Riportiamo dall'ESPRESSO del 27/05/2011, a pag. 80, l'articolo di Gigi Riva dal titolo " La grande paura di Israele ".
Gigi Riva
Lo scopo dell'articolo non è informare, ma diffondere menzogne su Israele, un perfetto esempio della disinformazione che il gruppo editoriale dell'Espresso, di proprietà dell' Ing. Carlo De Benedetti, propina ai suoi lettori su Espresso e Repubblica.
Riva scrive : "nel giorno che ricorda la "Nakba", la "Catastrofe" del 1948, la prima guerra persa e il conseguente esodo. L'esercito ha sparato, ci sono stati i morti, la gente se ne è andata.". Quella che i palestinesi chiamano 'catastrofe' è la nascita di Israele. Sarebbe dovuto nascere anche uno Stato palestinese, ma gli arabi l'hanno rifiutato e Gigi Riva si guarda bene dallo specificarlo, dato che comporterebbe l'ammissione del fatto che i profughi palestinesi sono diventati tali per loro scelta, non per imposizione di Israele.
Riva scrive : "non c'è nessuna persona sensata che potrebbe, oggi, reclamare un diritto al ritorno universale che equivarrebbe alla distruzione dello Stato ebraico. E in tutte le trattative semmai è contemplata la possibilità di un ritorno simbolico di qualche migliaio di persone (20 mila?) e una compensazione economica per le altre.". Secondo la controparte palestinese, viene richiesto il diritto al ritorno di tutti i profughi, discendenti compresi. Riva cerca di minimizzare e sostiene che non è così, che si tratterebbe 'solo' di 20.000 persone. Non è ben chiaro per quale motivo dovrebbe essere accordato un 'diritto' simile. Quando Israele è stato fondato nessuno ha cacciato la popolazione araba locale. Sono stati i Paesi arabi limitrofi a farlo. Gli arabi che hanno scelto di rimanere in Israele godono degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini, sono rappresentati alla Knesset e hanno la cittadinanza israeliana. Riva, però, non scrive nemmeno questo. Meglio far credere che Israele, per capriccio, si opponga al 'ritorno' di qualche migliaio di persone. La parte dell'intransigente la fa Israele, non Abu Mazen che rifiuta tutte le offerte.
Secondo Riva, Israele dovrebbe cogliere le 'opportunità' offerte dalla 'Primavera araba'. Quali sarebbero, queste opportunità, non è dato saperlo. Forse Israele dovrebbe gioire dell'apertura del valico di Rafah, tra Egitto e Gaza. Grazie a questo, Hamas avrà l'opportunità di ricevere liberamente armi dall'Iran per usarle contro Israele.
Per quanto riguarda i rapporti tra Netanyahu e Obama, Riva scrive : " I rapporti tra i due non sono mai stati idilliaci anche a causa della riottosità di Bibi a sedere attorno a un tavolo con la controparte con la motivazione che «non c'è un interlocutore». ". Forse Riva era distratto, durante gli ultimi negoziati. Se no saprebbe che Abu Mazen ha aspettato che la moratoria sulle costruzioni scadesse per sedere al tavolo dei negoziati, salvo chiedere una proroga solo per restare. Garanzie offerte in cambio? Nessuna. Israele avrebbe dovuto cedere al ricatto senza ottenere nulla.
Riva continua ad addossare a Netanyahu la colpa del fallimento dei negoziati: " la politica del suo governo, con l'ok ai coloni a costruire in Cisgiordania e a Gerusalemme est non agevola la distensione e i colloqui diretti sembrano lontani. Ma un'alternativa a questo governo riluttante non si intravede. Ci si chiede dove sia mai la sinistra israeliana.". Ovviamente, se Netanyahu fa naufragarei negoziati è perchè è di destra, se fosse di sinistra tutto filerebbe liscio.
Riva continua : "Alla domanda, la risposta più gettonata è: «Tzipi Livni potrebbe condurre le trattative visto che è favorevole alla soluzione due popoli per due Stati e ha fatto di questo il cardine della sua politica». Ora che Tzipi Livni sia espressione di una sinistra possibile è il segno dei tempi. Viene da una famiglia del Likud, ha seguito Sharon nella scommessa di Kadima, fu il ministro degli Esteri che promosse l'ultima guerra in Libano. ". Tzipi Livni potrebbe sostiuire Netanyahu? Forse, però ha un difetto fondamentale: il suo esordio politico è stato nel Likud, lo stesso partito di Netanyahu. Non si capisce che cosa intenda Riva, con queste parole, nè si comprende a che cosa sia dovuto l'attacco a Sharon.
Ariel Sharon si è impegnato a fondo nei negoziati coi palestinesi, ha ceduto la Striscia di Gaza mettendosi contro il proprio partito ottenendo che cosa, in cambio? Che la Striscia è finita nelle mani di Hamas ed è una enorme piattaforma lanciarazzi contro Israele e la sua popolazione.
Questi sono i fatti, ma Riva non li scrive, da eccellente specialista in quelle che abbiamo definito, tra le altre, " menzogne omissive"
Ecco l'articolo:
Per usare la metafora meteorologica, il vento della rivolta e dei cambiamenti scuote il Medio Oriente, nel Maghreb si è trasformato in un nubifragio, eppure nell'epicentro di tutte le tensioni, nell'area tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, tra Israele e Palestina, insiste un anticiclone che garantisce, finora, calma piatta, aria immota. Una contraddizione stridente che tutti gli osservatori risolvono con la formula: la quiete prima della tempesta. Le avvisaglie di nuvole in arrivo, ricacciate ma c'è da scommettere che torneranno, si sono avute il 15 maggio scorso, quando decine di migliaia di palestinesi si sono presentati ai confini di Israele nel giorno che ricorda la "Nakba", la "Catastrofe" del 1948, la prima guerra persa e il conseguente esodo. L'esercito ha sparato, ci sono stati i morti, la gente se ne è andata. Tutto risolto? In apparenza, se in Israele non si parla d'altro e quella marcia evoca una grande paura. Cosa succederebbe se si ripresentassero, magari in milioni (i profughi e i loro discendenti sarebbero a seconda delle stime tra i 3,5 e i 4,5 milioni)? È una di quelle domande che non hanno risposta soddisfacente. Sia chiaro: non c'è nessuna persona sensata che potrebbe, oggi, reclamare un diritto al ritorno universale che equivarrebbe alla distruzione dello Stato ebraico. E in tutte le trattative semmai è contemplata la possibilità di un ritorno simbolico di qualche migliaio di persone (20 mila?) e una compensazione economica per le altre. È però interessante capire la genesi di un evento inaspettato, almeno in quelle proporzioni. Tutto è nato da una pagina Facebook creata da un anonimo e dal titolo "La Terza Intifada palestinese". Nonostante i tentativi di cancellare i post più estremi contro Israele e gli ebrei, molti messaggi inneggianti alla violenza hanno circolato e prima che la pagina fosse chiusa in seguito alla protesta di Yuli-Yoel Eldestein, 52 anni, ministro dell'Informazione e della Diaspora di Gerusalemme, aveva toccato la mirabolante cifra di 340 mila fans. In stragrande maggioranza giovani che si sono mossi prima dei partiti tradizionali (i secolaristi di Fatah, i fondamentalisti di Ha-mas) e li hanno obbligati a seguirli. Un campanello d'allarme o «la fine dell'illusione di Israele di poter vivere comodamente, come una villa nella giungla, tagliata fuori dai drammatici eventi che la circondano», per usare le parole dell'esperto di questioni diplomatiche Aluf Benn. La presa d'atto, scontata, ma finalmente resa esplicita, che «la caduta di Mubarak in Egitto e le difficoltà di Bashar el-Assad in Siria sono per noi un problema strategico», come dice Nahman Shai, un deputato dell'opposizione centrista di Kadima, il partito fondato da Ariel Sharon prima del coma in cui versa dal 4 gennaio 2006. Shai sa di cosa parla, in passato è stato portavoce dell'esercito e conosce i rischi militari connessi ai cambiamenti politici. Perché qui sta la differenza tra Israele e gli Stati confinanti, il motivo per cui «la primavera araba è percepita da noi come un autunno di tempeste» (paragone dello scrittore Michel Warschawski): altrove si è trattato di rivoluzioni interne, senza un nemico alle porte. Non è un caso, allora, se il ministro della Difesa Ehud Barak ha subito badato al sodo, cercando di bussare a quattrini con gli Stati Uniti: «Ci vogliono 20 miliardi di dollari (da Washington ne ricevono già tre all'anno, ndr.) per rafforzare la nostra sicurezza per la prossima generazione». E la risposta militare, riflesso condizionato, pare ancora l'unica sul tappeto per generazioni di politici abituati a ragionare solo con questo criterio nel Paese perennemente assediato e dove i fronti paiono moltiplicarsi: Gaza e il Libano i più bollenti; la Cisgiordania e la Siria; non sia mai, in futuro, l'Egitto e la Giordania se lo sbocco delle rivolte democratiche dovesse avere un retrogusto fondamentalista. I soldati, la tecnologia, la supremazia bellica: insieme la forza e la debolezza dello Stato ebraico che, almeno per ora, vede solo i limiti e non le opportunità dei cambiamenti di regime e si rifugia nella sola certezza che possiede. «E troppo presto per giudicare, aspettiamo di vedere cosa succede al Cairo dopo le elezioni», è il mantra ripetuto nei ministeri, la massima concessione alla speranza che ha, insita, una sempiterna diffidenza. Con sfumature di diversa intensità a seconda della fede politica, è questo il sentimento largamente diffuso. Che non impedisce, tuttavia, di continuare a fingere una normalità figlia della calma relativa del periodo (giorno della "Nakba" a parte). E pieno di bagnanti e surfisti il lungomare di Tel Aviv, traboccano le sue discoteche notturne, mentre a Gerusalemme i turisti affollano la Città Vecchia e compiono il giro canonico dei luoghi a differente titolo santi. L'economia tira, il Pil è cresciuto del 4,7 per cento nel primo trimestre del 2011, negli ultimi anni le aziende hanno investito 50 miliardi di dollari negli Stati Uniti e Israele conta più società al Nasdaq di Europa, Cina, India e Giappone messe insieme. Che poi questo sia un ballo sul Titanic, il tempo lo dirà. Così come dirà se restare immobili, quando attorno tutto cambia, sarà stata la scelta migliore. Non c'è membro della maggioranza di governo che non sia su posizioni scettiche o di rivendicazioni di un primato nell'area sul terreno della credibilità. Il vice-ministro degli Esteri Danny Ayalon: «E davvero straordinario che molti sostenitori della così definita "Primavera araba" siano critici o condannino l'unica vera "Primavera" di successo nel Medio Oriente, capace di garantire da 63 anni democrazia e libertà, cioè la nostra. Non va dimenticato che nell'ultimo rapporto sullo sviluppo umano dell'Onu (2009) i Paesi arabi stavano al livello più basso». Il 2009 è tuttavia, politicamente, un'era geologica fa. E deve stupire, ma non troppo, che se ne sia accorto, più di altri, Natan Sharansky, famoso dissidente sovietico, liberato 25 anni fa e trasferitosi in Israele. Solitamente su posizioni conservatrici, forse per il ricordo di quanto avvenne dall'89 in poi nella sua terra d'origine, oggi è disposto a un'apertura di credito insolita, a queste latitudini, verso le rivoluzioni in atto: «I ragazzi sono andati in piazza perla volontà di non vivere più in una società dove regna il terrore. È un grande momento, sfruttiamolo. Israele non deve avere paura. Dovremmo essere lieti di quanto sta accadendo in paesi che dipendono largamente dal mondo libero. E dovremmo cercare di vedere se, finalmente, si troveranno nuove vie al processo di pace che non abbiamo come imprescindibile cardine la potenza del nostro esercito». Sul quale, beninteso «bisogna continuare a contare, ma sapendo che la gente, una volta liberata, si preoccupa di quelli che sono i veri problemi della vita». Il salario, il lavoro, come crescere i figli. Le aperture vanno bene ma anche Sharansky, naturalmente, continua ad attribuire ai militari, pilastro dello Stato, un ruolo fondamentale. E non potrebbe essere. Qual è allora l'umore al ministero della Difesa? Più o meno quello che si respira altrove. Dice un ufficiale che chiede l'anonimato: «Conoscevamo bene Mubarak o il suo capo dei servizi segreti, Souleiman. Sapevamo che erano ostili all'Iran, in guardia contro gli estremismi di Hamas, in buoni rapporti con Abu Mazen, rispettosi degli accordi di pace di Camp David. Ma i leader di domani che attitudine avranno in tutte queste questioni? Non lo sappiamo, per questo dobbiamo rimanere vigili». Non sfugga che, prima ancora dei rapporti che verranno col resto del mondo arabo, il nodo irrisolto riguarda i palestinesi. La grande paura di Israele è anche legata alla percezione delle difficoltà nei rapporti col "miglior alleato", gli Stati Uniti. Dopo gli otto anni di George Bush che si faceva dettare l'agenda da Gerusalemme, ecco un Barack Obama che cita i confini del 1967, prima della guerra dei Sei Giorni, come base da cui far partire una trattativa. E anche se concede che quella linea verde può essere modificata con un accordo tra le parti, fa insorgere il premier Bibi Netanyahu: «Quei confini sono indifendibili», ha tuonato. I rapporti tra i due non sono mai stati idilliaci anche a causa della riottosità di Bibi a sedere attorno a un tavolo con la controparte con la motivazione che «non c'è un interlocutore». È pur vero che davanti al Congresso americano ha detto di essere pronto a «compromessi dolorosi per la pace», ma è una frase pronunciata altre volte. Mentre la politica del suo governo, con l'ok ai coloni a costruire in Cisgiordania e a Gerusalemme est non agevola la distensione e i colloqui diretti sembrano lontani. Ma un'alternativa a questo governo riluttante non si intravede. Ci si chiede dove sia mai la sinistra israeliana. Alla domanda, la risposta più gettonata è: «Tzipi Livni potrebbe condurre le trattative visto che è favorevole alla soluzione due popoli per due Stati e ha fatto di questo il cardine della sua politica». Ora che Tzipi Livni sia espressione di una sinistra possibile è il segno dei tempi. Viene da una famiglia del Likud, ha seguito Sharon nella scommessa di Kadima, fu il ministro degli Esteri che promosse l'ultima guerra in Libano. Eppure è l'unica chance. A meno di non considerare tale quell'Amram Mitzna che si propone di riprendersi, con buone possibilità, la guida di quel che resta dei laburisti: quando si presentò alle elezioni del 2003 contro Sharon andò incontro a una plateale sconfitta. La sinistra non ha voce oggi, se non quella di sparuti pacifisti con scarso seguito. Per tutti ecco il loro decano Uri Avnery, di Gush Shalom. Sogna «un gruppo di giovani dirigenti capaci di avere una nuova visione del mondo e dei bisogni di Israele. Capaci di immaginare una "seconda Repubblica" israeliana. La nostra piazza Rabin non è la piazza Tahrir del Cairo, è vero, e ci sono molte differenze. Ma anche la piazza Tahrir di prima non è quella di cui parliamo oggi». Ma invece che la seconda Repubblica in Israele il tema è ancora come difendere la prima.
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