Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 17/06/2011, a pag. 14, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Riad, velate al volante. Parte la sfida ai divieti ", la sua intervista a Rogaia Al Shuaibi dal titolo " Una causa giusta ma perseguita con i mezzi sbagliati ", a pag. 15, l'articolo di Maureen Dowd dal titolo " Che tristezza combattere per un diritto così banale ".
Ecco i pezzi:
Francesca Paci - " Riad, velate al volante. Parte la sfida ai divieti "
Il tam tam su Facebook e Twitter è inarrestabile. Sebbene da giorni i conservatori scaglino anatemi e l’arresto immediato di Manal al Sharif sia lì a dimostrare l’intransigenza della polizia, le saudite si metteranno oggi al volante per la prima manifestazione ufficiale dal 1991, quando un gruppo di pioniere lanciò il guanto di sfida all’unico Paese al mondo che proibisce alle donne di guidare.
Tra repressione preventiva e generose concessioni di sussidi estemporanei il regno dei Saud era riuscito finora ad allontanare lo spettro del venerdì della rabbia che da mesi turba i sonni dei regimi arabi ancora in sella. Saranno le donne a rompere il tabù? Difficile avanzare ipotesi anche per loro che, consapevoli dell’ostilità sociale e del prevedibile dispiegamento di forze dell’ordine, non hanno stabilito un luogo di ritrovo ma, attraverso Internet, hanno diffuso un vademecum in cui si raccomanda alle interessate di prendere l’auto e mettersi in strada in ordine sparso in tutte le città, una specie di happening spiazzante per evitare retate di massa.
L’obiettivo non è sovversivo. «Vogliamo il re e la patente» recita un tweet dei giorni scorsi. Le organizzatrici hanno stabilito di velarsi appropriatamente, farsi accompagnare da un uomo in caso di fermo, esporre sul cruscotto la bandiera saudita e la foto di Sua Maestà Abdullah che, si mormora, potrebbe finalmente firmare la proposta di aprire le elezioni municipali alle donne secondo quanto stabilito alcune settimane fa dalla Shura, l’assemblea consultiva nominata dal sovrano.
La prospettiva non è il ribaltamento del regime sul modello delle rivoluzioni egiziana e tunisina. Nel nome di Manal, la single mamma arrestata a maggio per il reato di guida senza patente, centinaia e centinaia di saudite schermate dal nickname hanno denunciato nelle settimane scorse la difficoltà di una vita sotto tutela maschile. La Rete è un confessionale ma anche un amplificatore. Se la storia di Manal al Sharif ha già oltre 30 mila commenti su Twitter e Facebook moltiplica le firme di adesione, su YouTube è nato il canale HonkforSaudiWomen che raccoglie i video di quanti, in tutto il mondo, stamattina suoneranno il clacson in sostegno delle ribelli di Riad.
L’instabilità della regione preoccupa il re che ha aperto i forzieri proprio per prevenire il contagio della primavera araba. Ma cosa accade all’interno del Paese? La condizione delle donne, impossibilitate perfino a decidere una cura medica senza l’assenso del tutore, è la cartina di tornasole. Il mondo segue loro che, ogni tanto, a sorpresa, alzano la voce da sotto il velo come la scrittrice saudita che un anno fa sul suo blog sdoganò la poligamia a condizione di poter avere anche lei quattro mariti. Ci vorrà tempo, ma s’inizia sempre sistemando lo specchietto retrovisore e ingranando la marcia.
Francesca Paci - " Una causa giusta ma perseguita con i mezzi sbagliati"
Arabia Saudita
Quando è tornata a Riad dagli States, nel 1990, Rogaia Al Shuaibi ha trovato un paese strano, diverso da quello lasciato appena maggiorenne per studiare psicologia alla George Washington University e diversissimo dall’Arabia Saudita in cui erano cresciute la madre e la nonna. «E’ stata la scoperta del petrolio a marginalizzare le donne: fino agli anni ‘40 o ‘50 del 900 non c’erano differenze, moglie e marito dividevano il lavoro dei campi e la responsabilità della famiglia» spiega. Oggi invece che l’opulenza è vessillo nazionale signore e signorine non possono neppure impugnare il volante. Rogaia, 50 anni, imprenditrice, sostiene in pieno il diritto alla guida seppure, ammette, non attraverso manifestazioni come quella di oggi.
Che margine di successo ha la protesta delle automobiliste?
«Temo che produca più danni che benefici. I sauditi sono ultraconservatori e non credono in questo modo di difendere i diritti, hanno paura del caos. Non sarà un protesta popolare, il paese non ama che si sfidi l’autorità. Guardate per esempio la primavera araba: i sauditi simpatizzano con i vicini ma sono certi che qui non potrebbe mai accadere perché c’è benessere e la legge viene percepita come equa».
La storia di Manal al Sharif, arrestata perché al volante, ha 30 mila commenti su Twitter. Non significa nulla?
«Simpatizzo con lei e le sue richieste ma disapprovo il modo. Mi ricorda quelle donne che nei primi anni ‘90 si misero in auto reclamando la patente e danneggiarono la causa. Le conquiste qui sono frutto di consenso sociale».
E il governo che ruolo ha?
«Il problema non è il governo ma la mentalità della gente, uomini e donne. Ci vuole tempo per cambiare perché la resistenza al progresso viene dal basso. Prima del petrolio mia nonna si spostava da un villaggio all’altro a cavallo, l’unico mezzo di trasporto dell’epoca. Poi, con la ricchezza, il lavoro femminile è servito sempre meno e le donne si sono gradualmente rinchiuse in casa. La religione non c’entra: ai tempi di Maometto c’erano soldatesse e Amazzoni provette. Dagli anni ‘50 le cose sono via via peggiorate, la mia generazione ha pagato il prezzo maggiore».
Com’è la situazione oggi?
«Negli ultimi 15 anni l’accesso agli studi e le nuove tecnologie hanno migliorato la condizione delle donne anche perché Internet ha aperto anche la testa degli uomini. Il divieto di guidare però resta un problema. Non possiamo muoverci senza autista: niente shopping, visite ai parenti o commissioni. I trasporti pubblici ci sono ma da quando negli anni ‘80 esistono i compartimenti uomo-donna li usano solo i lavoratori stranieri. Restano il taxi o l’autista. Eppure tante di noi hanno preso la patente in Europa, in America o in altri paesi arabi. Qui è impossibile e non per colpa del governo: è la società a opporsi».
Il re però potrebbe intervenire.
«Non c’è una norma specifica che interdica il volante alle donne ma giacché è richiesta la patente e darcela sarebbe socialmente inaccettabile se guidiamo siamo fuorilegge. Basta pensare che per andare a cavallo o in bicicletta non serve la licenza ma nessuna temeraria osa perché in assenza dei vigili la bloccherebbe la gente. O che nei villaggi sperduti le donne conducono i trattori per necessità lavorativa ma se imboccassero l’autostrada sarebbero subito fermate dalla polizia. Da psicologa capisco il meccanismo. L’Arabia Saudita è un immenso deserto con pochi centri abitati e isolati. Il mondo è piombato qui con il petrolio e ha portato novità repentine alle quali la gente ha reagito chiudendosi nella tradizione per paura di perdere la propria identità».
Finirà che le donne otterranno prima il voto della patente: perché?
«Il voto impatta meno sulla routine, un po’ come le 5 o 6 saudite pilota che sono accettate perché nessuno le vede. La soluzione all'impasse è come quella adottata dal re per l’educazione femminile: negli anni ‘60 la gente era ferocemente avversa, poi lui istituì scuole non obbligatorie per le ragazze e le famiglie più aperte fecero pian piano breccia nella società. Con la patente accadrà lo stesso. Pensate al salario minimo annunciato un mese fa: quando l'autista non costerà più gli attuali 3000 riad (500 euro) un impiegato medio da 10 mila riad al mese (2000 euro) non potrà permetterlo e dovrà svincolare le sue donne. Aspettate e vedrete: è tipico del governo preparare la gente procedendo per strade laterali».
Maureen Dowd - " Che tristezza combattere per un diritto così banale "
Maureen Dowd
Immagino che uno non diventi l’uomo più ricco dell’Arabia Saudita se non è capace di riassumere rapidamente una situazione. Quando l’ho chiamato a Riad martedì sera il principe miliardario Alwaleed bin Talal bin Abdulaziz al-Saud, noto come il Warren Buffett arabo, è stato piuttosto preciso sulla concessione del permesso di guida alle donne saudite.
«Non stiamo chiedendo relazioni diplomatiche con Israele», ha detto. «Stiamo solo chiedendo che le donne possano guidare l’auto. La prego, mi dia tregua. Anche in Corea del Nord le donne possono guidare. È uno scherzo. Il problema delle donne alla guida si può risolvere anche domani mattina perché non è davvero un problema». Ovviamente, il principe Alwaleed è un pilastro della modernità in un regno medioevale. Nel suo ufficio, un grattacielo di Riad, donne in abiti e jeans attillati si muovono con padronanza, lavorando fianco fianco con gli uomini, cosa che altrove è proibita. In Arabia Saudita gli uffici governativi sono divisi per sesso.
Il principe si è fatto un punto d’onore di assumere una donna, nata nella città santa della Mecca, per addestrarla come pilota del suo jet privato. «Le donne possono pilotare una aereo ma non guidare un’auto per strada», ha detto seccamente, sottolineando: «Mia moglie guida nel deserto e in ogni città dove andiamo, appena fuori dall’aeroporto. È un ottimo pilota, migliore di me, di sicuro».
Negli Anni ‘50, al culmine della mania americana per battute e sketch televisivi sull’incapacità delle donne alla guida, c’era un detto: «Donne al volante, pericolo costante». Che assume un nuovo, inquietante significato nel momento in cui le donne saudite si dilaniano sull’opportunità di unirsi al Venerdì al volante (oggi, ndr) - una protesta nazionale in cui le donne si metteranno alla guida per vedere se verranno arrestate in massa. Nel 1990, 47 donne della intellighenzia saudita furono così ispirate dalle truppe americane - e dalle donne soldato - raccolte nel regno per la prima guerra del presidente Bush contro Saddam, da improvvisare un carosello di auto in segno di protesta contro l’Arabia Saudita, unico Paese dove le donne non possono guidare. Il clero fondamentalista andò su tutte le furie, bollando le donne come «meretrici». Persero il loro lavoro e furono perseguitate. I loro passaporti furono revocati e dovettero firmare documenti impegnandosi a non parlare dell’episodio. Quando ho intervistato alcune di loro, 12 anni dopo, stavano solo iniziando a superare le conseguenze di quell’accanimento. Malgrado tutti i discorsi ampollosi di George e Laura Bush su come le guerre di W. avrebbero contribuito ad ampliare i diritti delle donne in Medio Oriente, c’è solo un tot di pressione che l’America può esercitare sull’Arabia Saudita affinché permetta alle donne di guidare senza compromettere il flusso di petrolio che consente alle persone di guidare qui da noi. Obama non ha nemmeno menzionato l’Arabia Saudita nel suo discorso sul Medio Oriente il mese scorso.
Il diritto di guida non può essere un problema più importante della fine della tutela maschile, ma è il nodo ad alto potenziale di ottani che ci blocca nelle nostre ipocrisie. L’ultima sfida è cominciata il mese scorso, con la primavera araba e un fiorire di femministe su Twitter e Facebook che seguivano a una «giornata della rabbia» saudita a marzo, a cui si presentò solo la polizia.
Re Abdullah in Arabia Saudita passa per progressista (ha appena emesso un decreto che permette che siano le donne, invece degli uomini, a vendere biancheria intima femminile). Spaventato dalle rivolte sorte nei Paesi vicini, ha scongiurato la possibilità di proteste democratiche alla maniera saudita: con il libretto degli assegni. Dopo la «Giornata della rabbia», ben impressionato, ha premiato i suoi compiacenti concittadini con 130 miliardi di dollari tra aumenti salariali, nuovi alloggi e finanziamenti alle organizzazioni religiose. Ma ecco che una ragazza madre di 32 anni, Manal al-Sharif, consulente informatica per la compagnia petrolifera statale Aramco, ha postato su YouTube un video dove, coperta dall’abaya nera, guidava sulla provinciale orientale di AlKhobar.
Alla Cnn ha detto che la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata quando una notte stava cercando di tornare a casa dal figlio di 5 anni e non riusciva a trovare un taxi o a rintracciare suo fratello per farsi dare un passaggio né a liberarsi degli automobilisti maschi che l’importunavano perché era sola per la strada. «Sono una donna adulta - ha detto -, eppure ero lì per strada e piangevo come una bambina».
Ha passato una settimana in carcere ed è stata costretta a firmare un documento in cui s’impegna a non parlare con la stampa o a proseguire la sua lotta per le riforme. Questo ha avuto un effetto raggelante sulle donne. Ma la principessa Reem al-Faisal, attivista e fotografa di Gedda -, suo nonno era il re Faisal, suo zio è il ministro degli Esteri Saud a-Faisal - ha rotto il silenzio, scrivendo sul quotdiano The Arab News: «È veramente tragico che si debba combattere per un tale diritto, fondamentale sì ma mediocre», essendo trattate come «eterne minorenni». Ha suggerito che le donne, semplicemente, guidino i cammelli, che non inquinano neppure. Salvo che poi gli uomini negherebbero alle donne anche il diritto di spostarsi a dorso di cammello. «E allora dovremo accontentarci di sederci sul cammello come passeggere o iniziare a cercare un’alternativa - magari un mulo?».
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