Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/06/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Il mondo senza notizie dei reporter respinti al confine ".
Roma. In principio era il “rooftop reporting” o l’“hotel journalism”, fare i reporter dal tetto dell’hotel, perché andare in giro per le strade è troppo pericoloso, perché è meglio pagare qualcuno del posto che là fuori dove circolano i cattivi sa mescolarsi senza attirare l’attenzione, perché uscire fuori sarebbe una pazzia – e poi questi parlano una lingua incomprensibile, che senso ha rischiare e non capire nulla di quel che dicono?
Il rooftop reporting è stato il primo segno della restrizione degli spazi degli inviati, non per mancanza di competizione, figurarsi, perché c’è sempre un freelance assatanato più avanti, più sopra, più dentro la notizia; è che proprio non si può più girare. Pensate a Mogadiscio nel 1991, quando le troupe della Cnn puntavano i fari delle telecamere negli occhi dei Navy Seal americani che sbarcavano dai gommoni armi in pugno – e qui in Italia seguiva un tormentato forum sull’invadenza ormai invincibile dei nuovi media, pronti a illuminare da adesso per sempre ogni fotogramma del mondo. Sì, magari. Oggi a Mogadiscio una troupe non accenderebbe nemmeno il display del telefonino, per il giusto timore di essere individuata e fatta a pezzi. Bisogna fidarsi di quello che racconta chi è sul posto, e di poche foto fatte male. Altro capitolo della categoria: la seconda guerra in Iraq, dal 2004 in poi, dopo che la prima era stata un esaltante videogame fluorescente.
A Baghdad soltanto l’inviato del New York Times, Dexter Filkins, si prendeva la libertà di andare a correre ogni sera sul lungo Tigri sotto gli occhi scettici dei poliziotti iracheni – questo da un momento all’altro lo rapiscono, è un pollo fritto che sgambetta ancora. E comunque quando Filkins rientrava correndo alla base, si trattava di un fortilizio pagato con i soldi del giornale e di una manciata di reti televisive americane, con muri, filo spinato, guardie con i fucili d’assalto, roba da centinaia di migliaia di dollari al mese – che infatti scatenava il dibattito di categoria in patria: “Vale la pena consumare tutto questo denaro per tenere in vita il Baghdad Bureau e sentirci snocciolare ogni giorno la lista delle autobomba?”.
La causa contro Fisk
Ebbene, ora siamo al passo successivo, alla degenerazione antinotizie. Interi stati che negano semplicemente l’accesso ai giornalisti dall’esterno e zittiscono quelli locali, con buona pace del forum tormentato sull’invadenza elettronica dei nuovi media e sul ciclo delle notizie in real time. Ora incontri gli inviati, vil razza dannata, ai banchi delle ambasciate, a raccontarsi di visti annullati, non concessi, prima dati e dopo tolti, di come fare a scavallare il confine attraverso un bosco dove nessuno ti vede o di quella volta che si è fatto gli gnorri e ci si è presentati alla dogana così, sperando in un lapsus delle guardie; ma ormai fette di mondo sono state tagliate via dalla mappa delle informazioni indipendenti senza che ci si possa fare molto. In Yemen il governo quando ha visto che il filo di fumo della protesta studentesca si è trasformato in rivoluzione ha subito cacciato via i giornalisti stranieri, ha mandato la polizia a prenderli nelle case e nelle stanze d’albergo, un’ora per fare i bagagli e poi via verso l’aeroporto, primo aereo in partenza per Ankara o Dubai. In Egitto durante la rivolta gli sgherri del regime e la polizia davano la caccia ai reporter, su precise istruzioni. Il Bahrein ha appena fatto causa al quotidiano britannico Independent perché Robert Fisk, l’idolo degli inviati del pianeta, ha scritto che è una provincia dell’Arabia Saudita. E che cosa è successo veramente a Jisr al Shogour, nel nord della Siria, una settimana fa? Non si tratta del Tibet segreto, è un’area che s’affaccia sul Mediterraneo con strade, computer e telefoni, eppure non si è ancora capito se ci sono stati 120 morti, se si è trattato di soldati ammutinati o di civili, o se i morti non siano stati soltanto dieci, come suggeriscono altre fonti credibili. Ora al confine tra Siria e Turchia c’è un drappello di inviati, anzi di inviate, che le sta tentando tutte per raccogliere testimonianze. Rania Abouzeid di Time e Arwa Damon della Cnn sgattaiolano oltre il confine proibito a tutti i loro colleghi per ascoltare i sopravvissuti siriani e raccogliere i video delle atrocità del regime filmati con i telefonini. Anita McNaught di al Jazeera, invece, manda oltre il confine soltanto la telecamera, portata da un suo uomo fidato: “Per capire che cosa sta succedendo di là”.
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