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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.06.2011 Egitto, sempre più vicino a Turchia e Iran
Analisi di Sergio Romano, Paola Peduzzi

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Paola Peduzzi - Sergio Romano
Titolo: «L’Egitto svaligiato - In bilico tra vecchi e nuovi amici. Il grande gioco dell’Egitto di domani»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 11/06/2011, a pag. 1-4, l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo " L’Egitto svaligiato ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " In bilico tra vecchi e nuovi amici. Il grande gioco dell’Egitto di domani ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i due articoli:

CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " In bilico tra vecchi e nuovi amici. Il grande gioco dell’Egitto di domani "


Sergio Romano

Sergio Romano descrive con chiarezza il futuro dell'Egitto nella conclusione del suo articolo: " qualcuno intravede già nei prossimi anni una Triplice composta da Paesi che hanno grosso modo la stessa dimensione, la stessa consistenza demografica, gli stessi interessi a non complicarsi la vita vicendevolmente e, sul piano economico, una certa complementarietà: Egitto, Iran, Turchia ". Un nuovo asse Turchia-Iran-Egitto. Un asse che si indovinava da tempo, con il deterioramento dei rapporti Turchia/Israele, il riavvicinamento della Turchia all'Iran. Per quanto riguarda l'Egitto, poche settimane fa ha permesso a navi da guerra iraniane l'attraversamento del Canale di Suez, cosa che non succedeva da anni. Inoltre l'apertura del valico di Rafah renderà facile ottenere armi ai terroristi della Striscia. Questi fattori rendono impossibile credere che la 'primavera araba' abbia come risultato la nascita di Paesi islamici democratici.
Romano scrive : "
 Sull’apertura del valico di Rafah, invece, ho l’impressione che la svolta egiziana sia stata più formale che sostanziale. Il gesto non avrà per effetto il libero passaggio attraverso la frontiera e i controlli continueranno a essere piuttosto restrittivi.". Questa è solo l'impressione di Sergio Romano. In ogni caso è un segnale evidente di quale sia la nuova politica dell'Egitto.
Ecco il pezzo:
 

Ogni ministero degli Esteri si considera il tempio dell’interesse nazionale, il luogo dove la continuità prevale sul colore dei governi e sugli indirizzi della politica interna. Quello della Repubblica egiziana non fa eccezione. Nel grande palazzo che ospita la sua diplomazia, due lunghi corridoi del piano nobile (quello in cui sono gli uffici del ministro e dei suoi principali collaboratori) sono dedicati agli «antenati» , vale a dire ai ritratti di coloro che hanno diretto la politica estera del Paese. I più vecchi portano il fez, un copricapo ottomano che fu di moda in Egitto sino all’abdicazione di re Farouk e al breve regno del figlio Fouad, ultimi sovrani della dinastia di Mohamed Ali Pascià. I più recenti sono ritratti a capo scoperto. La serie s’interrompe durante il protettorato britannico e ricomincia dopo il ritorno all’indipendenza. Amati o detestati dai loro contemporanei, tutti i ministri degli Esteri appartengono alla nazione e hanno diritto agli stessi onori. Fra qualche settimana, nella galleria dei ritratti vi sarà anche quello della persona con cui ho un appuntamento. La permanenza di Nabil El Arabi alla testa del ministero degli Esteri verrà ricordata come una delle più brevi nella storia del Paese: dal 6 marzo, quando venne chiamato dai militari a far parte del governo post-rivoluzionario di Essam Sharaf, al 15 giugno, quando si trasferirà nel palazzo della Lega Araba in piazza Tahrir per divenirne il segretario generale. Ma sarà ricordata come quella dell’uomo che ha fatto in poche settimane almeno tre cose: ha presieduto alla riconciliazione palestinese, ha aperto Rafah, il valico di frontiera che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza, ha avviato i contatti per la ripresa dei rapporti diplomatici con l’Iran. E sarà anche ricordato probabilmente come il primo ministro degli Esteri egiziano, da molti anni a questa parte, che ha meritato un giudizio sospettoso, diffidente, quasi ostile del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. El Arabi ha avuto incarichi diplomatici, ma è principalmente un giurista. Ha partecipato come consulente legale agli accordi di Camp David fra l’Egitto e Israele nel 1978, è stato giudice alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sino al 2006, ha fatto parte della commissione che ha espresso un parere sulla costruzione del muro israeliano e ha criticato il governo di Gerusalemme, nel corso di questi anni, con argomenti soprattutto giuridici. Mi accoglie in italiano (ha studiato a Roma quarant’anni fa), ma passiamo rapidamente all’inglese e parliamo anzitutto della mediazione egiziana per la conclusione dell’accordo fra i discendenti palestinesi di Yasser Arafat e i cugini separati di Hamas. Quando osservo che l’accordo è stato indirettamente facilitato dalla rivoluzione del 25 gennaio, El Arabi ricorda che la mediazione egiziana era cominciata da tempo e preferisce mettere l’accento sulla continuità della politica estera del suo Paese. L’intesa, secondo il ministro, sarebbe stata resa possibile dalla evoluzione della linea di Hamas dopo l’inizio della crisi siriana: gli islamici della Striscia temevano di perdere la protezione di Damasco e sono diventati più concilianti. È vero, ma soltanto in parte. Il mediatore, prima della rivoluzione, era il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e noto per essere il migliore amico di Israele nella regione. Oggi, grazie ai documenti caduti nelle mani del giornalista Robert Fisk e pubblicati dall’Independent del 7 giugno, sappiamo che una delegazione composta da palestinesi delle due parti, andò al Cairo il 10 aprile ed ebbe conversazioni con l’Intelligence egiziana, con Amr Moussa, segretario della Lega Araba, e con El Arabi, da poco installato al ministero degli Esteri. L’Intelligence promise che lo spirito della mediazione sarebbe cambiato. Moussa dette la benedizione della Lega. El Arabi volle riceverli e ascoltarli alla presenza del ministro degli Esteri turco, allora in visita al Cairo: il modo migliore per garantire ai palestinesi che da quel momento i mediatori egiziani avrebbero smesso di adottare la tattica dilatoria di Suleiman. Da quel momento i negoziati sono diventati pragmatici, concreti, animati dal desiderio di raggiungere un’intesa. Sull’apertura del valico di Rafah, invece, ho l’impressione che la svolta egiziana sia stata più formale che sostanziale. Il gesto non avrà per effetto il libero passaggio attraverso la frontiera e i controlli continueranno a essere piuttosto restrittivi. Ma El Arabi respinge le critiche israeliane. Il regime del valico non rientra negli accordi con Israele, che il nuovo Egitto intende rispettare. È una libera scelta di cui un Paese sovrano non è tenuto a rendere conto. Passiamo ai rapporti con l’Iran. Qualche giorno fa i servizi egiziani hanno arrestato un diplomatico iraniano, lo hanno accusato di spionaggio e lo hanno espulso. Ma sull’aereo che lo riportava a Teheran viaggiava anche una delegazione egiziana. Nelle scorse settimane ve ne sono state due: la prima limitata a tre intellettuali, fra cui uno studioso dell’università di Al Azhar, la seconda composta da cinquanta persone che rappresentano diverse opinioni, confessioni e attività professionali. El Arabi mi dice che i contatti per la piena ripresa dei rapporti diplomatici (oggi ciascuno dei due Paesi ha nell’altro soltanto un ufficio di rappresentanza) richiederanno un negoziato piuttosto lungo. Ma poi si chiede perché l’Egitto non dovrebbe avere rapporti diplomatici con un Paese importante della regione a cui appartiene. In una intervista, qualche settimana fa, ha detto che l’Iran ha il diritto di fare una politica corrispondente al suo ruolo e che non bisogna avere paure ingiustificate. Parliamo infine della Libia, con cui l’Egitto ha una lunga frontiera che gli abitanti della regione (spesso appartenenti alle stesse tribù e legati da vincoli familiari) attraversano liberamente senza visti e passaporti. La maggiore preoccupazione di El Arabi è la sorte della comunità egiziana. Dice che del milione e mezzo di connazionali che vivevano in Libia prima della guerra civile, 250 mila sono tornati in Egitto attraverso la sua frontiera occidentale, mentre 150 mila si sono rifugiati in Tunisia. Più di un milione, quindi, sono ancora in Libia, nel mezzo di un conflitto che ha paralizzato l’economia del Paese. Sono queste le ragioni per cui l’Egitto auspica una rapida cessazione delle ostilità. Ma non mi sembra che ponga come condizione l’estromissione di Gheddafi: una posizione alquanto diversa, quindi, da quella della Nato e delle maggiori potenze occidentali. Negli anni di Mubarak l’Egitto aveva una politica estera costante e prevedibile, fondata su tre rapporti di ferro: con gli Stati Uniti, con Israele e con l’Arabia Saudita. Erano rapporti che permettevano al regime di valorizzare la propria politica anti-jihadista mercanteggiandola contro i finanziamenti degli Stati Uniti alle Forze armate e il diritto di governare con metodi autoritari. Oggi, dopo la defenestrazione di Mubarak e il ruolo politico assunto dalla Fratellanza musulmana, questa politica estera, senza rinunciare alle relazioni con l’America e con l’Occidente, deve essere aggiustata e corretta. El Arabi ha cominciato a disegnare nuove tendenze e molto, in ultima analisi, dipenderà dalla fisionomia politica e sociale dell’Egitto alla fine della transizione di cui abbiamo parlato negli scorsi giorni. Ma qualcuno intravede già nei prossimi anni una Triplice composta da Paesi che hanno grosso modo la stessa dimensione, la stessa consistenza demografica, gli stessi interessi a non complicarsi la vita vicendevolmente e, sul piano economico, una certa complementarietà: Egitto, Iran, Turchia. (3-fine).

Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " L’Egitto svaligiato "


Paola Peduzzi

Milano. Ogni giorno una notizia incoraggiante, per non farsi rubare ulteriormente la rivoluzione. E’ questo il motto del quotidiano egiziano al Masry al Youm, il più letto nel paese, quello che vende più del doppio delle copie del giornale di regime (al Ahram), quello che “la rivoluzione l’ha preparata”, come ha raccontato il direttore in un’intervista a Bloomberg Businessweek. Il morale al Cairo è basso, bisogna essere rassicuranti: gli investitori stranieri stanno tornando e l’inflazione si sta riducendo, spiegano gli articoli di al Masry al Youm. Ma poi conta quel che si vede: nei mercati ci sono più gatti che persone, turisti in giro ce ne sono sempre meno (il settore è calato del 40 per cento), i lavoratori galvanizzati dalla cacciata del rais domandano ogni giorno qualcosa in più, e gli imprenditori si lamentano: uno ha raccontato al New York Times che il suo capo del personale è stato assalito da una massa di lavoratori che, nonostante l’aumento di stipendio appena ottenuto, chiedeva ancora di più. Ma se l’economia non gira come si fa a fare concessioni? Soprattutto, se né i ricchi né i poverissimi ci credono, alla rivoluzione, che fine farà la primavera egiziana? Secondo i dati pubblicati da al Hayat, 30 miliardi di dollari dei super ricchi egiziani ora sono rinchiusi nei forzieri di Londra e Zurigo, la fuga di capitali è iniziata non appena si è capito che piazza Tahrir non si sarebbe svuotata facilmente. Ci sono i tycoon che lavorano alla ricostruzione – come il magnate delle telecom Naguib Sawiris – ma se ai milionari manca la fiducia è difficile trovarla dalle altre parti. Nei sobborghi poveri della capitale, molti dicono che la rivoluzione è stata una maledizione per chi già non è che vivesse granché bene. I partiti cercano di attrezzarsi. La Fratellanza musulmana, che alle elezioni di novembre vuole strafare, punta sulla carta dell’appartenenza e sogna di istituzionalizzare la pratica del “zakat”: i musulmani dovranno dare il 7,5 per cento del loro reddito a un’organizzazione sotto il controllo del governo – cioè di fatto pagare una sovratassa a tasso fisso. Solo i musulmani, gli altri sono esclusi. La proposta sembra disperata, ma il messaggio è potente: noi vogliamo curare la povertà e siamo disposti a tassarci per farlo, voi (cristiani, soprattutto) non potrete mai competere con noi. Certo è che, se già si fa fatica a mangiare, un’autotassazione così pesante è dura da mandar giù nel segreto dell’urna. Gli altri partiti hanno lo stesso problema: la sinistra vuole che lo stato ritorni a fare il suo mestiere dopo le privatizzazioni del regime di Mubarak volte ad arricchire il suo entourage (e i generali); i liberali dicono che lo stato deve restare così ma diventare efficiente, perché la corruzione ha scardinato il rapporto tra pubblico e privato. Ma come si fa a imboccare la strada delle riforme se il tasso di crescita è passato al 2 per cento quando era previsto del cinque (1,7 miliardi di dollari persi soltanto nei 18 giorni di rivoluzione), se la disoccupazione ufficiale è al 12 per cento, se l’inflazione pure è al 12, se la valuta egiziana si è deprezzata del 25 per cento? Nemmeno i mercati ci credono, alla rivoluzione. Anche perché – come ha sottolineato il Wall Street Journal – per ora i soldi del FMI (3 miliardi di dollari), della Banca mondiale (4,5 miliardi di dollari), degli Stati Uniti (2 miliardi di dollari) e del Piano Marshall arabo (20 miliardi di dollari da dividersi con la Tunisia) stanno andando a ingrassare lo stato in nome di una giustizia sociale sacrificata dagli eccessi capitalistici di Mubarak. In questo modo però gli egiziani continueranno a essere dipendenti dalle politiche dello stato, e la prospettiva non è invitante. Come ha scritto Niall Ferguson in un bell’articolo su Newsweek, la primavera araba aveva radici economiche – tutto è partito con un ragazzo tunisino che si è dato fuoco perché non riusciva a vendere la frutta del suo banchetto – ma le rivoluzioni spesso portano a un collasso: il mercato egiziano ha perso il 23 per cento del suo valore, e gli investimenti stranieri non tornano. Secondo Ferguson, questa situazione non dovrebbe sorprenderci: i cicli rivoluzionari funzionano così, si passa dall’euforia alla paralisi. Lo storico porta ad esempio la Rivoluzione francese del 1789 e quella russa del 1917. “L’esuberanza lasciò il posto all’esasperazione. E questo diede l’opportunità agli estremisti di far sguazzare la loro ideologia radicale nella guerra interna. Ieri i giacobini e i bolscevichi. Domani, temo, i Fratelli musulmani e al Qaida”. Ferguson racconta di aver appena finito di rileggere il pamphlet di Keynes contro la pace di Versailles dopo la Prima guerra mondiale, nel quale l’economista spiegava che le misure contro la Germania avrebbero portato a un’eccessiva radicalizzazione. L’ispirazione non è delle più ottimiste, ma l’Egitto oggi non può ignorarla.

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