Muhammar Gheddafi, tra panarabismo e odio per Israele ritratto del dittatore libico di Carlo Panella
Testata: Il Foglio Data: 21 giugno 2011 Pagina: 4 Autore: Carlo Panella Titolo: «Gheddafi il beduino»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/06/2011, a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Gheddafi il beduino ".
Muhammar Gheddafi, Carlo Panella
Colonnello, come conciliate un simile disprezzo per il mondo occidentale e gli affari che fate con i suoi maggiori esponenti, con Gianni Agnelli, ad esempio?”. “Gianni chi?”, risponde stupito il rais. “Gianni Agnelli, il presidente della Fiat”. “La Fiat? La mia azienda, my company!”. Con questi pochi tratti di penna Oriana Fallaci ha scritto il miglior ritratto di Muammar Gheddafi, quando lo intervistò il 2 dicembre del 1979. Tutto è “mio” per il dittatore di Tripoli, che poco si interessa ai particolari, anche se sono della statura di Gianni Agnelli. L’iperego del rais non ha soltanto componenti di natura caratteriale, ma anche di matrice etnica. Perché tutto, dall’inizio alla fine, nella vita di Muammar Gheddafi è marcato da una concezione beduina e tribale non soltanto del suo paese, ma del mondo intero. Al colonnello non poteva neanche passare per la testa che la Fiat, pagata con i fondi sovrani dello stato libico, non fosse la “sua” fabbrica, di proprietà personale, come tutto quanto toccava e muoveva. Le guerre (anche quella che avrebbe voluto dichiarare alla Svizzera, colpevole di avergli maltrattato un figlio capriccioso), gli affari, i commerci, la diplomazia, il terrorismo dal 1969 a oggi sono stati monopolizzati dalla concezione beduina di Muammar Gheddafi. La tenda beduina che il rais piantava dappertutto nelle sue visite di stato, fosse villa Doria Pamphilj o nel giardino di Palais Marigny, adiacente all’Eliseo, è stato il suo rivendicato ed efficace simbolo-feticcio. Gheddafi non ha mai aspirato a essere e ad agire come un capo di stato (concetto che gli è sempre stato estraneo), men che meno come un leader politico o religioso, o come l’amministratore di una immensa ricchezza in petrodollari. Tutte queste funzioni si riassumevano, confusamente, come confuso fu il suo Libro verde, nel fatto di essere il rais, il capo della tribù più potente del suo paese, che doveva dominare, con le buone o con le brutte, le tribù concorrenti con un reticolo di alleanze, tradimenti, matrimoni, trappole e furbizie tese a mantenere la loro sottomissione. A partire dal millenario punto di forza dei leader beduini: il controllo dei pozzi. Un tempo di acqua, ora di petrolio. Con una estraneità totale, nativa, culturale, per tutto quanto obbligasse a “lavorare la terra”, a impiantare opifici e fabbriche. Il suolo, per un beduino, va dominato soltanto per quel che danno le sue viscere. Al meglio. Null’altro. Il tutto immerso in un elemento di mistero, nel quale si nasconde la risposta al clamoroso errore sulla sua resistenza (e sulla sua capacità di sfuggire al killeraggio missilistico) compiuto dalla coalizione voluta da Nicolas Sarkozy, David Cameron e Barack Obama. Il mistero riguarda la struttura decisionale, il funzionamento di un quadro di comando libico che ha sempre dimostrato di essere in grado di fare fronte a una serie complessissima di operazioni. Si guardi al cruciale biennio 1975-1977 e si vedrà come il colonnello, con una struttura di potere assolutamente monocratica, è riuscito contemporaneamente a condurre due guerre (Ciad e Egitto), acquistare la quota di minoranza nella Fiat, dirigere il rapimento dei ministri Opec a Vienna e infine a delineare la nuova ideologia del regime, lanciando con una grande operazione mediatica il suo confuso Libro verde. Il tutto avviando complesse trame terroristiche, vuoi con Abdu Nidal e Settembre Nero (in raccordo con la Stasi della Ddr), vuoi finanziando la Rote Armee Fraktion, la Eta basca e l’Ira irlandese. Una mole poderosa e intricata di iniziative e dossier, gestiti tutti attraverso il Diwan della “tenda beduina”, che ne ha garantito, oltre ogni analisi e aspettativa, la sopravvivenza, nonostante più di tremila operazioni della Nato. La vita di Muammar Gheddafi, nato a Sirte il 7 giugno 1942, fu segnata, secondo gli agiografi libici, da un episodio drammatico, ovviamente impossibile da verificare: mentre giocava con due cugini esplose una mina – forse italiana, forse inglese – che straziò i due parenti e lo ferì a un braccio. Se vero, l’episodio potrebbe spiegare alcune cose. La sua formazione scolastica fu affidata alla madrassa di Sirte, in cui fu preso dall’entusiasmo per il vento che allora percorreva tutto il Maghreb: il panarabismo di Gamal Abdel Nasser, suo punto di riferimento forte, per alcuni anni a venire. Iscritto all’Accademia militare di Bengasi, si specializzò in Gran Bretagna (dove apprese discretamente l’inglese, che però ha sempre finto di ignorare in tutte le visite ufficiali, così come l’italiano, peraltro). Molti analisti – non senza ragione – considerano questa specializzazione all’estero come prova certa dei legami del futuro rais con i servizi segreti inglesi, che avranno un ruolo determinante nel golpe del 1969. A 27 anni fu capitano dell’esercito e subito entrò in contatto con un gruppo di giovani ufficiali che – su sollecitazione discreta vuoi dei servizi inglesi, vuoi del Sid italiano – il 26 agosto 1969 organizzò un incruento colpo di stato contro il re Idris. Sono evidenti le ragioni che spinsero inglesi e italiani – saldamente già radicati in Libia con i loro impianti estrattivi – a cercare un interlocutore meno vacuo e assenteista (e per di più odiato dai tripolitani, perché membro di una dinastia della Cirenaica) al timone della Libia. Erano fortissime anche le ragioni che motivarono i giovani ufficiali, scandalizzati per la decisione di re Idris di non partecipare alla guerra contro Israele del 1967 – in un paese che reagì alla sconfitta dando vita a pogrom sanguinosi contro la storica comunità ebraica. Il golpe riuscì senza spargimenti di sangue. Gheddafi si mise subito al comando, a fianco di Abdessalam Jallud – suo braccio destro sino al 1993, quando cadde in disgrazia – e di Abdel Fattah Younis al Obeidi, che, dopo anni spesi a occuparsi della repressione interna, oggi comanda gli insorti di Bengasi (appartiene alla tribù degli Harabi della Cirenaica, alla testa della ribellione). Il colpo di stato fu accolto con indifferenza nelle cancellerie europee e salutato con simpatia dalla sinistra comunista, Pci in testa, in quegli anni convinta – su impulso sovietico – che il nasserismo di cui Gheddafi fu inizialmente alfiere fosse il massimo del “progresso”, la punta di diamante del “fronte antimperialista”, in un contesto in cui Israele era definito “quinta colonna dell’imperialismo americano” e i palestinesi ricoprivano il ruolo di vietcong. La matrice panaraba e quindi ferocemente antiisraeliana (e antisemita) del giovane colonnello fu indubbiamente determinante nella sua ascesa, ma si rivelò di breve durata. L’unificazione tra Libia, Egitto e Siria, che Gheddafi proclamò solennemente nel 1972, non fu mai realizzata a causa della assoluta nebulosità del progetto e della totale diffidenza di Anwar el Sadat, che da allora in poi definì il rais “quel pazzo di Tripoli”. Identica sorte ebbe il tentativo concordato l’8 gennaio del 1974, da Gheddafi e dal tunisino Bourghiba, che, dopo un incontro improvviso in un hotel di Djerba, annunciarono la fusione dei due stati e la nascita della Repubblica arabo islamica che univa Libia e Tunisia. Il progetto, finito rapidamente nel dimenticatoio, non è mai decollato. Sono due fallimenti che giocheranno un ruolo esiziale sul futuro economico dell’Africa mediterranea. L’impostazione tutta ideologica e verticistica del panarabismo, sommata alla superbia personale dei dittatori, fece fallire le fantasiose unificazioni statali e creò strascichi polemici e diffidenze (anche guerre, come vedremo) tra i paesi nordafricani. Ne conseguì una politica di frontiere chiuse e la totale assenza di relazioni economiche, investimenti reciproci, commerci, creazione di infrastrutture comuni che – come è avvenuto in Europa – grazie alla formidabile possibilità di finanziamento da petrolio, avrebbe potuto trasformare questi paesi in una potente area di sviluppo, invece che in quella riserva di sottosviluppo cui sono ridotti oggi (Libia inclusa). Da subito, il nuovo regime lasciò trapelare il tratto più profondo, istintivo, innegabile del nuovo rais: la ferocia. Innanzitutto e sempre nei confronti del suo stesso popolo, con le centinaia di impiccati senza processo (anche per aver fischiato Saadi, il figlio calciatore di Gheddafi, allo stadio), con la negazione di qualsiasi spazio di libertà, con la persecuzione (omicidi mirati e torture incluse) dei suoi potenziali avversari, con la negazione della pur minima libertà di stampa e di pensiero e anche con episodi grotteschi, come quello dell’imprigionamento per ben otto anni e della successiva condanna a morte di sei infermiere bulgare, liberate nel luglio 2007, accusate di avere volutamente infettato di Aids alcuni pazienti. Ferocia dispiegata con incredibile fantasia e attivismo sul piano esterno, a partire dall’odio fanatico, con chiare venature di antisemitismo, per Israele, stella polare della sua politica estera. Odio che si è concretizzato – dato indicativo della strategia gheddafiana – nel finanziamento delle organizzazioni terroriste più spregiudicate e sanguinarie e mai – neanche nel 1973 – nel contrasto militare in campo aperto. Odio che ha scavato anche un ulteriore abisso nei confronti della leadership dell’Arabia Saudita (già motivato dai legami religiosi dei wahabiti con la Senussiyya, la confraternita della Cirenaica, legata a re Idris e centro delle attività secessionistiche di Bengasi), accusata per la sua alleanza con gli Stati Uniti e per lo stesso piano di pace con Israele propugnato da re Fahad. Gheddafi è stato dunque essenzialmente un uomo capace e straordinariamente feroce, che si è circondato di uomini feroci. Lo dimostrò nel modo con cui saldò i conti con l’Italia: nel momento stesso in cui siglava contratti faraonici con l’Eni, Gheddafi emise, il 21 luglio 1970, un decreto di confisca di tutti i beni – inclusi i contratti Inps – dei 20 mila italiani residenti in Libia e li espulse in massa, imponendo la data limite per la fuga del 15 ottobre del ’70. La decisione del rais è in linea con la sua feroce furbizia beduina: non colpì affatto l’Italia, con cui anzi intrattenne fruttuosi affari, ma depredò tutti gli italiani che aveva sottomano. Pratica, peraltro, “copiata” dal mentore Nasser, che nel ’56 aveva fatto una mossa simile, ma in modo più sottile, nazionalizzando tutte le imprese e le attività degli stranieri, italiani in testa. Stesso esito per questa diaspora forzata dei nostri connazionali: la rovina e la chiusura della rete di piccole industrie, aziende agricole moderne, attività artigianali meccanizzate impiantate dagli italiani che, nazionalizzate o confiscate, nel giro di pochi mesi andarono in rovina con un immenso danno economico per l’Egitto, come per la Libia. Naturalmente, la Libia di Gheddafi nazionalizzò anche le proprietà petrolifere straniere, ma non destò stupore, perché il fenomeno coinvolgeva in quei primi anni 70 tutti i paesi produttori e fu subito assorbito con una rapida trattativa che elargiva alle società petrolifere concessioni redditizie (scelta imposta anche dal fatto che nessun paese produttore aveva la minima intenzione di investire i profitti da petrolio nei costosissimi impianti di estrazione, trasporto e raffinazione).
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