Sul FOGLIO di oggi, 24/05/2011, a pag.3, due analisi su Yemen e Pakistan
"Le buone non servono contro il regime in Yemen "
Il presidente Saleh rifiuta l'accordo per andarsene e fa attaccare una riunione dell'opposizione.Battaglia nel centro della capitale.
Ali Saleh, presidente Yemen
Roma. Ieri nella capitale dello Yemen, Sana’a, c’è stata una fiammata di violenza che ha anticipato quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni, il confronto armato tra l’opposizione, esasperata dall’attesa di un accordo con il presidente Ali Abdullah Saleh, e le forze di Saleh. All’una locale un centinaio di lealisti del presidente – ma per lo più si tratta di lealtà comprata con denaro, in un paese dove si vive con meno di due euro al giorno – ha assaltato la casa del capo dell’opposizione, o meglio del capo della tribù più influente che aderisce al movimento di opposizione che vuole fare cadere il regime, Sadiq Abdullah Ahmar. L’assalto è avvenuto mentre dentro la casa era in corso una riunione dei leader dell’opposizione, ma le centinaia di colpi sparati e i razzi non sono andati a segno. Quasi subito, da fuori la capitale, gli uomini del clan – gli hashid, uno dei due più potenti del paese – hanno cominciato a correre in soccorso della casa assediata. In Yemen tutte le tribù hanno abbastanza armi da fare invidia a un esercito regolare e ciascun componente ha esperienza militare, è la scala bellicosa su cui si misura la dignità degli yemeniti. Negli stessi minuti, agenti della Sicurezza centrale, della Najda – la polizia per le emergenze – e soprattutto soldati della Guardia repubblicana, la divisione di pretoriani comandata con piglio dittatoriale dal figlio del presidente, Ahmed, sono arrivati sul posto per bloccare gli uomini del clan. Nella battaglia che è infuriata, secondo i giornalisti del quotidiano nazionale Yemen Post, sono morte 18 persone. Il ministero dell’Interno, i palazzi vicini dell’agenzia governativa Sabanews e della compagnia di bandiera Yemenia Airways hanno preso fuoco, perché il quartiere al Hasaba è centrale e include quasi tutte le sedi istituzionali che contano. “Non si è trattato di una rappresaglia contro gli edifici legati al governo – dice al Foglio chi c’era, senza nome per ragioni di sicurezza – o di un attacco ai media. Gli hashid hanno sparato a quei palazzi perché sui tetti c’erano i soldati e gli uomini della Sicurezza centrale, che li stavano bersagliando”. Hillary Clinton ieri aveva appena detto che il comportamento del presidente Saleh, che rifiuta ogni accordo, “è una delusione”. “E chi è, sua madre?”, rispondono dalla piazza di Sana’a. La vampa conferma le ipotesi più pessimiste sulla soluzione della crisi in Yemen. Per la prima volta, il confronto non è stato tra gli uomini del governo e manifestanti pacifici, capaci di sfidare le armi a mani alzate. Questa volta c’è stato un confronto armato, clan contro soldati, fucili contro fucili. L’irreale parentesi gandhiana a cui l’opposizione teneva tanto, lo sforzo di mostrare al mondo che si tratta di una rivoluzione pacifica, che conta più la forza delle idee di quella delle armi, sembra sul punto di chiudersi. In un paese dove circolano ventotto milioni di armi da fuoco per ventitré milioni di abitanti e dove ogni omicidio si trasforma in una catena infinita di vendette personali tra gruppi rivali, la rivoluzione contro Saleh rischia da adesso di precipitare verso uno scenario di guerra come in Libia, più che verso una transizione non durissima come in Tunisia. La violenza, oppure un prolungamento dello stallo che dura ormai da tre mesi, sarebbe il fallimento delle iniziative del Gcc, il Gulf Cooperation Council, la lega di regni sunniti guidata dall’Arabia Saudita che sta cercando un ruolo politico più forte e vuole smarcarsi dall’influenza di Washington. Saleh per tre volte ha rifiutato di firmare un accordo che sembrava già concluso e di dare le sue dimissioni. All’ultima cerimonia, andata in fumo all’ultimo momento, gli ambasciatori occidentali hanno dovuto essere evacuati in elicottero perché una folla inferocita formata dai sostenitori del presidente assediava il palazzo della firma “per farlo desistere”.
"I talebani cominciano le ' guerre stellari ' contro il Pakistan"
Attacco in stile Hollywood a una base militare di Karachi. E'la lunga vendetta contro il governo per l'uccisione di Bin Laden.
Talebani
Roma. Forse il paragone con “Guerre stellari” è esagerato. Ma il ministro dell’Interno pachistano, Rehman Malik, deve aver pensato che fosse il modo migliore per spiegare ai giornalisti quel che è successo ieri nel porto di Karachi, una metropoli da venti milioni di abitanti che s’allarga sulla costa dell’Oceano Indiano, dove un commando di terroristi ha ingaggiato una battaglia lunga sedici ore contro le squadre speciali dell’esercito. “Avevano venti o ventidue anni – ha detto Malik nel pomeriggio – Portavano abiti occidentali e cinture esplosive. Sono riusciti a entrare aprendo un varco nel reticolo di sicurezza e hanno cominciato a combattere come se fossero star di Hollywood”. I reporter pachistani usano espressioni meno colorite ma la sostanza non cambia. I ribelli hanno dato l’assalto alla base militare Mehran domenica notte, uccidendo almeno venti soldati. Erano carichi di granate e lanciarazzi, l’esercito cito ha circondato la zona per tutta la notte, fra esplosioni e spari. Tehrik-e-taliban- Pakistan, un gruppo legato ad al Qaida, non ha aspettato la fine della battaglia per rivendicare l’attacco. “Quindici dei nostri sono dentro alla base e non ci aspettiamo di rivederli: sono lì per uccidere – ha annunciato il portavoce dei terroristi, Ehsanullah Ehsan – Il nostro problema è l’amicizia fra il Pakistan e gli Stati Uniti”. Secondo il ministro Malik, il commando era composto da quattro uomini, “soltanto quattro, tutti eliminati”, il che aumenta i sospetti sulle complicità fra il gruppo e le Forze armate del Pakistan: com’è possibile che quattro terroristi tengano un’intera base sotto assedio? “Questo attentato mostra che i talebani hanno simpatizzanti nei servizi di sicurezza – sostiene Talat Masood, un ex generale dell’esercito che ora è analista in un think tank di Islamabad – Le loro azioni sono sempre più raffinate come gli obiettivi che colpiscono”. Mehran, in effetti, non è una caserma qualunque. Al momento dell’attacco, nella base c’erano una decina di istruttori americani e cinesi – alcuni di loro sono stati presi in ostaggio dai terroristi – ma soprattutto due P-3C Orions, gli aerei spia che la Casa Bianca ha ceduto al Pakistan per sorvegliare i confini con l’India e con l’Afghanistan. A poca distanza ci sono l’aeroporto internazionale Quaid-e-Azam e una struttura che ospita armi nucleari. I primi a intervenire nel recinto militare di Mehran sono stati i Ranger del Sindh, ma lo stato maggiore ha dovuto impiegare i commandos della marina e gli uomini dello Special service group per respingere l’attacco. La base di Karachi è stata scelta per un motivo pratico: i terroristi cercavano di distruggere i droni importati dall’America, uno degli strumenti più efficaci nella lotta contro i ribelli che si muovono lungo il bordocon l’Afghanistan. Ma il colpo ha anche un valore simbolico. E’ la conferma che al Qaida sta concentrando le forze sul fronte di combattimento pachistano, come sostiene Syed Saleem Shahzad di Asia Times. Questa strategia è maturata dopo il raid di Abbottabad, che ha permesso all’esercito americano di eliminare Osama bin Liden: per i terroristi, le colpe del governo di Islamabad sono pari a quelle dell’occidente. Non è un caso che le vendette più sanguinose siano avvenute proprio in Pakistan e abbiano provocato più morti fra i militari che fra i civili. Il 13 maggio, due esplosioni hanno colpito una caserma uccidendo almeno ottanta cadetti. Il livello dello scontro sale di giorno in giorno. Ieri al Qaida non ha colpito soltanto a Karachi, nella parte sud del paese, ma anche al nord, sull’autostrada che collega la capitale Islamabad a Peshawar, dove un ponte è stato distrutto con una carica di esplosivo.
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