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La Stampa Rassegna Stampa
19.06.2011 Bob Dylan domani in Israele
La cronaca, colta ed emozionata, di Aldo Baquis

Testata: La Stampa
Data: 19 giugno 2011
Pagina: 19
Autore: Aldo Baquis
Titolo: «In Israele tutti pazzi per l'ebreo errante Dylan»

Sulla STAMPA di oggi, 19/06/2011, a pag.19, con il titolo " In Israele tutti pazzi per l'ebreo errante Dylan " Aldo Baquis è l'unico giornalista ad inviare una corrispondenza sul concerto che domani Bob Dylan terrà in Israele, e lo fa con una cronaca piena di emozione, in un pezzo molto bello, che tocca le corde del cuore di chi scrive queste righe. E' vero che le corde vocali  di Bob Dylan se ne erano già andate negli anni '80, ma, come Baquis scrive alla fine del suo pezzo, «Il mondo si divide fra quanti amano Dylan e quanti non lo amano. E fra quanti non lo amano, io personalmente non ho mai trovato alcuno con cui valesse la pena parlare». Siamo d'accordo, noi che continuiamo ad ascoltare le sue vecchie, originali registrizioni, come facciamo spesso con Simon & Garfunkel, perchè per i poeti il tramonto non esiste.
Ecco l'articolo:

Nella torrida estate del 1971 l’assemblea generale del kibbutz di Neve’ Eitan fu convocata per esprimersi sulla richiesta di un cantante americano che andava allora per la maggiore di essere ammesso come membro a tempo pieno. Le cronache raccontano che all’idea di trovarsi all’improvviso l’ingombrante Bob Dylan nella sala pranzo collettiva, quei pionieri storsero la bocca. Ne sarebbe andato della loro tranquillità. Il loro pacato ordine sociale, temevano, sarebbe stato sconvolto. Accadde così che Bob Dylan, ossia Robert Zimmerman, ossia Shabtay Zissel ben Avraham, fu respinto.

Svanita l’opportunità di dedicarsi alla semina dei campi nell’alta valle del Giordano, non gli restò che scrivere ballate che avrebbero fatto epoca e vagare per il mondo («with no direction home») con una chitarra in mano. Un moderno ebreo errante che, 40 anni dopo, torna a bussare alle porte di Israele.

Nel Paese si avverte adesso una «Dylan-mania» in attesa del concerto che il grande folksinger terrà lunedì. E questa volta per lui si apriranno non i cancelli del modesto kibbutz, bensì quelli del grande stadio di Tel Aviv, che si prevede sarà affollato in tutte le sue tribune malgrado l’esosità dei biglietti: da 50 a 200 euro.

La figura di Dylan, e in particolare il suo rapporto con le radici ebraiche familiari, attira l’attenzione dei mass media. Per certi versi, viene fatto notare, si tratta «del più celebre ebreo convertito del XX secolo»: non è forse vero che all’inizio degli Anni 80 abbracciò la fede evangelica? Che nei suoi concerti dissertava su Gesù e su visioni apocalittiche apprese sui testi cristiani? Altri in Israele preferiscono mettere l’accento su aspetti diversi della biografia di Dylan, un appassionato di questioni mistiche. Si menzionano allora i suoi incontri con il rabbino Schneerson della setta messianica dei Lubavitch, e si cita l’immortale «Highway 61», la celebre arteria che unisce Louisiana e Minnesota che, nelle strofe di Dylan, fa da sfondo al dialogo fra Abramo e l’Onnipotente nell’imminenza del sacrificio di Isacco. Lo stesso ricercatore della Cabbala Gershom Scholem, uno dei maggiori nel ramo, custodiva nella propria biblioteca testi di Dylan. Non sbagliava dunque il regista Todd Haynes quando, nel suo film «I’m not there», ha utilizzato sei attori diversi - fra cui Cate Blanchett - per rappresentare il poliforme e sfuggente Dylan.

La visita di Dylan in Israele sarà una toccata-e-fuga: atterrerà poche ore prima del concerto, e forse ripartirà al termine. Ha già fatto sapere di non volere telecamere allo stadio e ha vietato di registrare il concerto. Canterà 17 canzoni di varie epoche, un tuffo a ritroso nel tempo. Per sé ha chiesto sole scorte sufficienti di acqua minerale. La polizia ha comunque provveduto a misure di sicurezza rafforzate e, prevedendo che l’evento richiamerà la folla delle grandi occasioni, ai fans di Dylan è stato consigliato di raggiungere lo stadio solo con i mezzi pubblici.

Quale sia il suo giudizio aggiornato su Israele e sul futuro della pace con i palestinesi, non è noto. In passato (1983) Dylan fu duramente attaccato dalla sinistra radicale per aver scritto quel «Neighborhood Bully» in cui esprimeva profonda simpatia e comprensione per un Israele costantemente accerchiato da nemici crudeli.

I critici musicali avvertono che non è il caso di farsi soverchie illusioni. All’età di 70 anni la voce del bardo è ormai roca, gracchiante, forse addirittura sgradevole. Ricordano che il suo concerto di Tel Aviv nel 1987 fu un fiasco totale. Tornò nel 1993 - e allora i giornali scrissero che l’artista era venuto per «riparare» la cattiva impressione lasciata. Qualcuno si chiede per quale motivo continui ancora oggi a impegnarsi in stremanti tournée: certo non per impellenze finanziarie.

Eppure la febbre è egualmente alle stelle. Dalla radio militare israeliana, che ripropone senza tregua le canzoni dell'animatore delle lotte studentesche contro la guerra in Vietnam, un entusiasta del cantante ha sentenziato nei giorni scorsi: «Il mondo si divide fra quanti amano Dylan e quanti non lo amano. E fra quanti non lo amano, io personalmente non ho mai trovato alcuno con cui valesse la pena parlare».

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