Chi ha detto che non ci sono alternative a Oslo ?
di Raphael Israeli
uscito su The Jerusalem Post 01/06/2011
(traduzione di Angelo Pezzana)
Raphael Israeli, la copertina del suo libro, non ancora tradotto in italiano
Il conflitto arabo-israeliano ha sempre percorso una cattiva strada, ma dopo il 1993 è andata peggio. Israele e i palestinesi devono ritornare a parlarsi su un idea di pace del tutto nuova.
I 18 anni che seguirono Oslo furono densi di dibattiti, argomenti, frustrazioni, conferenze, accordi temporanei, illusioni e promesse rimaste tali che alla fine non hanno condotto da nesuna parte. Mentre prima del 1993 i rapporti fra Israele e i palestinesi erano senza ombra di dubbio pessimi, da allora di può dire che sono ancora peggiorati. Gli anni che seguirono non furono buoni per i palestinesi. Erano in esilio in Tunisia e in altre parti del mondo arabo; la loro situazione economica dipendeva quasi esclusivamente da donazioni inviate da ricchi arabi; le loro capacità militari erano quasi nulle e non rappresentavano un pericolo per Israele. Soprattutto, l’OLP era boicottatto degli Usa.
Oggi, invece, grazie alla disastrosa costruzione creata da chi ha organizzato Oslo, Israele si trova ad essere più delegittimata di prima. Nel frattempo i palestinesi traggono beneficio dal riconoscimento che ricevono da molti paesi verso un loro stato che neppure ancora .
Malgrado i molti compromessi che Israele ha fatto, e spesso per causa loro,le iniziative contro lo Stato ebraico da parte palestinese continuano a crescere. La lezione da trarne è che Israele deve tornare ad alzare il livello di guardia. Pur sulla base di eguaglianza e reciprocità, una nuova serie di principi deve essere formulata per i futuri negoziati tra Israele e i palestinesi.
Il primo consiglio è quello di abbandonare l’idea corrente di dividere il popolo plaestinese in sei parti: quelli che vivono in Israele sono chiamati israeliani; quelli in Giordania sono giordani; quelli di Gaza sono gaziani; quelli che vivono nel West Bank dipendono dall’Autorità palestinese; quelli che si trovano nei campi di rifugio sono rifugiati; e, infine, quelli dispersi nei paesi arabi o occidentali sono la diaspora palestinese.
I palestinesi dovrebbero essere considerati come un sol popolo che aspira a una soluzione, ma la Terra di Palestina ( o la Terra di Israele, secondo la Bibbia), incluso lo Stato d’Israele, la Giordania, Il West Bank e Gaza, dovrebbero essere considerati un unico territorio, sul quale realizzare le aspirazioni statuali di entrambi i popoli.
Vanno quindi riviste tutte le ipotesi e i punti di riferimento. Propongo per i negoziati questi quattro principi:
1) Auto-determinazione: deve essere chiaro fin dall’inizio che palestinesi e israeliani si riconoscono vicendevolmente il diritto di auto-determinazione, i primi per uno stato arabo-palestinese, i secondi per uno ebraico-israeliano. Questo è stato l’ostacolo più grande per Israele, perchè mentre il diritto di auto-determinazione per i palestinesi è sempre stato riconosciuto da Israele, non si è mai verificato l’inverso. Israele affronta questo aspetto con molto ritardo, il che è un grande errore.
2) I movimenti di liberazione nazionale: Israele ha il movimento sionista, che ha reso concreto il sogno dello Stato. Da parte loro, i palestinesi hanno fondato l’OLP, l’organizzazione per la liberazione della palestina, che è stato riconosciuto da Israele, anche sotto l’aspetto giuridico. La legittimazione del Sionismo, d’altro canto,non solo non è stato riconosciuto, ma è stato definito “razzismo” da tutti gli arabi, inclusi i palestinesi (e negli anni’70 persino dall’Onu). Tornando al 1993 Israele avrebbe dovuto pretendere che il riconoscimento dell’Olp fosse seguito da palestinesi da un eguale riconoscimento del Sionismo. Sarebbe stata abolita dallo statuto dell’Olp la definizione del Sionismo come male assoluto, avrebbe impedito la delegittimazione del Sionismo nel mondo arabo,e,forse, spianato la via ad un vero negoziato tra sionisti e Olp.
3) Territori e confini: come ho detto prima, i negoziati fra le parti avrebbero dovuto includere l’intero territorio storico della Palestina, inclusi Israele, il West Bank, Gaza e la Giordania; essendo ovvio che quest’ultima è anch’essa parte della Palestina, i suoi abitanti palestinesi costituiscono due terzi della popolazione, per cui il suo vero nome dovrebbe essere Regno Hashemita di Palestina. I negoziati, per quanto lunghi e difficili, devono finire con un accordo tra le parti che divida questo vasto territorio in modo che possa ospitare la maggioranza degli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi (inclusi i rifugiati). L’attuale proposta di uno stato palestinese nel West Bank non includerà nemmeno un terzo dei rifugiati palestinesi.I due terzi che non vi entreranno saranno privi di nazionalità, e dovranno rimanere nei campi profughi o nella diaspora.
Sul tavolo delle trattative ci dovranno essere anche tel Aviv e Gerusalemme, Amman e Irbid. In una divisione Est-Ovest o Nord-Sud (unendo Gaza alla parte est della Giordania), i palestinesi saranno in grado di riunire il loro popolo disperso, mentre Israele può salvaguardare la sua presenza nelle aree vitali del West Bank. Altre parti del West Bank restituite ai palestinesi, costituiranno solo una parte del più grande territorio palestinese ex-giordania a est del fiume giordano.
4) Sovranità e Status personali: Dopo un accordo sui confini, entrambe le parti stabiliranno le proprie politiche sull’immigrazione ( cioè la legge del ritorno per gli ebrei e il diritto al ritorno dei palestinesi).Chi verrà a trovarsi dall’altra parte del nuovo confine sarà libero di stabilire il proprio status personale scegliendo una di queste tre opzioni:
I. Vendendo la proprietà e ritornando nella propria patria. Gli israeliani in Israele e i palestinesi, inclusi gli arabi israeliani, nello stato palestinese.
II. Giurando fedeltà al loro paese di residenza, diventandone cittadini con pari diritti
III. Chi rimane dove si trova ha pieni diritti nel paese ospite per quanto il lavoro, ma niente di più.Cittadinanza e diritto di voto valgono nelle rispettive patrie nazionali. In una situazione pacificata, questi lavoratori stranieri sono equiparati ai belgi in Francia o ai canadesi in Usa. Per Israele,significa neutralizzare il pericolo demografico all’interno e permettere ai cittadini arabi di esprimere la loro identità politica palestinese senza essere sradicati dal territorio.
Per quanto complicata e rischiosa questa soluzione possa essere,almeno apre una luce accettabile al fondo del tunnel.Fornisce anche una risposta a coloro che criticano Israele per non offrire alternative quando respinge una proposta. L’arte di governare non consiste semplicemente nello scegliere tra bene e male. Sta piuttosto nel capire quando è ora di uscire da una via senza sbocco, come l’attuale ‘soluzione’ dei due stati, prima che diventi del tutto impossibile.
Raphael Israeli è professore di Storia dell’Islam, Medio Oriente e Cina all’Università ebraica di Gerusalemme, e membro del comitato di governo dell’ Ariel Center for Policy Research.