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Il Foglio Rassegna Stampa
17.06.2011 Pakistan/Usa, rapporti sempre più tesi
Ritratti del generale pakistano Kayani, del presidente americano Obama

Testata: Il Foglio
Data: 17 giugno 2011
Pagina: 5
Autore: Redazione del Foglio
Titolo: «Tre guerre e zero alleati. L’impotenza di Kayani - Cinque guerre e un’elezione. L’azzardo di Obama»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 17/06/2011, a pag. I, gli articoli titolati " Tre guerre e zero alleati. L’impotenza di Kayani " e " Cinque guerre e un’elezione. L’azzardo di Obama ".
Ecco i due pezzi:

" Tre guerre e zero alleati. L’impotenza di Kayani "


Ashfaq Pervez Kayani

Un giro massacrante per rassicurare i soldati, incontri, discorsi, vertici, bagni di folla (militare). Da quando Osama bin Laden è stato ucciso a due passi dalla West Point pachistana, ad Abbottabad, il generale Ashfaq Pervez Kayani, comandante delle Forze armate di Islamabad, non è più lui. Gli americani non si fidano, al Qaida gli ha dichiarato guerra, i militari sono in rivolta, anzi alcune fonti anonime citate del New York Times sostengono che non sia da escludere l’ipotesi di un golpe. “Combatte per sopravvivere”, racconta il Washington Post, i suoi undici colleghi – i Corps Commanders – senza i quali nulla può decidere né fare stanno facendo la rivoluzione, contro di lui e contro gli americani, perché il generale è il simbolo vivente di quell’alleanza e collaborazione. Kayani è, era, il migliore amico degli americani. Era l’alter ego pachistano del generale David Petraeus, l’interlocutore dell’ammiraglio Mike Mullen, la garanzia che il fronte pachistano non sarebbe crollato sotto il peso degli intrighi dei servizi segreti e delle infiltrazioni dei gerarchi di al Qaida in ogni angolo della vita politico-militare pachistana. Oggi Kayani non è più una garanzia per nessuno, le occhiaie sono sempre più profonde, la bocca è serrata e nervosa. Il generale è furioso. Furioso come non era mai stato. Non tanto e non solo perché è sempre più isolato, quanto piuttosto perché non ha alternative. Lo ha detto lui, in un discorso alla National Defense University (un discorso che doveva restare lì, chiuso in quell’aula, ma ormai in Pakistan il sistema delle regole è saltato, si può persino attaccare direttamente e pubblicamente il capo delle Forze armate, e restare vivi). Kayani ha usato una metafora occidentalissima per spiegare che il Pakistan ha ipotecato se stesso agli Stati Uniti. Se una persona dà la sua casa per avere un prestito – ha detto il generale – e poi non è più in grado di restituirlo, il prestito, qualcuno interverrà. Più probabilmente il creditore. “Siamo impotenti, possiamo forse combattere l’America?”. I rapporti con il creditore non sono mai stati tanto pessimi, si è tornati ai livelli prima dell’attacco alle Torri gemelle, quando i due paesi decisero di collaborare, tra mille perplessità, nella guerra al terrore. Dopo dieci anni di matrimonio infedele, era chiaro che qualcosa dovesse succedere, Islamabad non poteva prendere i soldi di Washington e allo stesso tempo ammansire i talebani per evitare la guerra civile. O almeno non poteva farlo per sempre. Ma questa volta è rimasto incastrato l’esercito che, da quel fatidico primo maggio in cui il capo di al Qaida è stato ucciso, è stato messo sotto attacco ormai troppe volte. Kayani non può dimenticare le fiamme e il fumo alla base di Karachi, la Naval Station Mehran, tre settimane dopo il raid contro Bin Laden. Un commando di al Qaida infiltrato dentro la base, due giorni di combattimenti, dieci ufficiali uccisi, la vendetta dei fondamentalisti in diretta tv, umiliazione massima e terribile – l’impotenza, appunto. Kayani non può dimenticare e non può reagire, chiede agli americani di smetterla con gli attacchi con i droni, lassù nel nord – sono inaccettabili, ripete –, ma poi ha bisogno degli aiuti che arrivano da Washington, due miliardi di dollari l’anno che vanno soltanto all’esercito e che ora il Congresso sventola sotto il naso dei pachistani dicendo: dovete dimostrarci che ve li meritate ancora, questi soldi. Ma come? Come, se ormai lo sanno tutti che qualcuno, tra l’esercito e i servizi, avvisa i signorotti di al Qaida in Waziristan quando stanno arrivando i droni? Come, se adesso a guidare al Qaida è stato nominato il dottor Zawahiri, uno che non vuole fare il jihad troppo lontano da casa, uno che vuole punire i traditori vicini – e chissà che cosa vorrà dire, visto che secondo gli esperti il dottore vive in Pakistan? Kayani guida l’esercito di uno stato che, a seconda dell’indulgenza del momento, o è fallito o è canaglia: non ha più nessuno di cui fidarsi, non ha più nessuno con cui parlare, è deriso pubblicamente, non vuole collaborare con gli Stati Uniti e arresta informatori della Cia, ma intanto gli attentati di al Qaida sono aumentati e i talebani fanno il viaggio al contrario: partono dall’Afghanistan per andare a combattere in Pakistan. Una guerra civile, una guerra al terrore e un golpe: tre battaglie nello stesso tempo, e nemmeno uno straccio di alleato

" Cinque guerre e un’elezione. L’azzardo di Obama "


Barack Obama

Una guerra necessaria, una sbagliata, una inevitabile, una silenziosa, una umanitaria. Il presidente americano, Barack Obama, ha un bel daffare a definire e distinguere tutte le guerre che si è messo a combattere, lui che era stato eletto perché voleva portare i soldati a casa e perché i pacifisti hanno preso l’abbaglio più grande della loro storia recente (e in effetti sono parecchio innervositi). Mentre decide come liberare l’Iraq (la guerra sbagliata) dalla presenza americana – e gli attentati naturalmente si moltiplicano, non c’è manna per i fondamentalisti come una data di ritiro –, Obama bombarda con i droni il Pakistan (guerra inevitabile), un po’ anche lo Yemen (guerra silenziosa), apre una base segreta nel Golfo Persico perché al Qaida si sta riorganizzando e bisogna intercettarla prima possibile, e va a caccia del colonnello Muammar Gheddafi a Tripoli (guerra umanitaria, anzi solo umanitaria, perché guerra non si può dire). Il Congresso inizia a scalpitare, discute sui soldi da dare a tutte queste missioni e soprattutto discute dei poteri del presidente, che insiste a non considerare la Libia una guerra perché l’apporto degli Stati Uniti è modesto. Oggi lo speaker della Camera, John Bohener, lo aspetta al varco per quel che riguarda la Libia, il commander in chief è sì potentissimo, ma non è un imperatore, per fare una guerra deve chiedere il permesso al Congresso (oltre che spiegare i motivi della guerra, quale interesse nazionale è in gioco). Ma è l’Afghanistan (la guerra necessaria) con il suo eterno e drammatico prolungamento in Pakistan che tiene banco nelle discussioni a Washington. Perché da quando i Navy Seals hanno scovato e ucciso Osama bin Laden, nulla è come prima. La tentazione di andare a casa è tornata fortissima, ora che i soldi mancano e il partito dei falchi in rigore fiscale è potente e pacifista, ora che alcuni sostengono – ascoltati – che a Kabul l’America ormai ci sta per “inerzia”. La prima tranche del ritiro inizia il mese prossimo, ufficialmente, ma un esperto come Andrew Exum, del think tank obamiano Center for a New American Security, dice che le truppe (poche migliaia) dovrebbero iniziare a rientrare dopo l’autunno, quando la neve congela un po’ anche la furia talebana. L’ipotesi estrema è quella che sostiene invece di riportare indietro tutte le truppe del “surge”, deciso nel 2010 ma poco efficace (in realtà non c’è mai stato come adesso un calo degli attacchi da parte dei talebani, i quali un po’ si spostano in Pakistan e un po’ abbandonano i fortini). In mezzo c’è la dottrina Obama, con la sua flessibilità pragmatica, il compromesso da raggiungere inevitabilmente, perché l’anno prossimo si vota, e la sinistra radicale a oggi è perduta. In mezzo c’è anche il Pakistan. Mentre si ripetono gli sgambetti reciproci, le ripicche, gli urli e gli ultimatum, i droni americani continuano a colpire il nord del paese e i talebani continuano a colpire obiettivi pachistani. Cioè sul campo si è solo più violenti, mentre negli incontri e nelle telefonate si è solo più freddi. Bloomberg Wiew ieri ha cercato di suggerire gli elementi di un rilancio dei rapporti tra Islamabad e Washington, perché lo stallo prolungato rischia di compromettere ancor più la già rischiosa esistenza dei soldati e degli 007 americani. L’uomo chiave è l’ammiraglio Mike Mullen, il capo del Joint Chiefs of Staff, perché è l’unico ad avere ancora un buon rapporto con il generale pachistano Ashfaq Pervez Kayani (e secondo una conversazione avuta con lo staff di Bloomberg View, Mullen è uno dei pochi a credere che il Pakistan voglia ancora buoni rapporti con gli Stati Uniti). Obama dovrebbe mandare Mullen a Islamabad con un messaggio chiaro: la collaborazione serve a entrambi, fate un passo indietro sul caso Bin Laden, dateci tutte le informazioni che ci servono, così per noi sarà più facile resistere alle pressioni del Congresso che vogliono smetterla con questa farsa dell’alleanza. In cambio l’America potrebbe cedere qualcosa sul fronte dell’India – sostiene Bloomberg View – limitandone il coinvolgimento nelle questioni afghane. Ma il mandato di Mullen non durerà ancora a lungo, il Pakistan farà fatica – anche volendo – a dimostrare buona fede e l’India non toglierà facilmente le mani da Kabul. Soprattutto se vacilla l’unico interlocutore a Islamabad, il generale Kayani, il resto dell’apparato istituzionale pachistano è ormai perduto.

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