Yemen, com'è stato possibile l'attentato contro Saleh Analisi di Daniele Raineri
Testata: Il Foglio Data: 15 giugno 2011 Pagina: 7 Autore: Daniele Raineri Titolo: «Il despota di Sana’a vede gli assassini in fondo al letto»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 15/06/2011, a pag. III, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Il despota di Sana’a vede gli assassini in fondo al letto".
Ali Abdullah Saleh
Come no, sicuro, è andata così. Una salva di razzi, o forse di proiettili di mortaio, è volata alta nel cielo di giugno di Sana’a e poi è piombata verso terra ad arco, seguendo una parabola impossibile, fino a centrare durante la preghiera del venerdì, appena prima dell’ora di pranzo, la piccola moschea nel cuore del compound presidenziale del despota yemenita Ali Abdullah Saleh. Sette guardie del corpo uccise all’istante, primo ministro e un ministro in condizioni disperate e il presidentissimo soltanto “ferito leggermente”. I tiri di artiglieria seguono traiettorie che la statistica non conosce, in Iraq i soldati americani si passavano l’uno con l’altro la storia del mortaio sceso dritto come un filo a piombo nella torretta spalancata di un carro armato, una chance su un milione, corazze invincibili tutto attorno a quell’unico foro che ha fregato tutti quanti. Così ce l’hanno voluta raccontare dallo Yemen: la salva di razzi fortunata che ha centrato il nostro leader, tutta colpa dell’opposizione, altro che pacifici. Ma lui quasi non s’è fatto un graffio. Oppure, ecco da considerare un’altra possibilità: c’è stata una mano che conosceva i tempi e i luoghi e ha sistemato una carica esplosiva per sbarazzarsi dell’imperterrito Saleh, che ormai sta battendo ogni record tignoso di durata di un autocrate arabo al cospetto della rivoluzione – in Yemen si va avanti da gennaio, contro un regime che reggeva da 33 anni (quando salì al potere con un golpe, l’agente locale della Cia comunicò a Washington: non durerà sei mesi). Come contro Hitler, forse una valigetta- bomba piazzata da un colonnello Von Stauffenberg mediorientale per l’operazione Valchiria edizione 2011. A Sana’a se ne dicono certi, certissimi, soprattutto l’opposizione che sa di non averli mai sparati, quei razzi. Ad Austin, in Texas, il vicepresidente di Stratfor – una compagnia che si occupa di analisi del rischio nei paesi violenti, cerca di capire che cosa succede nel mondo e quando lo capisce vende le informazioni ai clienti – mostra una serie di immagini prese dopo la strage, fa osservare il modo in cui calcinacci e detriti sono crollati da uno dei muri della moschea e dice che lo scoppio è probabilmente dovuto a esplosivo “di grado militare” nascosto qualche spanna sopra il pavimento e vicino a una parete. Le guardie hanno arrestato l’imam del presidente, che stava filandosela alla chetichella, e un membro dello staff, il che c’entra davvero poco con la versione della salva di razzi arrivata dall’esterno. Il fatto che una squadra di esperti artificieri americani dell’Fbi sia arrivata in Yemen per investigare – Washington dovrebbe decidere però se il presidente è ancora un partner da aiutare o un tiranno da abbandonare al suo destino, è già tardi – rafforza la storia della bomba. Non ci sono certezze, ma ecco, se in Yemen si fosse trattato di un complotto di corte, e non di un mortaio errabondo, la storia per gli yemeniti stessi sarebbe più comprensibile, si adatterebbe meglio all’ordine cosmico cui sono abituati. I katiusha dei dissidenti sono una balla pietosa per nascondere il fatto che qualcuno vicino al presidente, nello stuolo di dignitari e di familiari in ansia per la prospettiva di perdere soldi e privilegi, o rosi da qualche torto covato negli anni in cui il potere del reggente era forte, ha infine tradito, o ha favorito gli assassini, o almeno sapeva e ha taciuto. Roba di intrighi e di piedi che spuntano da sotto la tenda, riempirà di discorsi i pomeriggi degli yemeniti fino al prossimo capitolo. Il presidente Saleh è considerato un maestro nel genere dei colpi a tradimento. Tutti ricordano la moglie, colta, amata, di più alto carisma e lignaggio rispetto a lui, che era soltanto un carrista dell’esercito arrivato pieno di rabbia alla guida del paese: fino a quando, su una strada poco fuori la capitale, l’autista e guardia del corpo di lei non schiacciò a vuoto il pedale del freno della macchina. Due giorni di agonia, resi più terribili dai sospetti sul marito, sembra abbia confessato a un medico. A proposito di quell’“esplosivo di grado militare” scoppiato dentro la moschea: c’è un’altra storia su Saleh. Due anni fa il suo generale più fidato e a lungo compagno di carriera politico-militare, Ali Muhsen, salì su un elicottero che avrebbe dovuto portarlo verso nord, verso la guerra, sul fronte contro i ribelli Houthi. L’elicottero fu però centrato sulla sua zona d’atterraggio da un raid dei cacciabombardieri sauditi, che alle rimostranze del governo yemenita risposero: come osate, siete stati voi a darci quelle esatte coordinate chiedendoci di colpire “un campo ribelle”. Ali Muhsen però – che non ha attraversato invano trent’anni di tresche yemenite senza accumulare una propria scorta di saggezza – era volato su un altro elicottero e in un’altra direzione, e se la cavò senza un graffio, e anzi con un’istruttiva lezione sull’amicizia con il presidente. Come con la moglie, era successo che l’armonia con Saleh era finita da tempo: troppo bravo, il generale, troppo indipendente, troppo ricambiato in lealtà e sprezzo della politica dai suoi soldati, e Saleh aveva deciso di dimetterlo a suo modo. Oggi Ali Muhsen aspetta su una collinetta polverosa nel centro della capitale, dietro i sacchetti di sabbia e i cancelli della base militare che sovrasta e protegge la zona dell’università trasformata dai rivoltosi pacifici in “Piazza del cambiamento”. I suoi Baschi rossi fanno la guardia contro il governo – che è il motivo per cui il presidente Saleh e la Guardia repubblicana non hanno scelto per spegnere la rivolta l’opzione siriana, alla Assad, ovvero marciare con carri armati e cecchini sulle tende degli studenti. Il pomeriggio dell’attentato, Saleh, indeciso se preoccuparsi di più dei nemici in marcia per le strade o di quelli a spasso fuori della porta della sua stanza, ha fatto diffondere un messaggio di rassicurazioni, niente video, soltanto una foto ufficiale e la voce gorgogliante che accusava l’opposizione, e poi è volato al “Despot Inn”, il rifugio dei despoti arabi, ovvero l’Arabia Saudita. Con lui è voluta andare una tribù di 35 parenti – e chissà se lui ne è stato così contento. In seguito si è scoperto che le condizioni di Saleh sono molto più gravi di quanto avessero dichiarato i suoi portavoce: ustioni sul 40 per cento del corpo, una scheggia nel collo e una nel petto, altre ferite alla testa. Anche se adesso è in via di miglioramento, il complotto di corte è quasi riuscito a levarlo di mezzo. Secondo la procedura di legge, il vicepresidente Abed Rabbo Mansour Hadi ha preso ufficialmente il suo posto e ne sta ricoprendo le funzioni, compreso l’incontro di ieri con i capi dell’opposizione per sbrogliare di poco la situazione. In realtà, Hadi non si è mosso dal suo ufficetto al ministero della Difesa, perché nella stanza di Saleh è andato a sedersi con gli occhi cerchiati dall’ira il figlio del presidente, Ahmed Ali. E’ il capo della Guardia repubblicana e anche delle forze speciali addestrate con i soldi degli americani e che per ora sono state usate contro tutti tranne che contro il bersaglio per cui sono generosamente finanziate, i terroristi di al Qaida. C’è una analista australiana, Sarah Phillips, forse una delle migliori al mondo, che ha tracciato lo schema di come funziona lo Yemen di Saleh. I meccanismi interni sono incredibilmente opachi, dice: pensate a una serie di cerchi concentrici con lui al centro: è il regime. Avvolti stretti attorno al presidente nel circolo più vicino ci sono i parenti stretti – figli, nipoti, cugini e cognati – e appena più lontani c’è l’élite del clan dei Sanhan, a cui appartengono sia lui sia il generale rivale Ali Muhsen. Questi tre circoli contano in tutto 50 persone al massimo, e i suoi membri controllano le cariche militari più importanti, incluse quelle che lavorano alle operazioni antiterrorismo spalla a spalla con gli Stati Uniti. Tutti hanno da guadagnare dal loro essere dentro il sistema. Il regime tiene volutamente segreti i loro nomi. Fino a pochi anni fa persino l’ultimo nome di Saleh – Afaash – era considerato un segreto di stato, perché rivelava che il presidente non è uno sceicco e non ha un grande pedigree tribale e soprattutto che, nella gerarchia del clan, il presidente sta sotto al generale rivale. Ahmed Ali e i suoi cugini, anche loro capi di unità militari, pure se meno temibili, sono la ragione per cui Saleh ha passato mesi a vagare senza mai concludere nulla, senza prestare l’orecchio alle proposte suadenti che gli arrivano dai vicini del Golfo e dagli americani e senza concedere la sua attenzione alle minacce dei clan. Il presidente sa di essere custode e rappresentante di una vasta rete d’interessi e di destini, familiari che da lui e dalla sua cocciutaggine dipendono per conservare la propria dignità e il proprio business: è un drammone familiare. Chi lo spiega a questi, che da trent’anni si pasciono del suo potere, che tutto è finito? Chi sopporterà i loro sguardi, degli affini capaci di non mollarlo nemmeno al capezzale saudita? Chi avvertirà i giovani del clan, abituati al loro posto di comando e a gesti di capricciosa crudeltà – Ahmed sparò nello stomaco a un generale che l’aveva contraddetto in pubblico – che tutto è finito e che nel caso migliore non finiranno nelle mani degli stessi che hanno calpestato fino a ieri (e nel caso peggiore ci finiranno)? Abbrustolito quasi per metà, ferito dolorosamente, Saleh ha annunciato di essere già sulla via della guarigione e di stare preparando il suo imminente ritorno nello Yemen, a fronteggiare il nemico che gonfia furioso nelle strade della capitale e l’insurrezione filo al Qaida – non si sa quanto credibile – nel sud, dove gli islamisti sciamano fuori dai loro covi come vespe contro l’esercito; forse meglio delle facce che vede in fondo al letto.
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