Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/05/2011, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri e Luigi De Biase dal titolo " Provarle tutte con gli arabi ".
Daniele Raineri, Luigi De Biase
Le bombe non smuovono il colonnello. Il 19 marzo, venti caccia decollati dalla Francia meridionale hanno attraversato il cielo della Libia colpendo quattro carri armati che muovevano dalla città contesa di Misurata verso Bengasi, la capitale dei ribelli che si oppongono a Muammar Gheddafi. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha dato notizia dell’attacco al termine di una riunione con i rappresentanti degli Stati Uniti e di molti alleati europei – si dice che il suo annuncio abbia creato imbarazzo fra i paesi che, pochi minuti prima, avevano stabilito le regole per fermare l’esercito di Gheddafi. E’ cominciata così la guerra di Libia, l’unico, massiccio intervento militare dell’occidente nella stagione delle rivolte arabe. Negli altri casi, l’Europa e gli Stati Uniti hanno cercato soluzioni alternative – senza avere sempre fortuna. La comunità internazionale ha scelto di usare le maniere forti con il rais libico e lo ha fatto subito. Le proteste sono cominciate alla fine di marzo; in poco tempo, i ribelli hanno preso il controllo di Bengasi, nella parte orientale del paese, e hanno proclamato un governo autonomo. Gheddafi li ha accusati di essere “terroristi” e ha minacciato di “stanarli casa per casa”. E’ stato allora che il presidente americano, Barack Obama, ha messo da parte i toni pacati con i quali aveva seguito le rivolte in Egitto e in Tunisia e ha chiesto al colonnello di lasciare il potere. Francia e Gran Bretagna, i due grandi sponsor di questa campagna, hanno tradotto in fatti l’appello della Casa Bianca: prima con una risoluzione del Consiglio di sicurezza che permette di difendere i civili dagli uomini di Gheddafi, poi con una serie di attacchi contro le basi militari del rais. Il passaggio è stato così rapido che ha colto di sorpresa le diplomazie impegnate nella soluzione del conflitto. Risultato: i raid hanno distrutto l’esercito di Gheddafi, ma i ribelli non sono ancora riusciti a sconfiggerli sul terreno; il rais è probabilmente in fuga, ma Tripoli è ancora sotto il suo controllo; molti paesi dell’occidente hanno riconosciuto il Consiglio di Bengasi, ma non possono interrompere le trattative con il vecchio regime – proprio ieri, fonti del governo hanno chiesto la fine dei bombardamenti e hanno dato la propria disponibilità alle trattative. Dalla guerra per difendere i civili, si è passati alla guerra per distruggere di Gheddafi. Che, adesso, potrebbe anche essere incriminato alla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità.
I soldi non convincono Saleh. In Yemen la comunità occidentale ha provato a controllare il presidente Ali Abdullah Saleh grazie a una fitta e avvolgente rete di mediazioni e finanziamenti, organizzata su più strati. Il primo strato è quello americano, parecchio sostanzioso: più cresce l’allarme su al Qaida, più Washington manda denaro e ne promette ancora di più. La curva dei finanziamenti a fondo perduto arrivati dall’America negli ultimi dieci anni è una retta scagliata verso l’infinito: dai 400 mila stenti dollari in aiuti alimentari dell’anno 2000 si è passati ai 170 milioni di dollari soltanto in campo militare dell’anno corrente e ai 250 previsti per l’anno corrente – anche se adesso probabilmente la Casa Bianca ci sta ripensando. Il secondo strato è quello degli Amici dello Yemen, un’organizzazione di paesi creata dopo l’attentato al volo di Natale per Detroit nel dicembre 2009, tentato da uno studente nigeriano addestrato in Yemen. Gli Amici, di cui fanno parte anche l’Italia, la Gran Bretagna e l’Arabia Saudita, si sono impegnati a riempire di denaro le casse del governo di Sana’a, a patto che il governo si impegni a battere i terroristi di al Qaida. A dispetto della pioggia di soldi, per un paese che non ha più risorse a parte un rivolo di petrolio che si sta esaurendo, né l’Amministrazione Obama né gli Amici sono riusciti a sbrogliare la situazione. Gli studenti, i clan e mezzo esercito sfidano il regime trentennale del presidente e quello, dopo aver finto per tre volte di firmare la sua resa, è ancora lì. Ci ha provato anche il GCC, il Gulf Cooperation Council, il gruppo dei sei regni del Golfo, che con la benedizione dei paesi occidentali – ehi, hanno pensato nelle cancellerie, forse ascolteranno i loro vicini con più attenzione – ma non ha funzionato. Il risultato è che la protesta gandhiana e pacifica degli studenti sta lasciando il posto a una guerra civile fra i fedeli di Saleh e i clan armati fino ai denti.
Un miliardo non basta all’Egitto. Quando i giovani egiziani hanno preso le strade del loro paese per chiedere le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, molti in occidente hanno pensato di trovarsi di fronte a una nuova Primavera di Praga. Anche il capo della Casa Bianca, Barack Obama, ha lentamente slacciato l’amicizia storica che legava Mubarak agli Stati Uniti e ha scelto di sostenere il cambiamento. Un ex ambasciatore, Frank Wisner, fu inviato al Cairo per convincere Mubarak a lasciare il potere con dignità, ma la sua missione durò poco: si disse che Wisner aveva rapporti troppo solidi con Mubarak e che trattava a nome proprio, non per conto della Casa Bianca. Le autorità militari dell’Egitto e i manifestanti radunati nel centro della capitale hanno impedito altre “interferenze straniere”, come furono chiamati allora i tentativi diplomatici americani. Insomma, l’occidente ha cercato d’insinuarsi nei meccanismi della rivolta, ha provato a sfruttare anche i buoni uffici della Turchia, uno dei leader della regione, ma ha dovuto rinunciare ai tentativi. Oggi si può dire che l’Europa e gli Stati Uniti sono stati esclusi dal processo che ha portato alla caduta di Mubarak, e che faticano a contenere i movimenti del nuovo Egitto. E questo avviene nonostante le promesse di Obama, che ha appena annunciato un piano di incentivi economici da un miliardo di dollari in favore del Cairo. I Fratelli musulmani, un gruppo che vuole portare in politica i principi dell’islam, potrebbero passare dalle prigioni alle poltrone del Parlamento. Il governo provvisorio ha rilanciato i rapporti con l’Iran – due mesi fa, una nave militare della Repubblica islamica ha attraversato il Canale di Suez per la prima volta dagli anni Settanta – e ora è pronto a riaprire il valico di Rafah, il passaggio che collega l’Egitto alla Striscia di Gaza. Secondo le fonti ufficiali, la svolta dovrebbe avvenire questa mattina alle 9. Il confine è chiuso dal 2007, l’anno in cui Hamas ha preso il potere a Gaza City. Questa operazione segna la vera rivoluzione dell’Egitto, sempre più lontano dagli interessi dell’occidente e di Israele. E avvantaggia soprattutto i terroristi di Hamas, che ora ha una valvola di sfogo lungo il confine meridionale della Striscia.
Le pressioni inutili sul Bahrain. Il sovrano del Bahrain, Hamad bin Isa al Khalifa, ha scelto la linea dura per stroncare sul nascere le proteste esplose nelle strade della sua capitale, Manama: squadracce di mercenari e di paramilitari arrivate dal Pakistan, perquisizioni nelle moschee sciite, nelle scuole e negli ospedali, ordine di aprire il fuoco contro qualunque tipo di manifestazione. Il Bahrain è un angolo di Penisola araba che ha una posizione strategica per gli equilibri della regione. Si affaccia sul Golfo persico, proprio di fronte all’Iran, e ospita la Quinta flotta della marina americana. Anche per questo l’occidente non ha fatto grandi pressioni su al Khalifa, che ha avuto il tempo necessario per reprimere le manifestazioni nelle sue piccole piazze e rilanciare la propria autorità sul paese. Grazie anche al sostegno militare dei vicini sauditi, che gli hanno fornito armi e uomini contro gli oppositori.
Le sanzioni e il massacro siriano. In Siria l’occidente ha provato a fare pressione sul regime di Bashar el Assad con lo strumento più aggressivo di cui dispone, eccetto i bombardamenti: le sanzioni. Ha congelato i beni del rais e dei suoi gerarchi all’estero – o meglio, in Europa e negli Stati Uniti – e ha minacciato di applicare sanzioni anche più dure. Nessuno s’azzarda anche soltanto a pensare a pressioni di tipo militare su Damasco: l’area è al centro della polveriera mediorientale, la sua destabilizzazione coinvolgerebbe Israele, sempre a rischio aggressione, farebbe saltare l’equilibrio su cui si regge precariamente il Libano, trascinerebbe con se anche l’Iraq vicino di confine – c’è un traffico virulento di estremisti tra i due paesi. E farebbe scattare la reazione imprevedibile dell’Iran. Ma le misure economiche non stanno salvando la rivolta dei siriani. Il regime è in vantaggio, gli oppositori stanno perdendo la loro determinazione. Dopo quasi mille e cento morti – secondo le fonti locali, perché tutti i giornalisti stranieri sono stati cacciati, alcuni anche imprigionati per settimane – dopo i carri armati in azione contro i cortei, dopo le fosse comuni, oggi potrebbe essere l’ultimo venerdì di protesta, l’ultimo appuntamento per una protesta che non riesce a prevalere sulla ferocia del fratello generale del presidente, Maher el Assad. Il regime sa che davanti alle fiammate della maggioranza sunnita le sanzioni americane ed europee sono un problema secondario, e in fondo c’è tutto il resto del mondo per muovere le proprie ricchezze e fare affari. A cominciare dalla Russia, tradizionalmente vicina a Damasco, e alla Cina, a cui delle repressioni brutali contro i dissidenti interni non potrebbe importare di meno.
Fare tutto da soli in Arabia Saudita. L’occidente non osa nemmeno suggerire al regno dei Saud il modo giusto di comportarsi con le proprie frange di dissidenti. La monarchia è furiosa per il voltafaccia di Washington, che ha abbandonato al risentimento della piazza il presidente egiziano Mubarak, alleato comodo per tanti anni, e ora non accetta consigli – al punto da sbattere la porta in faccia al segretario di stato americano, Hillary Clinton, a cui è stata rifiutata una visita ufficiale. Re Abdullah ha coperto con generosissime misure di welfare – finanziate dai petrodollari – le classi più bisognose del paese, ha minacciato di conseguenze gravissime i pochi insistenti che hanno provato a manifestare e non è stata sfiorato, per ora, da i problemi che stanno travolgendo gli altri autocrati. E’ il solo modello arabo che per ora funziona, nel senso che si capisce con chiarezza chi doma e chi è domato, che cosa succede e che cosa succederà. E non è un caso che l’occidente ne sia stato completamente estromesso.
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