Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 20/06/2011, a pag. 37, l'intervista di Francesca Paci a Madawi al Rasheed dal titolo "Arabia Saudita, il Paese delle rivolte impossibili".
Madawi al Rasheed, il re dell'Arabia Saudita
Ci sono le donne, certo. Ma secondo la saudita Madawi al Rasheed, docente di teologia e studi religiosi al King’s College di Londra, la differenza tra il suo Paese e il resto del Maghreb e del Medio Oriente oltrepassa la questione femminile e la immunizza in qualche modo dall’attuale vento di rivolta. Al Rasheed, che oggi interviene a Venezia alla Fondazione Oasis diretta dal cardinale Scola, esclude un cambiamento in tempi brevi.
Iniziamo dalle donne. Qual è il bilancio di questo venerdì della rabbia sui generis, in cui le donne saudite si sono messe al volante per protestare contro la rigidità dell’unico Paese al mondo che impedisce loro di guidare? Sembra che la polizia abbia chiuso un occhio.
«Alcune donne hanno guidato a Riad, Jedda, nell’Est del Paese e per ora sembra che nessuna sia stata arrestata. Buono. Alla fine riusciranno a ottenere la patente, ma voglio chiarire che non si tratta di un movimento di massa e che il problema è politico anziché religioso. L’Arabia Saudita non ha elezioni democratiche, non ha trasparenza, le carceri sono piene di detenuti di coscienza, il re è anziano e la successione è un inquietante punto interrogativo, ma chi lo denuncia? Allo sbocciare della primavera araba un gruppo di riformisti sauditi ha chiesto tre volte alla famiglia reale una svolta costituzionale senza avere risposta. Eppure all’estero si parla solo delle donne al volante. Temo che sia un tema comodo al regime per distogliere l’attenzione da altro».
Ha citato la monarchia costituzionale, quella annunciata venerdì dal re del Marocco. Potrebbe accadere anche in Arabia Saudita?
«Siamo molto diversi. In Marocco c’è una società civile, partiti politici, sindacati, la gente è libera di organizzarsi. E nel XX secolo la popolazione si è più volte confrontata con la monarchia. In Arabia Saudita non esiste nulla di simile, anche perché c’è il petrolio e il re può assorbire la protesta comprando il consenso e barattando la democrazia con le prebende».
I sauditi vogliono davvero la democrazia o, come ritiene qualcuno, restano troppo conservatori?
«Il Paese è conservatore, certo. Ma il punto è che il regime paga. Molti ricevono benefici, per questo non ambiscono alla trasparenza. Anche i gruppi religiosi radicali approfittano della munificenza del re per ingrassare la loro burocrazia, hanno un rapporto medievale con la Corona. Questa è la vera ragione del disinteresse per il cambiamento».
Chi sono i riformisti sauditi?
«Un ridotto gruppo di professionisti, intellettuali e accademici che non ha grande influenza anche perché non dispone degli strumenti comunicativi dei religiosi. In Arabia Saudita se scrivi di riforme su Facebook finisci in prigione e ci resti dai 10 giorni ai 10 anni. All’inizio del 2011, nel pieno del risveglio arabo, il governo ha arrestato 160 persone in un solo mese. Comunque i riformisti non chiedono la fine della monarchia ma un cambiamento in senso costituzionale, rispettano il re, e se la prendono con il ministro dell’Interno, il principe Nayef, responsabile della sicurezza. La possibilità che essendo terzo in linea di successione Nayef possa un giorno salire al trono fa paura. D’altra parte chi chiede il cambio di regime dura poco: il neonato Salafi Islamic Ummah Party che ci ha provato ha già 5 dei suoi fondatori in cella».
Il consenso di cui sembra godere «artificialmente» il re saudita tra la classe media ricorda la Siria. È così?
«La differenza è ancora il petrolio. Anche in Siria la classe media ha approfittato delle riforme economiche del regime e ora fa quadrato, ma da noi il re tiene in pugno un intero popolo con la burocrazia e il settore pubblico. Il solo ministero dell’Interno ha 800 mila dipendenti, pensare il resto. In questo modo la monarchia crea artificialmente lavoro e consenso. Ufficialmente la disoccupazione è all’11%, ma chi se ne cura? Ognuno dei 120 mila studenti sauditi all’estero riceve dal governo 1800 sterline al mese: perché mai dovrebbe protestare, a Londra o quando torna nella patria dove può vivere bene?».
Non c’è dunque alcuna possibilità di cambiamento nel suo Paese?
«I sauditi devono decidere se accontentarsi del ticket benessere-repressione o ambire alla libertà. Non credo che succederà molto nel breve termine, nessuna rivoluzione. Il problema si porrà alla scomparsa di questa generazione di reali, il futuro è incerto. Qualcuno di loro, come il principe Talal, parla ogni tanto dell’urgenza di un parlamento regolarmente eletto, ma per ora è tutto fermo».
Che peso hanno i nuovi media, così vitali per la primavera araba?
«Sono strumenti di collegamento importantissimi ma da soli non fanno la rivoluzione, servono le persone. In Egitto oltre a piazza Tahrir c’erano i lavoratori in sciopero a Suez. L’Arabia Saudita invece ha 2,3 milioni di iscritti a Facebook e migliaia di loro sostengono la protesta delle donne al volante, ma alla fine in piazza c’erano solo 50 automobiliste. I nuovi media vanno presi con le pinze: possono avere un ruolo catartico facendoti sentire che stai facendo chissà cosa, mentre sei solo seduto alla tua scrivania».
Come vede il suo Paese nel 2020?
«È difficile. Ci sono tante carte sul tavolo, la politica saudita non è nazionale ma tribale. C’è il tema del Bahrein, c’è la comunità sciita molto attiva ma repressa, c’è Al Qaeda che per ora è stata respinta in Yemen ma è tutt’altro che morta. Infine ci sono gli islamisti a cui per ora il regime fa comodo, ma poi chissà: se fossero loro a convocare una manifestazione, l’adesione sarebbe diversa. Al momento tutti hanno interesse allo status quo anche per paura dell’intervento straniero: se oggi l’America lascia perdere la Siria perché non minaccia direttamente Israele, resterebbe a guardare nel caso di una rivoluzione nella terra del petrolio? Questo è già un deterrente sufficiente alla rivolta».
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