Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 27/05/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Guai ebraici di Obama ". Ecco l'articolo, seguito dal commento di Alan Dershowitz dal titolo " Obama si spiega, e fa di male in peggio ".
Il FOGLIO - " Guai ebraici di Obama "
Barack Obama
Roma. Ieri il New York Times ha spiegato che la questione israeliana potrebbe risultare decisiva nella rielezione di Obama nel 2012, tanto è stato lo scandalo nella comunità ebraica americana generato dalle prese di posizione di Obama su Israele (l’ultima è la richiesta di tornare ai confini armistiziali del 1967, che Gerusalemme giudica indifendibili). Nel suo discorso al Congresso, il premier israeliano Benjamin Netanyahu è stato accolto da ovazioni bipartisan, con i deputati democratici particolarmente generosi nei suoi confronti. Obama, che il Wall Street Journal in un editoriale ha appena definito “presidente antisraeliano”, nel 2008 ottenne l’ottanta per cento dei voti della comunità ebraica. Un capitale politico e finanziario che il presidente rischia di perdere nella corsa alla rielezione visto che anche il magnate Haim Saban ha deciso di ritirare i finanziamenti a Obama. Alla Cnbc, Saban ha detto: “Obama non ha bisogno dei miei soldi”. La dichiarazione ha fatto titolo su tutti i quotidiani israeliani e americani, visto che nel 2008 il milionario era stato il maggior donatore del Partito democratico. Saban, noto come “il re Mida dei media”, è da sempre molto attivo per la sicurezza d’Israele e numerosi centri studi portano il suo nome (dal Saban Institute all’Università di Tel Aviv al Saban Center della liberal Brookings Institution). Socio di Rupert Murdoch alla Fox News e proprietario della fortunata serie “Power Rangers”, Saban è chiamato semplicemente “The influencer”, dal titolo di una recente gigantografia del settimanale New Yorker. Il Wall Street Journal ha pubblicato un’inchiesta sui donatori ebrei di Obama che stanno ritirando il sostegno per il 2012. Come il magnate delle costruzioni Robert Copeland: “Obama ha degradato il popolo israeliano”. Anche un liberal come l’ex sindaco di New York Ed Koch voterà per i repubblicani: “Obama è stato ostile a Israele”. C’è tempo per recuperare, ma un sondaggio della McLaughlin & Associates dice che il 46 per cento degli ebrei americani starebbe pensando a un altro candidato. Metà di quelli che votarono per Obama nel 2008.
HUDSON NEW YORK - Alan Dershowitz - " Obama si spiega, e fa di male in peggio "
(Traduzione di Laura Camis de Fonseca)
Alan Dershowitz
Durante conferenza stampa con David Cameron a Londra mercoledì scorso il presidente Obama ha spiegato perché insiste a dire che il primo passo per una soluzione di pace sulla base di due stati sia l’accettazione da parte di Israele delle frontiere del 67, con modifiche da concordarsi. Ecco le sue parole: ‘ saranno necessari compromessi dolorosi da entrambe le parti. Negli ultimi 10 anni durante le negoziazioni si sono presentati costantemente quattro argomenti. Il primo è quello dei confini di un eventuale stato palestinese, il secondo è quello di come garantire la sicurezza di Israele. Il terzo: come risolvere il problema dei rifugiati palestinesi. Il quarto: la questione di Gerusalemme. Gli ultimi due punti destano reazioni di grande emotività, perchè toccano le fondamenta dell’identità del popolo ebraico e di quello palestinese. Verranno prima o poi risolte dalle due parti. Ma credo che si potranno risolvere soltanto se c’è la prospettiva e la promessa di arrivare con certezza allo stato palestinese e alla sicurezza dello stato ebraico.’’
Quest’ultima frase rivela l’errore nel pensiero di Obama sul conflitto Israelo-palestinese. Israele non può accettare compromessi sulle frontiere se non c’è nel contempo la rinuncia dei Palestinesi al diritto al ritorno. Il primo ministro palestinese Salaam Fayyed un giorno mi disse che ognuna delle due parti ha in mano una carta vincente da giocare in un compromesso. Per Israele la carta è la Cisgiordania, il compromesso è il ritorno alle frontiere del 67 con modifiche e scambi concordati; per i Palestinesi la carta è il diritto al ritorno e il compromesso è che i rifugiati torneranno in Palestina e non in Israele - che perciò non ci sarà diritto al ritorno in Israele.
La formula del presidente Obama chiede a Israele di rinunciare alla propria carta vincente e fare un doloroso compromesso smantellando gli insediamenti in Cisgiordania e rinunciando al West Bank, ma senza chiedere ai Palestinesi di rinunciare alla loro carta vincente e rinunciando al diritto al ritorno. Questo argomento altamente emotivo dovrebbe essere affrontato in negoziazioni successive, dopo l’accordo sulle frontiere.
Questo ordinamento temporale dei negoziati, che richiede ad Israele di rinunciare alla carta territoriale prima che i Palestinesi inizino a negoziare su diritto al ritorno, è un ostacolo insormontabile per Israele, ed è più di quanto chiedano gli stessi Palestinesi negli incontri non ufficiali. Offrendo di nuovo ai Palestinesi più di quanto loro stessi chiedano per iniziare i negoziati, Obama ha reso difficile, se non impossibile, ai Palestinesi di raggiungere un compromesso. All’inizio del suo mandato Obama insistette sul congelamento delle costruzioni nel West Bank da parte di Israele, anche se i Palestinesi non avevano mai posto tale condizione per l’avvio di negoziati. Così ha obbligato i leader palestinesi a porre anche loro questa condizione per l’avvio di negoziati, perché nessun leader palestinese più permettersi di sembrare meno filo-palestinese del Presidente USA. Ora lo fa di nuovo, non chiedendo ai Palestinesi di rinunciare al diritto al ritorno in cambio del ritorno alle frontiere del 67 con modifiche concordate.
Il punto non è che cosa Obama ha detto, ma che cosa non ha detto. Sarebbe stato facile per il Presidente parlare così:
‘Chiedo a entrambi di fare un compromesso doloroso estremamente difficile dal punto di vista emotivo. Per Israele il compromesso è la rinuncia al diritto storico e biblico sulla Giudea e Samaria. Il compromesso richiederà frontiere un po’ più sicure di quelle che hanno portato alla Guerra del ’67. Anche la risoluzione 242 dell’ONU ha riconosciuto la necessità di modifiche alle linee del ’67 per la sicurezza di Israele. Dopo il 67 l’evoluzione demografica è stata tale da richiedere accordi per scambi territoriali fra Israele e il nuovo stato palestinese. Il compromesso territoriale sarà doloroso per Israele, ma varrà la pena, perché permetterà ad Israele di continuare ad essere uno stato ebraico e democratico, in cui tutti gli abitanti sono uguali davanti alla legge.
Per i Palestinesi il compromesso significa riconoscere che, perché Israele possa essere lo stato democratico del popolo ebraico, i rifugiati palestinesi e di loro discendenti dovranno stabilirsi in Palestina. Avranno cioè il diritto al ritorno, ma in Palestina e non in Israele. Questo sarà un bene per Israele e per la Palestina. La Palestina avrà la certezza dell’ampio e produttivo afflusso di Palestinesi da tutto il mondo. La diaspora palestinese aiuterà a costruire uno stato Palestinese politicamente ed economicamente autosufficiente. I capi Palestinesi debbono accettare l’idea - e probabilmente sono pronti a farlo - che i profughi palestinesi ed i loro discendenti non avranno diritto al ritorno in Israele. Si potrà negoziare una compensazione per i Palestinesi che lasciarono Israele durante la Guerra del 1948, e per gli Ebrei che lasciarono i paesi arabi durante e dopo la guerra.’
Non è troppo tardi per ‘spiegare’ che Obama intendeva dire questo affermando che Israele deve rimanere lo stato degli Ebrei e che un governo palestinese che vuole un compromesso con Israele deve accettare questa realtà. Il fondamento dell’esistenza nel tempo di Israele come stato nazionale degli Ebrei comporta che i Palestinesi riconoscano che non possono avere il cosiddetto ‘diritto al ritorno’ in Israele, e che i leader e il popolo palestinese riconoscano che Israele sarà lo stato nazionale degli Ebrei in frontiere sicure e riconosciute. Se il presidente Obama non manda chiaramente questo messaggio non soltanto agli Israeliani ma anche ai Palestinesi, non farà passi avanti, ma passi indietro, nel processo di pace.
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