Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/06/2011, a pag. 17, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Addio a Elena la battagliera, l’altra metà di Sakharov". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Giulietto Chiesa dal titolo " E Gorbaciov sussurrò: è molto più della sua metà ".
Impeccabile l'articolo di Sergio Romano sulla storia di Elena Bonner e suo marito Andrej Sakharov. Sembra di reincontrare il Romano di prima della "Lettera a un amico ebreo", che segnò la svolta di Romano da 'pro' a 'anti', un destino purtroppo comune a molti che iniziano in un modo equilibrato il loro rapporto con Israele, per continuarlo poi da oppositori. In questo pezzo c'è il miglior Romano, ambasciatore di grande livello, che racconta esattamente quello che vide quando era a Mosca.
Stupisce la scelta della Stampa di affidare il ricordo di Elena Bonner a Giulietto Chiea, stalinista convinto e alla testa del movimento complottista sull'attentato delle Torri Gemelle, una posizione che avrebbe dovuto screditarlo di fronte a qualsiasi direzione seria di un quotidiano. Possibile affidare la storia di Elena Bonner, ebrea, antistalinista a un filosovietico dello stampo di Chiesa il quale vide dietro l'attentato dell'11/09 la lobby ebraica ?
Da buon stalinista, Chiesa è abile nel ridisegnare gli avvenimenti dell'URSS, persino la persecuzione di Sacharov diventa "esilio", persino il misero stabile nel quale i Sacharov vivevano alla periferia di Mosca, per Chiesa diventa un palazzo con " un portone dignitoso, come quelli che spettavano a un modesto professore universitario",non scrive che spesso non funzionava persino il riscaldamento, per cui le mani di Sacharov erano d'inverno regolarmente coperte di geloni, e le quattro stanze, dove l'unica ricchezza erano i libri, mentre mancavano di tutto il resto.
Chiesa si stupisce poi di essere stato ricevuto addirittura con cordialità, ha ragione a stupirsi, per uno che ha amato e tuttora è un fanatico stalinista, è normale stupirsi quando incontra qualcuno che vive con altri valori.
Quei valori che spingono persino un giornale come la STAMPA a chiedere a lui di scrivere in morte di Elena Bonner Sacharov.
E' vero, i cattivi maestri se la passano bene nei paesi democratici capitalisti, hanno capito, lui e tutti gli altri, che le economie di mercato hanno bisogno, per sentirsi accettate, di riverire i nemici che ne predicano la distruzione. Nell'attesa che arrivi, ne godono di tutti i benefici possibili.
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Sergio Romano: "Addio a Elena la battagliera, l’altra metà di Sakharov"
Elena Bonner, Andrej Sakharov
Nel suo vecchio appartamento moscovita di via Chkalov, riconquistato dopo il lungo esilio di Gorkij (ora, come prima della rivoluzione, Nizhnij Novgorod), Andrej Sakharov era cordiale, ma schivo, taciturno e poco incline a parlare di se stesso. Elena Bonner era esattamente il contrario: polemica, ironica, pronta a cogliere qualsiasi occasione per parlare delle sue battaglie e difendere coloro di cui aveva assunto la protezione. Credo che nella sua vita non abbia mai smesso di combattere. Aveva quattordici anni nel 1937 quando il padre, funzionario del Komintern, fu arrestato e la madre venne rinchiusa in un gulag. Dovette battersi per completare gli studi, per essere arruolata come infermiera durante la Seconda guerra mondiale, per fare una modesta carriera negli ospedali sovietici, per ottenere la riabilitazione dei genitori dopo la morte di Stalin, per curare gli occhi malati, per ottenere dal Kgb la documentazione da cui avrebbe appreso che il padre era stato fucilato nel 1938. Apparteneva a una famiglia ebrea e armena che aveva creduto nella rivoluzione e servito lealmente lo Stato sovietico. Nei corridoi dell’Hotel Lux di Mosca aveva visto l’aristocrazia della Terza Internazionale. Quando cominciò a difendere i dissidenti, negli anni Sessanta, lo fece con lo stile di quei nobili a cui tutto può essere tolto fuorché l’orgoglio della propria stirpe e il diritto di parlare. L’incontro con Sakharov avvenne nel 1970, nelle aule di un tribunale dove entrambi, ormai divorziati da qualche anno, difendevano con la loro presenza un militante dei diritti umani accusato di crimini contro lo Stato. Fu una delle loro prime battaglie giudiziarie. Sakharov era ancora un grande scienziato, noto e rispettato per il suo ruolo nella costruzione della bomba a idrogeno, ma era stato radiato dall’Istituto di fisica dell’Accademia delle scienze e si era oramai interamente dedicato, con grande imbarazzo del regime, alla denuncia delle malefatte sovietiche. Dopo il loro matrimonio nel 1972 divennero una coppia formidabile e, per le autorità sovietiche, un continuo grattacapo. Il regime impedì a Sakharov di andare a Stoccolma, nel 1975, per ritirare il Nobel per la pace, ma permise che Elena lo rappresentasse. Negò alla figlia di Elena il permesso di uscire dal Paese per raggiungere il marito emigrato negli Stati Uniti, ma quando i due Sakharov proclamarono lo sciopero della fame, il regime finì per cedere. La fine dell’esilio fu annunciata da un episodio che sembra uscito dalla fantasia di Gogol. Erano stati privati del telefono per impedire qualsiasi contatto esterno, ma un giorno, nel dicembre del 1986, suonò alla loro porta un tecnico che aveva con sé un apparecchio telefonico e l’ordine d’installarlo. Il giorno dopo il telefono squillò. Era Mikhail Gorbaciov che comunicava ad Andrej Sacharov il diritto di rientrare a Mosca. Quando Elena Bonner mi raccontò la storia della liberazione, i suoi poveri occhi opachi (era stata operata più volte anche in Italia) avevano un divertente luccichio ironico. Da allora divenne irrefrenabile. Quando veniva all’ambasciata d’Italia non perdeva l’occasione per parlare di diritti umani e civili. Andrej, nel frattempo, la guardava sorridendo e cercava bonariamente di calmarla. Dopo la morte di Sakharov nel dicembre 1989, Elena reagì con altre battaglie, altri viaggi e un forte impegno per Memorial, l’associazione che i due coniugi avevano contribuito a fondare per restituire ai russi il loro passato. Difese Boris Eltsin durante il putsch del 1991 e la crisi del 1993, seguì attentamente la sorte dei suoi armeni durante la guerra con l’Azerbaigian per il Nagorno Karabach (un’enclave armena in territorio azero) a continuò a scrivere, dare interviste, lanciare proposte e proclami. Fino a quando l’età e gli acciacchi non la costrinsero a trovare rifugio nella casa della figlia, in America, dove è morta all’età di 88 anni dopo una vita interamente spesa in battaglie politiche e civili.
La STAMPA - Giulietto Chiesa : " E Gorbaciov sussurrò: È molto più della sua metà "
Giulietto Chiesa
L’ ultima volta che la vidi fu sei anni fa, a Torino. Il Forum della Politica Mondiale aveva organizzato un grande incontro internazionale sui 20 anni della perestrojka. Mikhail Gorbaciov, che quel Forum presiedeva, aveva curato personalmente la lista degli oratori e degl’invitati, cioè di coloro che riteneva doveroso chiamare a ricordare un grande momento di cui erano stati testimoni. In qualche caso protagonisti.
Voleva che ci fossero tutti, amici naturalmente, ma anche nemici, coloro che lo avevano aiutato e coloro che lo avevano tradito.
Era stato proprio Gorbaciov a proporre di includere Elena Bonner tra le personalità invitate. Ne fui sorpreso perché tra Elena Georgievna e Gorbaciov non era mai corso buon sangue. Lei, anticomunista irriducibile, combattente da una vita per i diritti umani, era stata, tra gl’intellettuali filo-occidentali, nella schiera di coloro che fino all’ultimo, fino alla caduta di Gorbaciov, avevano ritenuto non sincero, non affidabile un leader che guidava il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Semplicemente non gli credevano, ritenevano impossibile che, da quell’apparato, anzi dal suo vertice supremo, potesse venire qualche cosa di buono.
Lei non gli credeva. Non gli credette nemmeno quando il nuovo segretario generale del Pcus, meno d’un anno dopo essere salito alla carica, nel 1986, scambiò con Andrei Sacharov una corrispondenza rispettosa e definitiva e lo fece tornare a Mosca dal lungo esilio in cui era stato costretto.
Gorbaciov sapeva di questa inimicizia e sapeva che non sarebbe mai stata superata. Lo sapeva lui anche perché di questa inimicizia gli veniva riferito da Nikolai Kriuchkov, allora capo del Kgb e, in seguito, il vero numero uno del golpe di agosto del 1991.
Spesso era stata lei, Elena Georgievna, a spingere il marito verso posizioni sempre più radicali, fino alla rottura quasi totale con quel Gorbaciov che lo aveva fatto tornare con tutti gli onori dall’esilio di Gorkij, che gli era stato comminato da Leonid Breznev per avere criticato con la massima durezza l’intervento sovietico in Afghanistan.
Dopo Breznev era arrivato Jurij Andropov, poi Konstantin Cernenko e Sacharov era rimasto in quel di Gorkij (oggi Nizhnij Novgorod) senza comunicazioni con l’esterno. Era città chiusa agli stranieri e Elena Georgievna faceva la spola tra l’esilio del marito (un piccolo appartamento di tre stanze in un quartiere popolare, al primo piano) e Mosca, dove l’aspettavano i giornalisti occidentali per riferire al mondo le parole di un Sacharov che non taceva.
Ma Gorbaciov guardava dall’alto di chi ha già salito i gradini della storia. «Andrei Dmitrievic non c’è più ma Elena Georgievna era molto più della sua metà, quando lui era in vita, ed è dunque giusto che ci sia a celebrare la perestrojka», disse con un sorrisetto, strizzando gli occhi come fa di solito quando è sicuro di avere ragione. La vera questione era se Elena Bonner avrebbe accettato quell’invito. A suo modo era una verifica interessante. Gorbaciov disse: «Verrà, quando avrà visto la lista degl’invitati». E, infatti, venne, e parlò. E, tra la sorpresa generale, rese, per così dire, l’onore delle armi all’ex nemico in un discorso quasi affettuoso. La ricordo, in una pausa dei lavori, in un momento che, sfortunatamente, nessuno dei fotografi e dei cineoperatori riuscì a fissare. Lei, Gorbaciov e Andrei Sharanskij.
Andrei Sacharov era morto da qualche anno e Elena aveva preso in mano le redini di quella che sarebbe diventata una fondazione: il luogo della sua memoria politica e, soprattutto, morale. Sacharov era stato un genio della fisica, a cui l’Unione Sovietica era debitrice di tutti i più importanti sviluppi della «bomba», di quella atomica, s’intende, cioè della «parità strategica» di cui proprio Leonid Breznev era divenuto il padre politico. Poteva essere represso in un solo modo, esiliandolo. Se non ci fosse stata lei sarebbero riusciti a renderlo muto. Se non ci fosse stato Gorbaciov, Andrei Sacharov non sarebbe diventato membro del Parlamento Sovietico, con un sistema elettorale così lambiccato e stravagante che sembrava fatto apposta affinché l’Accademia delle Scienze dell’Urss potesse eleggere Sacharov.
Dietro di lui, attimo per attimo, a sostenerlo, a guidare i suoi incontri, a preparargli l’agenda, a suggerirgli ogni mossa, c’era Elena, alias Lusik Alikhanova. L’aveva sposato, in seconde nozze, nel 1972, quando lui era ancora nell’ombra politica, ma era da tempo nell’empireo della fisica mondiale. Con lei Andrei Dmitrievic fece il grande salto dalla scienza alla politica. Nel 1975 fu Elena ad andare a Oslo a ritirare per conto del marito, prigioniero della sua scienza «sovietica», il Premio Nobel per la Pace.
Fu lei - questo il mio primo ricordo di Elena Bonner - ad aprirci la porta dell’appartamentino in cui vivevano, nella via Chkalova, sul Sadovoe Kolzo, non lontano dalla stazione Kurkskaja, in quello stesso giorno del suo ritorno da Gorkij. Eravamo in due. Io, allora corrispondente da Mosca per L’Unità , e con me Fiammetta Cucurnia, corrispondente della Repubblica . Eravamo andati alla stazione Jaroslavskaja, per aspettare quel treno che lo avrebbe restituito a una vita che non sarebbe più stata normale, né per lui né per nessuno di noi. Alla stazione c’era una folla di giornalisti di quella che avremmo visto nelle grandi occasioni degli anni successivi. Non c’era, sulla banchina, un centimetro quadrato disponibile. Le telecamere erano già diventate aggressive come cani rabbiosi. Tutti volevano una dichiarazione, ma Andrei Dmitrievic non si fermò, non disse molto, sorrideva come un bambino di fronte a un assalto che sembrava coglierlo di sorpresa.
Noi - ancora adesso non so capacitarmi del colpo di fortuna, anzi dei diversi colpi di fortuna che ci capitarono quella mattina - sgattaiolammo fuori dalla calca infernale e corremmo in via Chkalova dove, qualcuno ci aveva detto, forse sarebbe andato Andrei Sacharov. Ma era una scommessa. Ufficiosamente era stato detto che non avrebbe fatto dichiarazioni.
Salimmo sull’ascensore di un portone dignitoso, come quelli che spettavano a un modesto professore universitario. Con l’idea che non avremmo trovato nessuno. Invece Elena Bonner venne ad aprire. Io pensavo che, se le avessi detto che ero corrispondente di un giornale comunista, mi avrebbe sbattuto la porta in faccia. Invece non lo fece. Si spostò di lato e fece cenno di entrare. Seduto in poltrona, nella stanza attigua all’ingresso, Andrei Dmitrievic sembrava assorto. Entrammo, eravamo solo noi due, ed eravamo i primi. Così incontrai, per la prima volta, Andrei Sacharov e Elena Bonner. In casa loro.
Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti