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Il Foglio Rassegna Stampa
01.06.2011 Pakistan, trovato il cadavere del giornalista Syed Saleem Shahzad
Servizi sereti pakistani sospettati di essere implicati nell'omicidio. Analisi di Daniele Raineri, Alberto Mucci, Marco Pedersini

Testata: Il Foglio
Data: 01 giugno 2011
Pagina: 7
Autore: Daniele Raineri - Alberto Mucci - Marco Pedersini
Titolo: «Il miglior reporter del Pakistan è stato ucciso dai servizi segreti? - Il doppiogiochista che incastra gli stragisti di Mumbai - Paranoia pachistana.Ci vogliono prendere l’atomica»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/06/2011, a pag. III, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Il miglior reporter del Pakistan è stato ucciso dai servizi segreti? ", l'articolo di Alberto Mucci dal titolo "Il doppiogiochista che incastra gli stragisti di Mumbai ", l'articolo di Marco Pedersini dal titolo " Paranoia pachistana.Ci vogliono prendere l’atomica ". Ecco i pezzi:

Daniele Raineri - " Il miglior reporter del Pakistan è stato ucciso dai servizi segreti? "


Syed Saleem Shahzad                    Daniele Raineri

Ieri hanno trovato morto nella sua macchina il giornalista pachistano Syed Saleem Shahzad, a duecento chilometri dalla capitale Islamabad. Era stato rapito domenica sera, mentre stava guidando verso gli studi di una televisione. Per chi si occupa delle notizie in arrivo dalla guerra nel sud dell’Asia, a cavallo tra l’Afghanistan e il Pakistan, Saleem era quasi una celebrità. Ci sono i grandi inviati americani, come Mark Mazzetti del New York Times, o Dexter Filkins del New Yorker, che hanno sempre uno scoop o un retroscena da leggere perché hanno contatti favolosi nei corridoi dell’Amministrazione americana, o dentro la Cia, o fra gli ufficiali del Pentagono. Con SSS era lo stesso, aveva storie e contatti imbattibili, ma dall’altra parte della barricata, dov’è ancora più difficile: tra i comandanti talebani che combattono una guerra furiosa nel sud dell’Afghanistan, tra i capi di al Qaida, tra i guerriglieri che presidiano la frontiera pachistana, nel mondo pieno di ombre dei servizi segreti dell’Afpak. Era il tipo di giornalista che fa trasecolare gli altri giornalisti. Quando si finiva di leggere un suo pezzo ci si chiedeva: “Ma come fa?”. Non che il suo lavoro filasse senza pericoli. Nel 2006 una banda di talebani lo sequestrò a Helmand, la provincia più violenta dell’Afghanistan, ma dopo qualche giorno lo rilasciò. Riceveva avvertimenti continui dall’intelligence militare di Islamabad, gli articoli erano troppo densi di dettagli, troppo interessanti, troppo chiarificatori. Fu lui a dare per primo la notizia dei colloqui di pace tra i talebani e gli americani – ma, come accade spesso, quando il Washington Post lo scrisse due settimane dopo sembrò uno scoop mondiale del giornale americano. Saleem non faceva parte della guerra per bande del giornalismo pachistano, dove ognuno ha sponsor a cui deve rispondere, ma lavorava come inviato – anzi, come capo di un minuscolo “Pakistan Bureau” – per AsiaTimes, un giornale online di Hong Kong, in inglese e cinese, con proprietari thailandesi, completamente gratuito, con articoli così buoni – anche se spesso con tesi opposte le une alle altre – e una batteria di collaboratori internazionali da fare tremare i giornali cartacei in ogni parte del mondo (ma pochi lo conoscono, e resta la delizia di pochi appassionati di politica estera). Ma, in quanto pachistano, Salaam aveva vantaggi inarrivabili: nelle foto, con la barba nera e la carnagione olivastra, si distingue a stento dai suoi compagni di strada durante i viaggi tra i gruppi estremisti; eppure con la cravatta, poteva passare per il più rispettabile e accurato degli analisti. In più, aveva un paio di occhi allegri e una faccia paffuta che ispiravano fiducia senza condizioni, e chissà che questo non gli abbia scampato momenti brutti in più di un’occasione. Una settimana fa è uscito il suo primo libro, con un titolo brutto:“Inside al Qaeda and the Taliban – Beyond Bin Laden and the 9/11”, che racconta quanto è successo dopo l’11 settembre ma dalla parte del nemico, le lotte di successione, la riorganizzazione, i contatti con i servizi segreti. Il titolo che aveva in origine era più bello e rendeva meglio la ricchezza degli aneddoti contenuti: “Le mille e una notte di al Qaida”. Già poche ore dopo il rapimento di Salaam, tutto il circolo dei parenti e dei colleghi era certo: sono stati i servizi segreti militari. Il giornalista era stato da poco convocato perché aveva rivelato una brutta storia di infiltrazione di al Qaida dentro la marina del paese: l’attacco alla base navale di Karachi della settimana scorsa non sarebbe stato che un colpo per punire l’arresto degli infiltrati. Pochi giorni fa, un ufficiale dell’Isi che ha chiesto a Salaam di smentire quell’articolo sulla marina lo ha minacciato con modi soavi: “Se trovassimo il tuo nome su una lista di bersagli dei terroristi, te lo faremmo sapere”. Il corpo del giornalista è stato trovato a Sara Alamgir, dove il capo di stato maggiore pachistano Ashfaq Kayani ha studiato. C’è già chi ci legge un avvertimento dei servizi deviati contro il generale. L’unico che potrebbe spiegarlo con un pezzo chiaro dei suoi ci ha appena lasciato.

Alberto Mucci : " Il doppiogiochista che incastra gli stragisti di Mumbai "


Pakistan

Il rapporto tra l’America e il Pakistan è in rotta di collisione. A Chicago è in corso un doppio interrogatorio che ha già messo in luce verità scomode, sull’Isi, il servizio spionistico pachistano, e sugli uomini che l’America ingaggia per difendere i propri interessi. Gli imputati sono un cittadino americano di origine pachistana, Daood Gilani, e un pachistano-canadese, Tahawwur Hussain Rana, titolare di una compagnia con base a Chicago che aiuta gli immigrati (sopratutto pachistani) ad arrivare in città. I due sono colpevoli di dodici reati, incluso “spionaggio” e “rapporti con il gruppo estremista Lashkar-e-Taiba”, un movimento islamico con base in Pakistan legato ad al Qaida che opera principalmente nelle zone del Kashmir e del Punjab. Gilani è già stato condannato all’ergastolo e al pagamento di una multa da tre milioni di dollari nel maggio del 2010. I riflettori sono tornati sul caso la settimana scorsa dopo che una Corte di Chicago ha messo nuovamente sotto torchio i due terroristi internazionali. Le prime rivelazioni sono già arrivate: Gilani ha detto esplicitamente che l’Isi è responsabile degli attentati che nel 2008 a Mumbai causarono quasi duecento vittime, tra cui sei cittadini americani. Gilani faceva riferimento direttamente al maggiore Iqbal, un misterioso capo dell’Isi non meglio identificato. Quando il 26 novembre Mumbai si ritrovò sotto ferro e fuoco per tre giorni, scossa da una decina di attacchi, incluso il prestigioso hotel a cinque stelle Taj che vanta sul libro degli ospiti personaggi del calibro di Winston Churchill, l’India non ha aspettato le confessione di Gilani, ha subito additato il suo vicino (che ha sempre però negato) come responsabile. Il processo di Chicago è la conferma dei sospetti indiani (e americani). Gilani ha subito confessato che “la Chabad House (un bersaglio degli attentati di Mumbai, ndr) sarebbe stata aggiunta a qualunque lista di obiettivi perché fungeva solamente come facciata di un ufficio del Mossad” e ha continuato rivelando che “Iqbal sembrava deluso dal fatto che l’aeroporto fosse escluso dagli obiettivi”. L’attentato di Mumbai (noto come “26/11”), è stato l’unico ad aver avuto successo. Nel gruppo Gilani era responsabile dell’intelligence; aveva il compito di studiare gli obiettivi, filmare per giorni i bersagli scelti in modo che tutto andasse per il meglio (qualche settimana prima del 26/11 Gilani si trovava in India per fare un sopralluogo). Dopo Mumbai nel mirino c’era la sede del giornale danese Jyllands-Posten (nome in codice dell’operazione Mickey Mouse), che il 30 settembre del 2005 pubblicò alcune caricature del profeta Maometto, scatenando rabbia e violente proteste nella maggior parte dei paesi musulmani. Alla lista, rivela il processo, si aggiunge una sinagoga di Copenaghen che Gilani aveva adocchiato da tempo (già a Mumbai fu colpita la Naram house, il maggior luogo di ritrovo ebraico della città, oltre a essere un ostello gettonato dai viaggiatori israeliani). L’attacco in Danimarca, pianificato pochi mesi dopo quello di Mumbai, non avvenne mai. Gilani incontratosi con alcuni membri di Lashkar-e-Taiba a Lahore, all’inizio del 2009, fu istruito di “sospendere tutte le operazioni”. Le ragioni ufficiali, si evince dal processo, furono perché il gruppo terroristico “era sotto pressione dopo Mumbai e voleva mantenere il profilo basso”. Le confessioni di Gilani (il processo non è ancora finito e ci si può aspettare di tutto, c’è già il ANNO XVI NUMERO 127 - PAG III IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 1 GIUGNO 2011 sospetto che Gilani abbia inventato tutto solo per salvare la pelle) sull’Isi arrivano dopo il blitz dei Navy Seal, l’unità speciale della marina americana, nella villa di Osama bin Laden, ad Abbotabad, a pochi chilometri da un’accademia militare d’eccellenza dell’esercito pachistano. I sospetti sul doppio gioco dell’Isi si sono così, con il processo a Gilani, indiscutibilmente materializzati. Daood Gilani di doppi giochi ne sa qualcosa: la sua vita è una spy story con i fiocchi, da far invidia a qualunque aspirante James Bond, un uomo che ha fatto tutto e il contrario di tutto, ha lavorato per il governo americano e allo stesso tempo cospirato contro i suoi alleati, ha agito come emissario segreto della Dea (il dipartimento americano che lotta contro il narcotraffico) mentre contrabbandava eroina. Inviato da Washington in missione in Pakistan con il compito di controllare i signori della droga locali, tra una spiata e l’altra, trova il tempo di visitare e partecipare ai campi di addestramento di Lashkar-e-Taiba e imparare a sparare e usare un Ak-47 come un vero maestro. E’ proprio lì che Gilani ha incontrato i leader del gruppo terroristico e pianificato gli attacchi. Il rapporto con l’agenzia antidroga di Washington inizia nel 1987 quando Gilani viene fermato dalla polizia appena prima di imbarcarsi su un volo per gli Stati Uniti. Nel doppio fondo della valigia ci sono però due chili di eroina. Catturato, Gilani è così ansioso di collaborare che dopo innumerevoli interrogatori il governo americano si fida (almeno parzialmente) di lui. Gilani se la cava con pochi anni di carcere e sarà presto una delle spie americane operative nelle zone tribali pachistane. Per facilitare gli spostamenti, Gilani cambia il suo nome da Daood (nome urdu che a causa dei frequenti viaggi può destare sospetti) in quello più occidentale di David Headley. Ieri come oggi, al processo non mostra nessuna remora nel collaborare con la polizia per ottenere uno sconto della pena (se non stesse confessando a Chicago sarebbe stato condannato a morte). La madre di Gilani, Serrill Headley, ha detto che la sua doppia natura “si poteva notare negli occhi, uno verde e uno marrone”. Le radici della doppia natura di Gilani sono scritte nell’adolescenza strattonata tra Philadelphia e Lahore, tra gli eccessi di un’America nel pieno della sua espansione economica e un Pakistan che flirta con l’islam per cercare un’identità nazionale. I genitori incarnano il bipolarismo di Gilani: il padre, Sayed Salim Gilani, diplomatico in carriera è anche poeta e musicologo e conquista la madre, Serrill Headley, da subito. Dopo un breve periodo negli Stati Uniti la famiglia si trasferisce a Lahore e il padre si riavvicina all’islam conservatore. Passano pochi anni e Serill decide di trasferirsi nuovamente negli Stati Uniti, dove Gilani la raggiungerà tredici anni dopo. La vita a Philadelphia è l’opposto di quella di Lahore. La madre dopo una serie di lavori saltuari apre l’ancora oggi famoso Khyber Pass Bar nel mezzo della downtown più in voga di Philadelphia. E’ un vecchio bar che Serrill decide di rimettere a posto, e le decorazioni ispirate all’Afghanistan e al Pakistan lo rendono presto un ritrovo bohemien dove si consumano liquori e marijuana. Il giovane Gilani non reagisce bene, sono anni bui e difficili per la sua vita: la madre prova a iscriverlo a un’accademia militare, ma dura solo pochi mesi. Intanto, passa molte delle sue serate al Khyber Pass Bar. E’ qui che Gilani inizia a coltivare il suo odio per la cultura occidentale e per l’India. Alcuni amici raccontano che ogni volta che incrociava un indiano per strada sputava per terra per ostentare il suo disprezzo, mania che si è portato appresso fino a oggi. Il New York Times definisce l’epopea di Gilani – da Lahore a Philadelphia e ritorno – come la storia di “un uomo oggi fondamentalista musulmano ma che un tempo amava fumare marijuana”, una contraddizione che Gilani ha sempre sentito profondamente e contro ogni suo volere ha finito paradossalmente per aiutare gli Stati Uniti: dopo le sue confessioni e i suoi doppi giochi, l’America non può che chiedersi se non riconsiderare molti dei suoi alleati nella lotta al terrorismo, da Gilani al governo di Islamabad.

Marco Pedersini - " Paranoia pachistana.Ci vogliono prendere l’atomica "


Marco Pedersini

Allo svincolo di Faizabad, alle porte di Islamabad, c’è un monumento stravagante, alto sei metri: è un plastico del monte Chaghi, che ricorda agli automobilisti pachistani il glorioso test nucleare del ’98, il primo condotto da un paese musulmano. Ventiquattro anni dopo l’India, anche il Pakistan aveva ufficialmente la sua bomba. Si compiva il sogno di Zulfiqar Ali Bhutto: “Se gli indiani avranno una bomba anche noi ne avremo una, a costo di mangiare erba e foglie per i prossimi cento anni. I cristiani hanno l’atomica, gli ebrei hanno l’atomica e ora ce l’hanno anche gli indù. Perché non possono averla anche i musulmani?”. Quando lo racconta, A. Q. Khan – il padre dell’atomica pachistana, e poi apostolo nucleare in Corea del nord, Iraq, Iran e Libia – si riempie ancora d’orgoglio: “E’ stata un’impresa, per una nazione in cui non si riesce a produrre neanche la catena di una bicicletta”. Il test del ’98 non è stata un’impresa episodica. Al momento il Pakistan avrebbe uranio arricchito a sufficienza per produrre un centinaio di testate, a un ritmo che oscilla tra le otto e le venti atomiche all’anno. Lo hanno confermato fonti del Congresso americano al settimanale Newsweek: “Non c’è dubbio: al momento quello pachistano è il programma atomico più prolifico al mondo”. Da quando la minaccia globale si chiama al Qaida, le bombe nucleari sono diventate un impiccio: non proteggono dal terrorismo, sono inutili nella lotta alla guerriglia e mantenerle al sicuro costa troppo. Ma per il Pakistan è innanzitutto una questione di pessimi rapporti di vicinato: l’India sta investendo nel proprio esercito qualcosa come 50 miliardi di dollari per i prossimi 5 anni, una spesa improponibile per il Pakistan, che ha la metà dei soldati dell’India. La distanza, allora, si colma con gli ordigni nucleari. Secondo i dati ufficiali, il governo di Islamabad spende l’un per cento scarso del pil per la Sanità e il 16 per cento per le forze armate. Una strategia che giova al programma nucleare: immagini satellitari del mese scorso dimostrano che nel sito di Khushab, poco a sud della capitale, è appena stato costruito un quarto reattore, che è quasi pronto per operare. La stampa indiana è preoccupata: pare che i vicini pachistani abbiano almeno una decina di testate di vantaggio. Le previsioni più scettiche si fermano attorno alle ottanta testate, l’equivalente forse dell’arsenale nucleare dell’esercito israeliano. Con una differenza: Israele l’avrebbe accumulato in quarant’anni, con infrastrutture di sicurezza solide; il Pakistan in poco più di tredici, in circostanze molto più precarie. Ci sono decine di testate nucleari sparse nel paese in cui il capo di al Qaida, Osama bin Laden, si è nascosto per anni in una casa vistosa nella periferia di un insediamento militare importante. Sono quasi tutte a sud di Islamabad, come lo è la base militare di Mehran, attaccata il 22 maggio da un commando di Tehrik-e-taliban-Pakistan, un gruppo legato ad al Qaida. I combattimenti sono durati sedici ore, a 24 chilometri da un deposito dove riposano svariate testate nucleari. L’ipotesi che altri terroristi “vestiti come personaggi di Guerre stellari” (secondo la descrizione del ministro dell’Interno pachistano, Rehman Malik) possano prendere di mira l’arsenale nucleare pachistano preoccupa anche i palazzi di Islamabad. Negli ultimi anni, secondo esternazioni del Pentagono e del dipartimento di stato americano, l’esercito pachistano ha implementato la sicurezza delle basi in cui custodisce le testate. Ma si mantiene il massimo riserbo su quanto si possa fare affidamento sulle nuove misure. “I pachistani hanno detto che il materiale nucleare è sotto il controllo dei militari e dei servizi segreti, in particolare il plutonio e l’uranio arricchito – dice l’ex numero due dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Olli Heinonen – ma nessuno di questi impianti è sotto il benché minimo controllo dell’Aiea”. Il capo talebano Ehsanullah Ehsan ha smentito ogni interesse da parte dei miliziani verso l’atomica pachistana: “E’ soltanto una scusa con cui gli americani vogliono spingere il Pakistan a combatterci”. Stephen Hadley, consigliere dell’ex presidente George W. Bush sulla Sicurezza nazionale, non vuole neanche parlarne: “Meno se ne parla, meglio è. Ma si badi bene: il fatto che non se ne parli non significa che non ci sia alcuna preoccupazione”. Hans Kristensen, direttore del Nuclear Information Project della Federazione degli scienziati americani (Fas), è meno criptico: “Se c’è un posto al mondo in cui un ordigno nucleare potrebbe finire nelle mani di un’organizzazione terroristica, quel posto è il Pakistan”. Ma se “nel peggiore degli scenari tutto è possibile”, le ricaduta realistica è meno inquietante. Per motivazioni pratiche, anzitutto: “Sarei sorpreso se qualche organizzazione terroristica riuscisse a rubare un’atomica – dice al Foglio Kristensen – Per farlo devi sapere dov’è, assaltare la base superando tutte le barriere di sicurezza, entrare nei bunker dove sono stoccati gli ordigni, individuarne uno, portarlo fuori e sperare che quello che hai rubato sia in condizione di operare senza apparecchiature addizionali”. C’è anche una seconda ragione: “Per l’esercito pachistano, le atomiche sono come i gioielli della corona, sono la cosa più importante che hanno al mondo – dice Kristensen – Useranno qualunque mezzo in loro possesso per evitare che gli vengano sottratte. Sia perché nessuno cede con piacere un ordigno nucleare, visto che chi lo riceve potrebbe puntarlo contro di te. Sia perché l’esercito ritiene che il suo arsenale atomico sia decisivo per la sicurezza e per la stessa esistenza del Pakistan”. Il generale pachistano Ashfaq Parvez Kayani, capo dell’esercito, non ama parlarne in pubblico, ma ci sono fatti molto eloquenti: la notte della cattura di Bin Laden, racconta il Wall Street Journal, non appena viene avvertito che un elicottero è caduto ad Abbottabad, il generale Kayani ha un brivido: “Non è dei nostri, è un’incursione straniera”. E la sua prima preoccupazione sono le installazioni missilistiche che custodiscono le testate nucleari. Ce n’è una vicino ad Abbottabad e il primo pensiero del generale, nella notte del 2 maggio, è subito per lei. Kayani parla con i fatti, e la cronaca racconta un programma nucleare in progressione costante, come se non si fosse a una manciata di chilometri da un teatro di guerra fra i più pericolosi al mondo. A fine aprile, l’esercito di Islamabad ha testato con successo il missile Hatf (“letale”) VIII, in grado di sparare testate nucleari fino a 350 chilometri di distanza. Con questo ritmo, nel giro di dieci anni il Pakistan avrà tante bombe quanto la Gran Bretagna. Un arsenale corposo infiamma l’orgoglio delle truppe e permette di tenere testa ai vicini indiani, ma, nota Kristensen, “costruire tante atomiche non significa necessariamente che la tua sicurezza nazionale possa migliorare. Anzi, il risultato più scontato è che più pericoloso diventi, più gli altri hanno un buon motivo per puntarti contro le loro testate”. Di fronte alla proliferazione nucleare in un territorio così precario, le risposte praticabili scarseggiano. L’ipotesi più fantasiosa è quella avanzata dal Wall Street Journal: compriamo le bombe, offrendo in cambio aiuti mirati. Islamabad, però, non ha intenzione di negoziare sull’atomica. “Non abbiamo mai avuto leve abbastanza forti per costringere il Pakistan a fare una cosa che proprio non vuole fare – dice Kristensen – ma è ora che qualcuno (l’Aiea, l’Onu o la Nato), chieda a Islamabad: ‘Quante testate nucleari stimate di dover costruire prima di potervi sentire al sicuro? Volete soltanto continuare a costruire atomiche o per caso avete un piano?’”.

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