori sulla pagina. Accanto a questa contaminazione tra identità fluide, Parussa estrae, dalla compagine rituale del giudaismo, una seconda componente gestuale della scrittura, ovvero la capacità di trasformare la parola in memoria-salvezza. È questa una facoltà di diretta ascendenza religiosa, giacché il precetto del ricordo è, assieme a quello dell'osservanza,cardine del giudaismo biblico e rabbinico. Come il rito trasforma l'evento storico in principio di coesione collettiva e ne proietta il significato nel futuro, così, nel rituale laico del narrare, il dovere-diritto a ricordare il lutto della persecuzione può acquistare valore salvifico. «Mi sento profondamente ebrea perché gli ebrei sono stati sterminati», enuncia per esempio la Ginzburg, mentre Levi ci ha lasciato, nello Shemà di Se questo è un uomo, un paradigma di risacralizzazione del dovere storico della testimonianza, del «Meditate che questo è stato». Anche se l'ordine religioso è stato indebolito o del tutto infranto, la lunga abitudine alla devozione come prassi si travasa insomma nella letteratura, e ammaestra la parola, educandola a farsi gesto per essere ascoltata e compresa.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore