Occorre soffermarsi a guardare qualche istante il volto di Jilad Shalit per capire la tragedia umana individuale di questo giovane, del suo papà e della sua mamma. A questi si è aggiunta una grande famiglia, la nazione di Israele, che, come sempre, abbraccia collettivamente i suoi ragazzi più sfortunati e, nel tempo, si sono uniti anche coloro che, pur non appartenendo al popolo israeliano o alle comunità ebraiche, ma semplicemente come padri, madri, fratelli o sorelle in generale, sentono nel modo più profondo il dolore e l’ingiustizia di un abuso perpetrato contro questo giovane soldato rapito il 25 giugno 2006, oltre 5 anni fa, da gruppi di miliziani palestinesi e imprigionato in un luogo segretissimo da Hamas. Ne’ Croce Rossa, né ambasciatori, né ministri degli esteri, né medici hanno mai potuto visitare il ragazzo. Sarebbe stato di conforto persino avere un riscontro del suo stato anche da qualche pacifista di sinistra, da Massimo D’Alema, dall’ex Presidente brasiliano Lula o da qualche altro che possa essere sopra ogni sospetto per i miliziani di Hamas. Nulla di tutto questo. Nessuna prova che Jilad sia ancora in vita, o meglio che sopravviva, è stata fornita dai terroristi palestinesi negli ultimi due anni e, da quando è stato catturato, ossia da oltre cinque anni, mai nessun uomo l’ha potuto vedere o incontrare ad eccezione dei suoi carcerieri che, appunto non umani, dimostrano ogni giorno di essere come i nazisti di Hitler. I palestinesi potranno iniziare a parlare veramente di pace solo quando inizieranno ad amare i propri figli più di quanto odino i figli degli israeliani.