Riuscita l'OPA iraniana su al Qaeda Nuovo capo con etichetta Ahmadinejad
Testata: Il Foglio Data: 20 maggio 2011 Pagina: 3 Autore: Redazione del Foglio Titolo: «Ringraziare l’Iran, che ci ha dato il nuovo capo di al Qaida»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 20/05/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo "Ringraziare l’Iran, che ci ha dato il nuovo capo di al Qaida".
Saif al Adel
Roma. I Navy Seal si sono impadroniti di un tesoro di informazioni nel rifugio di Osama bin Laden e lo hanno consegnato nelle mani di un centinaio di analisti americani, che ora lo frugano alla ricerca di indizi e di piste da sfruttare il più velocemente possibile. Per questo i capi di al Qaida, che devono nominare un successore ufficiale, hanno il comprensibile terrore di riunirsi. Non vogliono che il conclave si trasformi in un secondo disastro, l’occasione regalata al nemico per una retata definitiva. Per ora hanno scelto come capo ad interim l’egiziano Saif al Adel, secondo due fonti diverse, l’ex leader del braccio libico del gruppo, Noman Benotman, che poi si è dissociato, e il giornale pachistano News, che vanta fonti locali. La notizia sarebbe contestata da alcuni osservatori, che sostengono che sia tutta propaganda dei servizi segreti pachistani, come risposta ai servizi segreti indiani, grandi nemici, che stanno invece facendo circolare come nome del successore quello di Ilyas Kashmiri, un comandante pachistano – per rafforzare implicitamente l’equazione Pakistan uguale al Qaida. Saif al Adel – in arabo vuol dire “Spada della giustizia” – è una vecchia rockstar del terrorismo. Il vero nome è Muhammad Ibrahim Makkawi, ex colonnello delle forze speciali egiziane, membro clandestino del Jihad islamico incriminato nel 1987 per il tentato assassinio dell’ex ministro dell’Interno del Cairo, Hasan Abu Basha. C’era lui agli albori di al Qaida, durante le prime operazioni in terra d’Africa: la battaglia di Mogadiscio che nel 1992 costò la vita a 18 soldati americani e che poi fu raccontata da un film, “Black Hawk Down”, e gli attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania nel 1998. Fu lui a notare Abu Musab al Zarqawi, il giordano che divenne il nemico numero uno degli americani durante la guerra in Iraq, e a metterlo in collegamento con la leadership centrale di al Qaida. Di al Adel gira soltanto una foto in bianco e nero da giovane, un viso asciutto e chiaro, ma ormai ha superato i 50 anni. Cinque milioni di dollari di taglia sulla testa. Per gli ultimi dieci anni il nuovo leader è stato tenuto nel congelatore dagli iraniani. Come tanti appartenenti ad al Qaida, anche lui fuggì attraverso la rat line – la scappatoia per topi – di Mahshad, sul confine tra Afghanistan e Iran, appena le prime bombe cominciarono a piovere sui talebani nel 2001. Ma fu trattenuto “agli arresti domiciliari” dagli iraniani, assieme ad altri membri influenti, come il figlio del capo, Said bin Laden. Quasi un decennio trascorso in alcune villette a schiera sul mare, lontane da occhi indiscreti, continuando a elaborare strategie per il gruppo, a impartire ordini – come una campagna di attentati in Arabia Saudita nel 2003 – e a seguirne le vicende. Poi l’anno scorso gli iraniani seguendo i loro imperscrutabili disegni geopolitici (che però al fondo hanno un obiettivo soltanto: mettere in difficoltà Washington) lo hanno rigettato in acqua e, secondo fonti dell’intelligence americana, lui ha raggiunto subito gli altri pesci grossi nelle zone di confine tra Pakistan e Afghanistan. La sua nomina, anche se soltanto temporanea, minaccerebbe di incrinare l’unità della leadership. All’indomani della morte di Bin Laden, i gruppi di al Qaida in Iraq e in Yemen – i due più importanti – hanno subito dichiarato la loro obbedienza al numero due del gruppo, l’altro egiziano, Ayman al Zawahiri. Fra i due non corre buon sangue. A febbraio, sui siti estremisti sono circolate cinque lettere di Saif al Adel – firmate con un secondo pseudonimo, ma si è dimostrato che lui è l’autore – che criticano l’ideologo. Oltre al contrasto tra i due egiziani c’è anche una faida tra il ramo egiziano e quello saudita di al Qaida, a cui apparteneva Bin Laden. C’era un dissenso strategico enorme: il gruppo di Zawahiri, ospitato nelle aree tribali dai talebani pachistani, aveva dichiarato una guerra fratricida e sanguinosa contro il Pakistan: il gruppo di Osama continuava a considerare la guerra all’America e il sogno di un grande secondo colpo – come quello dell’11 settembre – e forse godeva di protezione da parte dell’establishment pachistano (come dimostrerebbe la clamorosa scoperta del rifugio e tutti i sospetti che sono seguiti). Circola anche il sospetto che i qaidisti di Zawahiri abbiano lasciato che gli americani imboccassero la pista giusta che portava a Bin Laden, per sbarazzarsi di un leader simbolico ormai diventato troppo ingombrante e operativamente poco utile. La nomina dell’egiziano Saif al Adel sarebbe stata decisa da un gruppo ristretto di sette-otto capi, contro il parere della fazione saudita che ritiene la nascita nella terra santa dell’islam un requisito necessario per la guida del gruppo. Forse, dice Benotman, la nomina a tempo di al Adel rende più accettabile e apre la strada alla nomina a vita del non saudita Zawahiri. La fuga del Mullah Omar Ieri i servizi segreti del Pakistan hanno detto che lo yemenita arrestato il 4 maggio, due giorni dopo l’uccisione di Bin Laden, nella metropoli portuale di Karachi era l’uomo di collegamento tra il capo e al Zawahiri. L’annuncio è inusuale, e sembra far parte dello sforzo rinnovato dei pachistani per rimediare al disastro d’immagine della scoperta e dell’uccisione di Osama nel cuore del paese e per sembrare alleati affidabili dell’America. Gli osservatori malevoli – che però per tutto quanto riguarda i rapporti tra al Qaida e i servizi pachistani spesso ci azzeccano – interpretano l’arresto come la mossa ovvia per spezzare la catena che da Bin Laden porta al suo numero due, prima che ci arrivassero gli americani alle prese con la loro messe di dati da decifrare. Un’altra gara contro il tempo è quella per fare sloggiare il Mullah Omar dal Pakistan. Il capo dei talebani è nascosto, secondo una moltitudine di fonti, tra la città settentrionale di Quetta e Karachi, a sud – per alcuni sarebbe addirittura ospite di una caserma. I servizi vorrebbero che si trasferisse subito a Helmand, nel sud dell’Afghanistan, dove il leader sarebbe senz’altro più esposto ai raid degli americani, ma almeno si eviterebbe l’imbarazzo catastrofico che seguirebbe alla sua eventuale cattura nel Pakistan. Prima Bin Laden, poi il Mullah Omar. Le relazioni con Washington ne uscirebbero a pezzi per sempre. Lo spostamento del Mullah Omar in Afghanistan (oppure la sua morte) potrebbe anche interrompere, sperano i pachistani, il negoziato tra americani e talebani – che il Washington Post descrive in una fase di improvvisa e fruttuosa accelerazione. Entrambe le parti sanno che i pachistani sono furiosi per essere stati esclusi.
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