Quando nel 2002 a Roma centoventi paesi votarono per la formazione della Corte penale internazionale dell’Aia, scene di giubilo scandirono questo trionfo umanitarista e multilaterale. Si disse: i genocidaires non avranno più scampo. Per la prima volta, oltre ai casi ad hoc (ex Jugoslavia e Ruanda), un organo super partes dalla sua sede olandese avrebbe agito a livello planetario contro il male. Benjamin Ferencz, che giovanissimo contribuì a far incriminare i gerarchi nazisti a Norimberga e che vinse il processo contro i leader delle Einsatzgruppen (i corpi speciali che avevano fatto assassinare circa un milione di ebrei), proclamò che “la corte dell’Aia è figlia dei processi di sessant’anni anni fa”, “una svolta epocale nella lotta per i diritti umani”, “la base del futuro ordine mondiale”, persino “un miracolo”. George W. Bush fu sommerso di attacchi perché gli Stati Uniti scelsero di non aderire (neanche Obama ha ancora abbracciato la corte). Dieci anni dopo, la corte dell’Aia (da non confondere con la Corte internazionale di giustizia sulla ex Yugoslavia) non ha ancora emesso una sola sentenza, né concluso un solo processo. E il suo procuratore capo, Louis Moreno-Ocampo, da stella umanitaria è diventato una sorta di ingombrante imbarazzo. Ocampo doveva essere la speranza di questa “nuova era del diritto”. Argentino, culturalmente lontano (e avverso) agli Stati Uniti, con una fama di magistrato al processo di Buenos Aires contro la giunta militare argentina, e poi ancora avvocato di Diego Maradona, delle vittime del criminale di guerra Erich Priebke, infine consulente dalla Banca mondiale e professore a Stanford e Harvard, Ocampo è ricordato soprattutto per le photo opportunity scattate a Davos al fianco di Bill Clinton, Angelina Jolie, Michael Douglas, Bono e sir Richard Branson. “I prossimi anni ci diranno se la Corte penale internazionale sia un successo o un fallimento”, aveva scandito nel 2007 Juan Méndez, presidente dell’International Center for Transitional Justice. “Se finisce con un paio di processi e una ventina di mandati di cattura, la fame di giustizia internazionale svanirà completamente”. Quattro anni dopo Méndez forse sarebbe persino più severo con il primo tribunale mondiale permanente incaricato di perseguire i crimini di guerra e contro l’umanità. Sarebbe dovuto bastare lo spettacolo triste del processo a Slobodan Milosevic per capire il fallimento politico della giustizia moralmente superiore. Il fallito tentativo del giudice Baltasar Garzón di mettere sotto processo il generale Augusto Pinochet, quando il Cile da tempo tornato alla piena democrazia aveva ritenuto di non dover incriminare l’ex dittatore, le minacce di incriminazione da parte del governo del Belgio nei confronti del premier israeliano Ariel Sharon, la condanna del barriera di sicurezza israeliana, avrebbero poi confermato quale fosse il vero handicap di questa giurisdizione universale in materia di diritti umani, genocidi e crimini contro l’umanità: è il pregiudizio politico. Che fa strillare se si tratta dell’uomo forte cileno o del generale di Sabra e Chatila, ma sempre glissa su Fidel Castro, Robert Mugabe, Saddam Hussein. Adesso tocca al colonnello Gheddafi, contro il quale è stato spiccato un mandato di cattura da parte del procuratore dell’Aia, l’argentino Ocampo. Sarà un giudice italiano della celebre corte, Cuno Tarfusser, a imbastire il caso contro il colonnello libico. A commentare il mandato d’arresto sul Wall Street Journal è stato l’ex ambasciatore all’Onu, John Bolton, storica nemesi del tribunale: “La corte non farà giustizia, perché è una delle istituzioni più illegittime al mondo. La corte è stata debole e inefficace, agendo come tribunale europeo per i misfatti africani. I sostenitori della corte teorizzano che preverrà crimini futuri. La realtà dice l’estatto contrario”. Ma a criticare l’Aia sono adesso anche i liberal. Sul Guardian, un giornale che ha sempre difeso l’operato e la funzione della corte, è stato appena pubblicato un articolo a firma di Joshua Rozenberg, esperto legale della testata: “Il procuratore Ocampo è il miglior regalo a chi si oppone alla corte internazionale”. Alla fine del suo mandato tra pochi mesi Ocampo probabilmente avrà processato un solo imputato: Israele. Anche il magazine americano Foreign Affairs si è appena domandato in un lungo dossier: “Chi ha paura della corte penale internazionale?”. Il settimanale The Economist ha appena scritto: “La corte penale internazionale ha perso credibilità”. Il giurista Jemermy Rabkin, della Cornell University, ha spiegato che “giustizia internazionale è un mero slogan europeo per controbilanciare la potenza americana”. A giustificazione di questa tesi c’è il fatto che oltre il sessanta per cento del budget della corte penale proviene dall’Unione europea. Nina Shea, che dirige il Centro per la libertà religiosa dell’Hudson Institute, su National Review ha scritto che “il ricorso alla Corte penale internazionale ha completamente fallito”. E su Weekly Standard il giurista Michael Chertoff, coautore del Patriot Act (appena riconfermato da Obama) ed ex segretario alla Homeland Security, ha scritto che “la corte penale internazionale è anche peggio di quanto i suoi critici hanno detto”. Il tribunale sulla ex Yugoslavia aveva compiuto gravi errori procedurali nel caso di Milosevic, come permettere a imputati del suo calibro di difendersi da soli. L’ex dittatore serbo, per nulla intimorito, aveva trasformato il processo in uno show a suo favore. Dubbi sono stati sollevati anche per il processo a Radovan Karadzic, leader dei serbi di Bosnia. Congo, Sudan e Uganda, ma anche Kenya, sono i casi attualmente in piedi alla corte dell’Aia che si stanno già arenando. “La corte non è riuscita a completare nemmeno un processo”, scrive Foreign Affairs. “Il sospettato di maggior profilo, il presidente sudanese Omar al Bashir, si è sottratto all’arresto”. Il professor Alex de Waal, che insegna ad Harvard e ha iniziato a interessarsi alla regione del Darfur ben prima che divenisse la causa di George Clooney e Nicholas Kristof, ha definito il mandato d’arresto contro Bashir un “coup de théâtre”. Un colpo di scena. Tetrale ma inutile, forse persino dannoso. Quanto a Ocampo, il professore di Harvard taglia corto: “E’ un uomo che diminuisce più ci si avvicina”. La Corte penale internazionale ha una giurisdizione molto ampia, ma una autorità intrinsecamente fragile e la sua efficacia dipende dalla cooperazione dei governi. Sei anni dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha denunciato la situazione in Sudan, alla corte penale internazionale non c’è ancora un sospettato in custodia. In casi delicati che riguardano gli Stati Uniti, come la denuncia dell’Iran per l’attacco ad alcuni pozzi petroliferi durante il governo di Khomeini o il procedimento del Nicaragua contro Washington, per la guerriglia dei contras, all’Aia si è visto bene di condannare gli Stati Uniti. Il procuratore Ocampo ha anche lasciato presagire inchieste sull’operato delle forze militari americane in Afghanistan: “Studierò possibili crimini di guerra commessi da soldati statunitensi”, ha detto il magistrato argentino. L’ex presidente americano George W. Bush nel 2002 fu costretto a promulgare l’American Service Members Protection Act, noto anche eufemisticamente come “L’invasione dell’Aia”, per proteggere soldati americani dai mandati d’arresto della corte. La famosa lentezza e miopia dei magistrati dell’Aia svanisce non appena si tratta di Israele. La corte internazionale di giustizia ha condannato Gerusalemme per aver eretto un muro di difesa del proprio territorio dagli attacchi terroristici palestinesi. La questione posta alla corte non verteva sull’atrocità del terrorismo arabo ma sulla legittimità e la legalità della barriera difensiva. La corte Onu, insomma, non ha tenuto conto del diritto israeliano alla sicurezza né del fatto che dopo la costruzione della barriera-muro gli attentati terroristici sono diminuiti drasticamente. C’è un’altra stranezza che denota il pregiudizio antisraeliano. La corte solitamente si prende un paio d’anni per affrontare anche le più urgenti questioni all’ordine del giorno, come per esempio la causa di genocidio intentata dai bosniaci contro i serbi. Nel caso di Israele in due mesi la decisione era già pronta. A fine luglio del 2004, è arrivata anche una risoluzione dell’Assemblea Generale che ha chiesto a Israele di smantellare il muro e di pagare i danni. Questa giustizia dell’Aia è diventata anche una macchina dispendiosa. Ci sono milleduecento persone impiegate all’uopo alla corte, un budget annuale di cento milioni di dollari, la spesa numero due dell’Onu dopo le truppe peacekeeping, un budget monumentale per appena sette processi in corsi, cinque appelli e tre casi in preparazione. A differenza della Corte di Norimberga, quella dell’Aia non può però erogare condanne a morte e neanche in contumacia. Però può pubblicare i risultati delle indagini, e anche emanare mandati di cattura internazionali. Poca cosa per fermare davvero le stragi in corso. David Hoile dell’Africa Research Center ha appena pubblicato un libro dal titolo emblematico: “The International Criminal Court: Europe’s Guantanamo Bay?”. E’ un micidiale atto d’accusa garantista contro il tribunale dell’Aia, documentato e circostanziato nei fatti e nelle sentenze, negli uomini e nei finanziamenti. “La corte ha prodotto testimoni che hanno ritrattato la propria testimonianza quando sono finiti sul banco del tribunale”, scrive Hoile. “La corte penale internazionale sta diventando sempre più oggetto di derisione”. Nella republica democratica del Congo sono morte quasi cinque milioni di persone dal 1998, a seguito di conflitti fra singori della guerra e forze governative. Nessuno è mai stato portato in giudizio all’Aia. Come nessuno ha ancora dovuto rispondere dei duecentomila morti e quasi due milioni di sfollati che in Uganda ha causato Joseph Kony con il suo Lord’s Resistance Army. Nella repubblica del Centrafrica c’è un solo sospettato, Jean-Pierre Bemba Gombo, mentre in Darfur sono stati spiccati invano mandati d’arresto per Ahmed Harun, ex ministro degli Interni sudanese, e Ali Kushaib, a capo delle forze sterminatrici Janjaweed. Anche il caso kenyota è rivelatorio. Ocampo aveva aperto una inchiesta sulle violenze post-elettorali del 2007, che avevano causato la morte di un migliaio di persone. Il procuratore aveva chiesto l’arresto dell’ex ministro delle finanze e dell’ex capo della polizia. Il parlamento di Nairobi ha risposto chiedendo l’uscita del paese dal trattato di Roma su cui si basa la corte dell’Aia. Human Rights Watch ha anche più volte criticato la qualità dei magistrati chiamati a gestire la giustizia internazionale all’Aia, accusando l’istituzione di essere un buen ritiro legale, più che una effettiva corte penale. Un caso da manuale è stato il giapponese Fumiko Saiga, nominato giudice nel 2007 senza avere alcuna esperienza giuridica (era stato semplicemente ambasciatore presso Norvegia e Islanda). Il tribunale dell’Aia inoltre è tutt’altro che rappresentativo della composizione internazionale. Stati Uniti, Russia, Cina, Indonesia, India e Pakistan non ne fanno parte, per cui la corte rappresenta appena il 27 per cento della popolazione mondiale. Hoile spiega così Ocampo: “Un disastro per la legge internazionale, un disastro per gli europei che hanno investito tanto tempo e denaro nella Corte, e più acutamente un disastro per l’Africa”. John Rosenthal sulla Policy Review è stato altrettanto impietoso: “La corte rappresenta la negazione dei principi classici del diritto internazionale dell’Onu. E’ un tribunale canaglia”. Dieci anni di mediatiche “inchieste”, annunci di mandati di cattura, un miliardo di dollari spesi, una serie di giaculatorie umanitarie, ma zero processi. E’ il tribunale permanentemente inutile dell’Aia.
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