Sull'UNITA' di oggi, 02/06/2011, Umberto De Giovannangeli è l'unico fra i giornalisti italiani ad intervistare Abu Mazen, a Roma quale invitato per la cerimonia della festa della Repubblica. Le sue domande però sono le solite, servite con i guanti su un piatto d'argento, caro Udg, suvvia, un po' di coraggio, copi da Battistini, che sul CORRIERE della SERA di oggi,a pag. 21 intervista Shimon Peres, il presdiente dello Stato d'Israele, guardi che domande acute gli pone, Battistini è curioso,ha lasciato da parte il violino che abitualnete suona quando si tratta di raccontare gli affari arabo-palestinesi, con Peres va a ruota libera, come per altro dovrebbe fare ogni buon cronista. Peccato che Battistini se ne ricordi solo quando di fronte ha un israeliano, su, Battistini, faccia uno sforzo, lo faccia con tutti.
Ecco l'intervista, che esce con un titolo che male riassume gli argomenti trattati, " Negoziare con i palestinesi si può, ma solo lavorando dietro le quinte".

Shimon Peres
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME
Presidente Peres, fra tanti leader mondiali, oggi a Roma troverà anche Abu Mazen. È vero quel che scrive la stampa israeliana, che mentre il premier Netanyahu fa la voce grossa, in gran segreto lei s'incontra e negozia da mesi col presidente dell'Autorità palestinese?
«Guardi, ci sono sempre un sacco di voci nella vita politica. Non possiamo sfuggirvi, ma nemmeno usarle come punto di riferimento…» .
Ma dopo il discorso di Netanyahu al Congresso, che è sembrato chiudere su ogni richiesta di Obama, sopravvive la possibilità d'un accordo?
«Penso che si debba aprire un negoziato diretto e condurlo con discrezione. Perché bisogna sempre distinguere fra posizioni d'apertura e mosse dietro le quinte. Le posizioni d'apertura sono, il più delle volte, le più estreme: al momento, queste posizioni le avverto da tutt'e due le parti. Allora, se ci sono le aperture e bisogna trovare un terreno comune, lo si fa senza troppa pubblicità. Ogni mossa non può essere seguita dai media: se c'è pressione, non possiamo più muoverci. La strada giusta è aprire i negoziati pubblicamente e poi condurli con discrezione, per raggiungere un vero accordo» . Deimille vestiti che Shimon Peres ha indossato nella sua vita lunghissima, l'ultimo gli somiglia di più: la grisaglia tenue e morbida del dialogo riservato, in un Paese costretto da sempre alla divisa ruvida e sgargiante delle emergenze urlate. Un inossidabile padre della patria. Un quasi ottantottenne che ancora s'appassiona di nanotecnologia, impreziosisce i discorsi con poesie giapponesi, tesse opportunità di pace col realismo del tirare a campare. «I leader italiani — dice — li ho conosciuti tutti. Uno che mi ha colpito, però, è stato Andreotti. La prima volta era ministro della Difesa, come me. Molti anni fa. E già m'impressionava la sua saggezza. Un giorno gli chiesi come avesse fatto a sopravvivere a tanti governi. Mi rispose: "Guardi, basta non considerare i ministri come amici. Per stare con gli amici, si va in vacanza: stare al governo è un'altra faccenda". M'è sempre piaciuta questa sua saggezza» . Saggio o avventato, Abu Mazen sogna di proclamare l'indipendenza palestinese entro l'anno.
Ha qualche chance?
«Penso di sì. Le distanze possono essere colmate. E credo che entrambe le parti debbano cercare di rinnovare i negoziati diretti. Perché molte cose sono cambiate. Dal punto di vista israeliano, oggi noi siamo per la soluzione dei due Stati: una volta non era così, l'opzione dei due Stati era controversa. Adesso i palestinesi stanno costruendo il loro Stato col sostegno d'Israele. Con un'economia, istituzioni, forze di sicurezza. I progressi sono sotto i nostri occhi. Anche se ci sono altri passi da fare e si devono superare le questioni controverse che ancora rimangono» .
Il presidente Napolitano, quand'è venuto in Israele, ha annunciato che d'ora in poi la Palestina avrà un vero «ambasciatore» a Roma…
«Ho la massima stima per il presidente Napolitano, penso sia una persona eccezionale. Però non sono sicuro che questo fosse un passo necessario: se non c'è uno Stato, come può esserci un ambasciatore? Siamo d'accordo sul principio che i palestinesi abbiano un loro Stato. Ma solo quando ne avranno uno, allora sarà il momento d'avere anche un ambasciatore» .
I palestinesi possono avere anche un loro esercito?
«No. La maggior parte degli israeliani è d'accordo sul fatto che lo Stato palestinese sia smilitarizzato: accettano solo una forte polizia che mantenga l'ordine. I palestinesi si stanno già addestrando alla sicurezza, ci sono più di diecimila uomini istruiti da un generale americano. E questo va bene: la loro polizia è stata istituita col pieno accordo anche d'Israele» .
Abu Mazen ha ripetuto che non può esistere uno Stato palestinese in cui vivano ebrei e coloni.
«Penso che Israele voglia mantenere tre blocchi di colonie in Cisgiordania. Non so se sia il 4, il 5 o il 6 per cento dei Territori: in ogni caso, dovremo ricompensare i palestinesi altrove. E con la stessa percentuale di territori» . E'stato un bene riaprire Gaza sul lato egiziano?
«La Striscia è rimasta chiusa a lungo, ma l'abbiamo fatto solo per evitare il contrabbando d'armi. Se si tratta di portare cibo e medicine, o di far passare gente malata, Gaza è aperta. Purtroppo, lì non c'è un governo democratico: comanda gente che dipende dal terrore, lancia razzi, costruisce tunnel. Questo ci obbliga a difenderci. Se da Gaza smettessero di sparare, o di voler distruggere Israele, la questione sarebbe diversa. Questo è il punto che ci preme: la sicurezza. Come può essere un eventuale partner Hamas, che vuole distruggerci? Anche l'Egitto, non credo abbia voglia d'annettersi Gaza. La Striscia è stata sotto il loro controllo, ma loro non pensano che sia parte dell'Egitto. Perché a Gaza ci sono problemi reali di sofferenza. E non puoi gestirli con accordi separati. Gaza è parte della storia palestinese» .
A proposito d'Egitto: Israele deve temere le rivolte arabe?
«Io do loro il benvenuto. Sono storia vera. Gli Stati arabi stavano soffrendo nella povertà, sotto le dittature, senza benessere. Le generazioni giovani sono istruite, hanno quest'arma sociale di Facebook che passa attraverso la comunicazione. E ora si chiedono come possono cambiare. Paragonano quel che succede a casa loro con le altre nazioni e si domandano perché loro non hanno il diritto di fare richieste. Pongono domande legittime. Hanno diritto a risposte appropriate» .
Da Nobel a Nobel: è stato Obama ad agitare le piazze o sono state le piazze a costringere Obama a muoversi?
«Non ci sono collegamenti. Le rivoluzioni arabe nascono da problemi nella società araba. Non per colpa d'Israele o del conflitto arabo israeliano. Chiaramente, questa voglia di democrazia avrà un effetto sul nostro conflitto. Obama ce l'ha detto con chiarezza: l'America non può imporre la pace sulle nostre teste. Ha promesso: se le due parti si metteranno d'accordo, sono pronto a dare il mio contributo. Dobbiamo ragionare come se fossimo in un triangolo, per raggiungere una comprensione tra noi e i palestinesi, tra noi e gli americani, tra i palestinesi e gli americani. Un accordo è tale se non usi imposizioni. Ma l'unica alternativa alle future rivolte è di raggiungere un accordo. Sforzarsi di raggiungerlo» .
La rivolta in Siria è un'opportunità o un pericolo per Israele?
«Anche questa rivolta non ha nulla a che fare con Israele. La Siria deve scegliere. La situazione economica è quella d'un Paese povero: non hanno cibo, acqua, lavoro. La loro scelta è separarsi in tante tribù, e spero che non lo vogliano fare, o entrare nel Ventunesimo secolo. Non bisogna chiedersi chi sarà a governare. Questo non interessa, se non si risolvono i problemi fondamentali della povertà, dell'assenza di libertà e di progresso. L'unica via d'uscita è quella dei Paesi che scampano alla povertà introducendo un'economia moderna, tecnologia, hi-tech. Ma per avere questo, devi aprire i confini, introdurre trasparenza e relazioni amichevoli. Se invece tu Assad vuoi restare ancora un dittatore, e rimanere separato dal mondo, io siriano non posso essere d'accordo. I giovani hanno aperto gli occhi e difficilmente li richiuderanno. Se Assad non è pronto a fare le riforme, a voltare pagina, se non è pronto a cambiare, sarà la gente a cambiare lui» .
Obama ha invitato anche voi a fare la vostra parte. Per cominciare, tornando ai confini del 1967. Lei che ha combattuto, su quei confini…
«Sul discorso di Obama, distinguiamo un paio di cose, perché non sono come sono state lette. C'è la dimensione della nostra terra, che non c'entra coi confini, e poi ci sono le frontiere del '67. Sono due cose diverse. Perché al '67 non si tornerà mai più. La situazione è cambiata in modo drammatico. E oggi non puoi più spostare centinaia di migliaia di persone, coi rischi per la sicurezza. Anche Obama l'ha detto: lui non consiglia che Israele torni ai confini del '67, ma piuttosto che dobbiamo mantenere la stessa quantità di terra e ricompensare i palestinesi, se questo significherà prendere pezzi della loro terra. Per esempio, Israele vorrebbe mantenere quei tre blocchi in Cisgiordania, per concentrare lì tutti i coloni. Ora, se questo significa prendere della terra ai palestinesi, vorrà dire che ridaremo loro altra terra da qualche altra parte. Questa è l'idea del presidente Obama. Almeno, così l'ho capita io»
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